Corriere Salute 28.2.16
Il linguaggio «modella» il cervello
Sono
 in continuo sviluppo gli studi scientifici che provano come la lingua, o
 le lingue, che parliamo condizionino il nostro modo di pensare e le 
nostre emozioni. E aumentano le prove a sostegno dei vantaggi portati 
dalla conoscenza di più idiomi, anche se vengono appresi in età 
avanzata 
di  Elena Meli
La lingua che
 parliamo influenza la personalità il linguaggio è in grado di 
“modellare” il nostro cervello, le convinzioni e anche gli atteggiamenti
 cambiando il modo di pensare e di agire Il meccanismo Chi parla più 
lingue quando si esprime deve usarne una e “inibire” le altre. Per 
farlo, il cervello sviluppa di più le aree di controllo esecutivo
La
 capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, 
strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli 
altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il 
nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di
 pensare e agire. Essere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti
 diversi sull’architettura del pensiero, stando a un numero sempre più 
nutrito di studi. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi 
diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il 
mondo.
In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega 
Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia 
dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso
 oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che 
dipendono dal substrato culturale specifico».
In cinese “drago” 
rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un 
simbolo di fortuna, forza, saggezza: inevitabilmente un cinese “vedrà” 
in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale. 
Accadrà lo stesso a un bilingue: per un anglo-cinese il drago sarà meno 
spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle parole
 di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — 
sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una 
semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai 
linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più 
curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e 
questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. 
Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una 
lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una 
resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».
L’influenza del 
linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti 
sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS One 
ha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad
 avere meno remore morali.I partecipanti all’esperimento pubblicato su 
PLOS One infatti accettavano di sacrificare una persona per salvarne 
cinque — facendo una scelta “utilitaristica”—più spesso se veniva loro 
chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il 
loro parere in madrelingua: in questo secondo caso prevaleva infatti il 
divieto morale a uccidere.
«Un idioma che non sia appreso dalla 
nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si 
deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la 
madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei 
sentimenti» commenta Abutalebi.
Il linguaggio appreso in culla è 
anche quello che più modula la nostra struttura mentale. E la lingua può
 perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto 
l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles: i cinesi, che 
non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una 
propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi 
parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente 
il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando 
meno a risparmiare», ha spiegato Chen.
Si è scoperto che pure 
indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno 
studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si 
accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché
 la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in 
finlandese non accade.
In alcuni casi gli effetti di un idioma 
sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, 
ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non 
esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o 
“tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.