domenica 28 febbraio 2016

Corriere La Lettura 28.2.16
Il progresso infrange ogni limite
La crescita vertiginosa delle conoscenze trasmette un’inebriante sensazione di libertà, mentre vengono meno le antiche certezze metafisiche
Ma la convinzione che tutto sia permesso può spianare la strada a pericolosi abusi
Un confronto senza pregiudiziali è l’unica soluzione praticabile per garantire la convivenza di fronte alle nuove sfide della modernità
di Mauro Bonazzi


Quo vado? Dove andiamo, noi esseri immersi nel tempo? È una domanda che prima o poi tutti si pongono, magari dopo aver alzato lo sguardo verso il cielo stellato o il gomito in un bar. Cosa ci facciamo qui? C’è un senso in questa vicenda di uomini che si dipana nei secoli? La risposta più diffusa, in tutte le latitudini e in tutte le ere, è sì: c’è un senso e noi facciamo parte di una storia che nel suo procedere acquista il suo significato. È la teoria del progresso, le cui tappe sono ripercorse da Carlo Altini nel libro appena pubblicato Progresso (Edizioni della Normale). L’idea che la storia ha uno sviluppo lineare e avanza verso una meta inizia con il cristianesimo. L’incarnazione di Cristo segna una cesura nello scorrere apparentemente sempre uguale dei secoli: da quel momento ci sarà un prima e un poi, e una destinazione finale, il giudizio di Dio. È un’idea che conforta e che attecchirà anche altrove, a mano a mano che gli esseri umani accrescono le loro conoscenze scientifiche e competenze tecniche.
Plus ultra era il motto che nel Cinquecento campeggiava sulla bandiera della flotta spagnola, protesa verso l’ignoto, alla conquista degli oceani. Più oltre , superando tutti i limiti. Era solo l’inizio di un viaggio che oggi solca gli spazi immensi dell’universo. Non si tratta solo di luoghi geografici, perché più audaci ancora sono i viaggi della conoscenza, verso i luoghi misteriosi dell’infinitamente piccolo, dagli atomi alla genetica, rovesciando pregiudizi, superstizioni, luoghi comuni. Una navigazione impervia, che niente però riesce a fermare. C’è il tempo della natura, circolare, sempre uguale a se stesso, e il tempo della storia umana, una linea che avanza verso il meglio.
La meta, ormai, non è più il regno dei cieli, ma il regno dell’uomo, come scriveva Francis Bacon nel 1620. O Karl Marx nel 1848, l’anno di pubblicazione del Manifesto del partito comunista . Così pensano in tanti, oggi, ammirati da progressi tecnici che sembrano rendere l’uomo padrone assoluto del suo destino. Ci affranchiamo dai bisogni naturali; migliorano le condizioni materiali e sociali; benessere e felicità appaiono sempre di più a portata di mano. Il viaggio, generazione dopo generazione, non è stato invano. Il raggiungimento della meta dà senso al lungo cammino che abbiamo compiuto: così doveva essere, e così è stato, affermano i più entusiasti con Hegel.
Ma, nonostante questo accumulo trionfale di conoscenze, il regno dell’uomo tarda a venire. La ragione è semplice. Possediamo sempre più informazioni, le possibilità di intervento sono sempre più numerose. Siamo sempre più potenti. Ma ancora non sappiamo che cosa siano il bene e il male. E allora cosa ce ne facciamo di tutte queste conoscenze, della nostra potenza? Questa domanda angosciava Alfred Nobel, l’inventore della dinamite. Un’invenzione strepitosa, che avrebbe aiutato gli uomini in mille modi; e che in mille modi li avrebbe uccisi. È notizia di pochi giorni fa che in Gran Bretagna e Cina sono stati avviati alcuni esperimenti per modificare geneticamente gli embrioni umani. Per curare malattie altrimenti incurabili, ma magari anche per avere bambini su misura. Perché no, se le società che finanziano simili progetti volessero monetizzare i risultati delle ricerche? I progressi odierni sono così dirompenti che spesso si tende a confondere la scienza con la magia, come se potesse risolvere tutti i problemi con una bacchetta. Ma progresso scientifico non vuol dire di per sé progresso morale. Senza con questo voler demonizzare alcunché: semplicemente, non è compito delle scienze indicarci come bisogna vivere. Abbiamo i mezzi, insomma, ma non ci è chiaro per quali fini usarli. Sappiamo come fare, non cosa. Come orientarsi, allora?
Per secoli la risposta è stata sempre la stessa: Dio. Che oggi sia un’opzione praticabile è però discutibile. L’apologo di Friedrich Nietzsche sul folle che andava in giro annunciando la morte di Dio potrebbe sembrare eccessivo, persino in Occidente. Ma qualcosa spiega. Credere nella creazione divina significava anche credere che questa creazione fosse qualcosa di buono: che il bene fosse iscritto nell’ordine delle cose. Dio, il creatore del cielo e della terra, l’arbitro del bene e del male. La Genesi e i dieci comandamenti. Oggi la scienza si è emancipata dalla necessità di postulare l’intervento di Dio per spiegare l’origine dell’universo. Insieme, non sempre ci si pensa, si è liberata anche della credenza, già platonica (l’idea del Bene alla base di tutto), che nella conoscenza dell’ordine dell’universo si celasse la chiave per individuare il bene, distinguendolo dal male. Dall’infinito universo che ci circonda, dalle infinitamente piccole particelle che lo costituiscono e ci costituiscono non arrivano più indicazioni che ci possano guidare nelle nostre scelte di vita. Il pensiero corre a Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia , davanti a una luna indifferente: una luna che sorge e va «silenziosa», «contemplando i deserti»; che forse comprende «il perché delle cose», ma che è «muta» e di certo non risponderà alle nostre domande. Un «silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso», scrive altrove — quello spazio in cui, prima, si dispiegava la gloria di Dio.
La nostra è l’epoca del disincanto, e non cambia molto se invece di Dio s’invoca la natura, una nozione ambigua quant’altre mai, da quando la si è privata del suo carattere divino. Da Jean-Jacques Rousseau (a proposito del quale Castelvecchi ha da poco ripubblicato un bel saggio di Ernst Cassirer) ai cultori dei fiori di Bach c’è sempre qualcuno disposto a pensare che basti affidarsi al caldo abbraccio di madre natura e tutto andrà bene. Ma è evidente che così è troppo semplice. Batteri e virus sono sicuramente naturali ma non ci sono molto amici; antibiotici e vaccini non sono per nulla naturali, e per fortuna, viene da aggiungere. Del resto, che cosa vuol dire naturale per noi uomini? Non è che quando invochiamo ciò che è naturale non facciamo altro che difendere ciò che ci pare normale, vale a dire ciò a cui ci siamo abituati? Di fronte alle novità troppo dirompenti c’è sempre la tentazione di guardarsi indietro, verso un’unità e un’armonia perdute. Che sono però, appunto, perdute, dopo che abbiamo scoperto la nostra complessità. Perderci nel tempo circolare della natura, in cui tutto si ripete sempre uguale: non è la soluzione per la nostra inquietudine, la nostra incapacità, letteralmente, di stare fermi, di accontentarci.
Che cosa resta allora, senza il Padre e senza la Madre, quando Dio, la natura e le scienze tacciono? Restiamo noi. Come osserva Remo Bodei nel suo libro Limite (Il Mulino), per alcuni questo fatto si traduce nell’inebriante sensazione di una libertà assoluta, nello sfondamento di tutte le barriere che si oppongono al soddisfacimento dei propri desideri e bisogni, all’affermazione del proprio sé. «Se Dio non esiste, tutto è permesso», aveva scritto Dostoevskij. Vietato vietare, insomma, e liberi tutti. Una moderna riproposizione della tesi di Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose; ognuno è arbitro indiscusso delle scelte che farà. Liberi dunque i singoli individui, che potranno sfruttare le nuove tecniche (dalla chirurgia estetica agli interventi sul genoma, tanto per fare qualche esempio) come meglio gli aggrada, e pazienza se bisogni e desideri risulteranno in realtà indotti da logiche di mercato. E liberi i singoli Stati, che potranno adottare le strategie più efficaci per tutelare i loro interessi. Ognuno fa quello che vuole, mentre la barca ondeggia sempre di più.
Ma queste, in fondo, sono le reazioni di un ragazzo, quando è finalmente riuscito a liberarsi dell’ingombrante presenza dei genitori. Il Nietzsche della «morte di Dio» lo aveva previsto: ci sarebbe voluto del tempo prima che si capisse che non è facile vivere in un mondo privo di punti di riferimento («vengo troppo presto — proseguiva — non è ancora il mio tempo»). Che stia finalmente arrivando il momento di scelte più ragionevoli? Il tempo del noi? Difficile prevederlo, ma anche questa è una possibilità. La possibilità della politica, l’arte del limite. Ultimamente la politica è caduta così tanto in discredito da far sembrare folle l’idea che possa procurare qualcosa di buono. Ma non ci sono molte altre alternative tra l’individualismo sfrenato e l’ossequio a principi assoluti, granitici e lontani. Si tratta di prendere atto che siamo tutti sulla stessa barca (siete tutti imbarcati, diceva Blaise Pascal) e iniziare a confrontarci per trovare delle soluzioni, parziali o provvisorie, ma comunque condivisibili e praticabili.
Tocca a noi scegliere. Per stabilire una rotta concreta, individuando di volta in volta, nelle situazioni più diverse, cosa sia bene o male, giusto e ingiusto; producendo miglioramenti tangibili, non vuote promesse; difendendo, come abbiamo già fatto tante volte, le fragili costruzioni umane, conclude Bodei, «dalle prevaricazioni, dagli abusi e dal caos». Che poi era il vero messaggio della frase di Protagora: non che ciascuno è libero di fare quello che vuole, ma che sono gli uomini, insieme, che stabiliscono i principi della loro convivenza, cercando di migliorare la loro condizione. Costruire un rapporto migliore con la realtà: questa è la politica.
Tutte pie illusioni? Forse. Ma se non si tentasse l’impossibile, osservava Max Weber, il possibile non verrebbe mai raggiunto. È meglio farsene una ragione: il viaggio verso il progresso, sperando che non sia troppo tardi, è ancora lungo.