Corriere La Lettura 7.2.16
L’antropologo
La morte non è la fine ma «in paradiso» vanno solo i guerrieri
Le visioni degli indigeni Kanak e Dayak
di Adriano Favole
Uno
dei più celebri scambi di battute nella storia dell’antropologia
avvenne agli inizi del XX secolo, dalle parti di Houailou, un piccolo
villaggio della Nuova Caledonia (Melanesia, Pacifico occidentale).
Maurice Leenhardt, pastore protestante ed etnologo francese, interrogava
i suoi allievi kanak chiedendo loro se l’insegnamento più importante
ricevuto dai missionari cristiani fosse l’esistenza dell’ ésprit
(«spirito»? «anima»?) . Dopo averci a lungo pensato, Boesou Eurijisi, un
vecchio pagano divenuto pastore, rispose: «L’ ésprit ? Bah! Voi non ci
avete portato l’ ésprit . Conoscevamo già l’esistenza dell’ ésprit . Ciò
che ci avete portato è piuttosto il corpo» (Maurice Leenhardt, La
structure de la personne en Mélanésie , Stoa, 1970).
Questo
episodio è interessante da molti punti di vista: l’esegesi più diffusa
vuole che Boesou si riferisse all’introduzione, da parte degli
occidentali, di una concezione «individuale» della persona e del suo
corpo, di contro alla visione relazionale, plurale o «dividuale» della
persona kanak e melanesiana. Ma a che cosa avrà veramente pensato Boesou
quando utilizzava il francese ésprit ? Leenhardt suggerisce che il
termine nativo kanak ko , «l’ ésprit qui affermato, corrisponde all’
influsso ancestrale mitico e magico ». E come traduciamo noi in italiano
il francese: con «spirito»? con «anima»? con «soffio vitale»? Anna
Paini, una delle più autorevoli studiose delle culture oceaniane,
sottolinea inoltre la problematica traduzione del francese ésprit in
inglese: spirit ? mind ? ( Il filo e l’aquilone , Le Nuove Muse, 2007).
Lo
studio antropologico dell’«anima», nelle sue innumerevoli declinazioni
culturali, è insieme affascinante, scivoloso e terribilmente
problematico. Affascinante perché consente una esplorazione delle
modalità con cui l’essere umano ha immaginato il destino della persona
oltre la morte e la stessa articolazione della persona. Si può dire al
proposito che tutte le società e le religioni ritengono che un qualche
aspetto dell’essere umano permanga oltre la morte fisica. Un mito
raccolto di recente non lontano dal villaggio di Houailou, narra che,
subito dopo la morte e all’imbrunire, l’«anima» del defunto risale le
acque del torrente più vicino fino alla cima della montagna. Di qui,
seguendo la linea di cresta che taglia in due l’intera isola, essa
raggiunge un altro torrente e si lascia trasportare fino al mare,
davanti a uno scoglio da cui, si dice, si apra l’accesso al mondo
sottomarino dei defunti. Questi sentieri dell’anima segnano anche oggi
il paesaggio di luoghi a cui si deve accedere con circospezione e
cautela.
La letteratura antropologica ci mette tuttavia in guardia
dalle molte «trappole» in cui rischia di farci cadere la nozione di
«anima» (ecco gli aspetti scivolosi e problematici). La prima trappola è
costituita dal fatto che, in molte culture, «ciò che rimane» della
persona non è un’essenza imperitura, ma può a sua volta, come il corpo,
essere destinato alla dissoluzione. Un mito dell’isola polinesiana di
Futuna narra che, alla morte, l’«anima» comincia un lungo pellegrinaggio
verso un certo numero di divinità caratterizzate da una progressiva
perdita di capacità senzienti: dèi privi di un occhio, dèi del tutto
privi di vista e poi divinità mute e sorde. Il cammino dell’anima è qui
un viaggio a ritroso verso il nulla, con l’eccezione (come spesso
accade) delle anime dei guerrieri, che trovano invece una collocazione
stabile nel Pulotu , il mondo dei morti in cui si danza e si mangia
senza sosta.
Una seconda trappola è legata al fatto che non
necessariamente l’anima è un principio di «individuazione», ma può
presentarsi in una forma plurale — Platone docet ! I dayak del Borneo, a
cui Robert Hertz dedicò a inizio Novecento un celebre studio (
Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte ,
«Année Sociologique», 1907) ritenevano che l’essere umano possedesse due
diverse anime. La salumpok liau o «midollo dell’anima» costituiva un
tratto rappresentativo della personalità; la liau krahang era invece
l’«anima corporale», rappresentativa delle anime delle ossa, dei
capelli, delle unghie, ecc. La morte separava le due anime e il lungo
percorso del lutto che preparava il funerale definitivo (a volte a
distanza di anni) aveva come obiettivo la ricongiunzione delle due
anime. «Le rappresentazioni che riguardano la sorte dell’anima —
scriveva Hertz — sono per natura vaghe e fluttuanti: non bisogna cercare
di imporre loro dei contorni troppo definiti».
Plurali, destinate
a dissolversi o a un continuo vagabondare tra la dimora dei morti e
quella dei viventi — come nel celebre caso dei Trobriandesi studiati da
Bronislaw Malinowski e di molti altri casi di «reincarnazione» — le
anime non sono necessariamente una qualità esclusiva dell’umano. Non
solo perché anche altri esseri viventi possono essere dotati di un’anima
— nella Bibbia il termine ebraico nèfesh viene applicato per la prima
volta proprio agli animali ( Genesi 1, 20) —, ma perché in molte culture
aspetti di quella che noi chiamiamo «natura», alberi, rocce, fiumi,
partecipano della persona umana. Autori come Philippe Descola ( Oltre
natura e cultura , Seid, 2014) ed Eduardo Viveiros de Castro ( A
inconstância da alma selvagem, e outros ensaios de antropologia , Cosac
Naify, 2002), a partire dai loro studi sulle società dell’Amazzonia,
propongono un approccio che potremmo definire «neo-animista».
Le
credenze, un tempo assai diffuse in molte società frequentate dai
missionari e dagli antropologi secondo cui gli esseri viventi sarebbero
dotati di «anime» o «spiriti vitali» al pari degli esseri umani, vengono
oggi reinterpretati in una chiave ecologico-culturale, a sottolineare
che il confine e la stessa opposizione tra natura e cultura è fortemente
problematica. Molti termini nativi che vennero tradotti con «anima»
indicavano spazi di sovrapposizione, intreccio e «partecipazione» tra
l’universo delle persone umane e quello delle altre persone viventi.