Corriere La Lettura 7.2.16
Pseudologia fantastica
La verità delle bugie
La pseudologia fantastica, nota dal 1891, è un disturbo ancora poco studiato
Quando si incomincia a mentire? Perché?
Non solo: le menzogne hanno un ruolo nell’aggregazione delle comunità umane
di Fabio Deotto
Sono
passati più di dieci anni da quando un giornalista del «New York
magazine» ha costretto Laura Albert a gettare la maschera, rivelando
quella che ancora oggi è ricordata come una delle imposture letterarie
più efficaci a memoria di lettore. Per quasi dieci anni Albert aveva
pubblicato dietro lo pseudonimo di J. T. LeRoy, raccontando
un’adolescenza fittizia fatta di violenze e tossicodipendenza, e
arrivando addirittura a indurre la propria cognata, Savannah Knoops, a
impersonare LeRoy nelle sue apparizioni pubbliche.
Qualche giorno
fa al Sundance Film Festival è stato presentato un documentario
intitolato Author: The JT LeRoy Story che riprende la storia di Laura
Albert e proietta nuova luce su un tipo di disturbo ancora poco
studiato: il termine medico è pseudologia fantastica , ma è più noto
come mitomania o bugia patologica.
Il primo caso noto risale al
1891, eppure ancora oggi la pseudologia fantastica non viene
riconosciuta come disturbo psichiatrico a sé stante. In uno studio del
2012 intitolato Defining, understanding and diagnosing psychological
lying la psicologa Katie Elizabeth Treanor definisce bugia patologica
«l’abituale, prolungata e ripetuta produzione di mistificazioni, spesso
di natura complessa e fantasiosa (...), bugie facilmente smascherabili
che non vengono utilizzate per ottenere un tornaconto materiale o un
qualsivoglia vantaggio sociale, quanto per accrescere la propria
autostima o proteggersi dal giudizio altrui».
Quando si parla di
bugiardi patologici spesso si tende a porre l’accento sul loro
background infantile, sull’indigenza delle famiglie d’origine, sulle
molestie in ambiente domestico, sull’emarginazione e il bullismo nei
corridoi di una scuola; il che però rischia di essere fuorviante, perché
lascia intendere che questi individui utilizzino le menzogne per
operare una cesura netta con una vita che non hanno mai sentito propria,
come degli abili e ostinati Mattia Pascal. In realtà spesso il processo
di costruzione della menzogna avviene in modo graduale. L’individuo
comincia con una piccola bugia, che potrebbe benissimo essere rivelata
senza gravi conseguenze, e pur di nasconderla ne ricama attorno delle
altre, generando un effetto palla di neve che finisce per travolgerlo:
quella che doveva servire da corazza, alla fine si rivela uno strumento
di tortura come la Vergine di Norimberga.
«Di norma una bugia
serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale —
scrive Emmanuel Carrère ne L’Avversario —. La sua non nascondeva
nulla». Fino ai vent’anni Jean-Claude Romand, l’impostore su cui è
incentrato il libro di Carrère, vive una vita normale, è un ragazzo
serio, studioso, forse un po’ troppo preoccupato di non scontentare i
propri genitori, in particolare la madre, ma nulla che lasci presagire
un comportamento patologico. Le cose cambiano un giorno del settembre
1975, quando invece che recarsi a una sessione di esame all’università,
decide di rimanere a letto, per poi informare i genitori che l’esame è
andato bene: è l’inizio di una serie di bugie sempre più elaborate di
cui rimarrà ostaggio per 18 anni. Nel 1993, quando l’architettura di
menzogne sta ormai per collassare, Romand uccide moglie, figli e
genitori.
Il profilo di Romand si discosta leggermente dalla
definizione di Treanor, perché se da un lato l’uomo ha cominciato a
mentire per difendersi dal giudizio di chi lo circondava, in seguito non
si fa problemi a utilizzare nuove menzogne per estorcere soldi; il suo
caso però è emblematico: Romand ha di fatto costruito (e puntellato) una
realtà alternativa in cui rifugiarsi al riparo da ogni interferenza
esterna, un comportamento tipico dei bugiardi patologici.
Un
discorso diverso vale per Enric Marco Batlle, il sindacalista catalano
al centro del più recente L’impostore di Javier Cercas. «I buoni
bugiardi non soltanto trafficano con le menzogne, ma anche con le
verità», scrive lo scrittore spagnolo «e le grandi menzogne si
costruiscono con piccole verità». L’impostura di Enric Marco viene
smascherata nel 2005, quando l’uomo ha 84 anni e ha passato gran parte
della vita facendo credere di essere sopravvissuto al campo di
concentramento nazista di Flossenbürg. A differenza di Romand, il
catalano ha architettato una menzogna sostenibile, e per farlo si è
assicurato di ancorare ogni bugia a un sostrato di verità: è falso che
sia mai stato internato in un lager nazista, ma è stato veramente
arrestato dalla Gestapo e rinchiuso per tre settimane in un carcere
della Germania nazista. Più che raccontare una serie di bugie, Enric
Marco ha costruito una realtà fittizia ma credibile su cui poteva avere
un controllo quasi totale, il che a livello concettuale, come dimostra
il caso Albert-LeRoy, e come Cercas non manca di sottolineare nel suo
libro, non è poi così diverso da quello che fa uno scrittore di
finzione.
Se la pseudologia fantastica non è facilmente
diagnosticabile, è perché spesso è il prodotto di una convergenza di
cause. Studi clinici rivelano che in circa il 40% dei bugiardi
patologici sono presenti anomalie neurologiche, che possono essere
correlate a epilessia, infezioni del sistema nervoso centrale o traumi
cranici. Il bugiardo patologico spesso ottiene punteggi superiori alla
media nei test cognitivi e mostra uno spiccato talento per la
comunicazione, scritta o orale che sia. In alcuni casi il bugiardo
patologico presenta caratteristiche tipiche di altri disturbi della
personalità (antisociale, istrionica, narcisistica), in altri le
menzogne prodotte finiscono per diventare falsi ricordi, così che la
persona non è più in grado di distinguere la realtà dalla sua stessa
finzione. Quello che è chiaro è che i primi sintomi di questo disturbo
si manifestano di solito nella tarda adolescenza, intorno ai sedici
anni, età in cui solitamente si è obbligati a prendersi le
responsabilità per le proprie azioni e a gestire le pressioni
dell’ambiente.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le
bugie hanno avuto un ruolo cruciale nell’aggregazione delle comunità
umane. Come ha spiegato il fisico e filosofo finlandese Kimmo Kaski in
uno studio pubblicato lo scorso anno: in un contesto in cui la
maggioranza delle persone tende a dire la verità, le bugie possono
servire a creare e consolidare legami con comunità che abbiano idee e
abitudini diverse, e che altrimenti risulterebbero isolate. Questo
tuttavia non significa che mentire sia intrinsecamente vantaggioso per
lo stato di salute di una società.
Basti pensare a come negli
ultimi anni la tecnologia abbia messo a disposizione un ambiente
virtuale protetto che consente a chiunque di dare sfogo al proprio lato
mitomaniaco: i social network. Per la maggior parte degli utenti creare
un profilo Facebook significa allestire una realtà alternativa (e
virtualmente inconfutabile) in cui incastonare una versione edulcorata
di se stessi, e studi recenti rivelano che due terzi degli utenti
infarciscono la propria vita social di piccole e grandi bugie. Esistono
teorie secondo cui l’abitudine di affidare alle piattaforme online i
propri ricordi (in forma di foto, video e resoconti scritti) finisca per
indurre alcuni utenti a confondere la realtà dei fatti con la loro
proiezione online, un fenomeno ancora poco studiato noto come «amnesia
digitale».
«Non siamo ciò che fingiamo di essere, perciò dovremmo
fare attenzione a chi fingiamo di essere» scriveva Kurt Vonnegut e il
suo monito non è mai stato così attuale.