Corriere La Lettura 21.2.16
Antichità
Il welfare (imperiale) di Atene
Le risorse dello Stato sociale provenivano dalle colonie e dalle città tributarie.
La redistribuzione era possibile grazie a una minoranza popolare che bilanciava
il potere delle famiglie più ricche. Il governo della polis in un volume di Giuseppe Cambiano
di Luciano Canfora
Bene
ha fatto Giuseppe Cambiano, uno dei nostri maggiori storici della
filosofia antica, a raccogliere un manipolo di suoi saggi degli anni
1987-2011, sul problema politico in Platone e Aristotele, sotto la
metafora della «nave» evocata per indicare appunto la polis: Come nave
in tempesta (Laterza). L’archetipo di questa metafora è per noi in Alceo
(VII secolo a.C.), uno di quei poeti lirici che, come Solone e
Teognide, parlano di politica con autentica passione: si tratta di quel
celebre e imitatissimo frammento (148 Page), sopravvissuto in tracce su
qualche frustulo di papiro, ma tramandato in parte più consistente dallo
stoico Eraclito (I secolo d.C.) accanito cacciatore di allegorie nonché
studioso di Omero, e persino dal retore Cocondrio. Orazio ne diede una
sapiente riscrittura ( Odi I, 14) che suggerì una molto didattica pagina
di commento a un teorico dell’oratoria quale Quintiliano ( Institutio
oratoria 8, 6, 44), il quale — come osservò Eduard Fraenkel nel suo
importante libro su Orazio — avrà già dal suo maestro di scuola imparato
che la nave sta per la res publica , i flutti rappresentano la guerra
civile e il porto la auspicata pax et concordia . Ma l’allegoria si era
snodata ininterrotta, da Pindaro ( Pitiche I, 86) al continuo uso
ciceroniano di gubernator e gubernare con valore politico.
Secondo
il grande storico di età severiana Dione Cassio, quando Augusto
manifestò il proposito di deporre il potere, Mecenate lo dissuase con un
appassionato intervento in cui tra l’altro ricorreva appunto alla
immagine della «nave sanza nocchiero in gran tempesta» (52, 16) cui
ricorrerà Dante, ignaro certo del passo di Dione, nel canto di Sordello (
Purgatorio VI, 77-78).
Vengo ora ad alcuni dei molti temi, tutti
di grande rilievo, affrontati in questi saggi. Opportunamente Cambiano
parte dalla questione intorno alla effettiva natura della cosiddetta
democrazia diretta o assembleare o di massa, in Atene. Egli sembra
aderire, per lo meno questa era la sua posizione nel saggio del 1998 qui
posto in apertura, all’idea ottimistica di Finley (1973) secondo cui
nella repubblica ateniese non si verificava quel predominio delle élite
che invece è caratteristico di qualunque forma di governo: dalla
monarchia assoluta alla cosiddetta democrazia parlamentare, al fascismo
nelle sue varie forme, al socialismo reale. E Atene costituirebbe
davvero un miracolo se questa tesi finleiana fosse vera! Cambiano del
resto non è immemore del carattere retorico-mitizzante della idea
rousseauiana dei Greci sempre in piazza radunati a decidere ( Contratto
sociale III, 15), anzi confuta Rousseau con Rousseau quando ricorda che
in altra parte del medesimo Contratto sociale (III, 4) si legge che «non
è mai esistita autentica democrazia né mai esisterà».
In realtà,
da molto tempo ormai, gli studiosi si sono rassegnati a prendere atto di
ciò che un testimone di prim’ordine come Tucidide scrive quando narra
la crisi ateniese del 411 a.C.: non si arrivava a cinquemila presenze
(su trentamila cittadini) neanche nelle assemblee decisionali più
affollate. La democrazia ateniese è il risultato, sempre in bilico tra
una crisi e l’altra, di un compromesso fra le grandi famiglie che si
alternano e si scontrano al potere e la minoranza politicamente attiva
che frequenta l’assemblea. Questa minoranza attiva è una «belva» non
facile da domare. Alcibiade, leader potente ma due volte nella polvere e
due volte sull’altare, parla della democrazia come «follia
universalmente riconosciuta come tale» e soggiunge: «Noi lo guidammo
quel regime, né potevamo abbatterlo perché c’era la guerra!» (Tucidide
6, 89, 6). Naturalmente ai pamphlettisti oligarchici e ai filosofi quel
compromesso non bastava. E alcuni di loro non di rado mentivano quando
sostenevano che ad Atene tutte le cariche si danno a sorteggio, cioè
agli incompetenti: lasciavano in ombra che le cariche decisive, militari
e finanziarie, non solo erano elettive, ma di fatto riservate ai
rampolli delle classi alte. Insomma «la ferrea legge dell’oligarchia»,
che Bonaparte giustamente diceva esserci anche negli atelier operai,
funzionava a tempo pieno anche ad Atene.
L’altro grande tema che
Cambiano affronta è quello della cosiddetta «costituzione mista». Nella
polis classica, essa corrisponde al programma oligarchico-moderato della
limitazione censitaria del diritto politico: grosso modo l’analogo del
suffragio ristretto tipico degli Stati liberali. Solo quando il greco
Polibio, trasportato a Roma come ostaggio, vedrà da vicino il modello
romano e crederà di capire che l’esempio perfetto e non vulnerabile di
costituzione mista fosse appunto la repubblica romana, fondata sul
bilanciamento dei tre principi monarchico, oligarchico e democratico
incarnati dal consolato, dal senato e dai comitia , solo a partire da
allora quel bilanciamento è diventato l’ideale prediletto dei moderati.
Va
detto comunque che la prima teorizzazione del sistema misto si trova in
quella pagina tucididea in cui lo storico ateniese, partecipe della
esperienza oligarchica del 411, osserva che solo quando, e sia pure per
poco, il diritto di cittadinanza fu effettivamente limitato a cinquemila
scelti censitariamente sull’intera popolazione, solo allora si ebbe un
sistema politico misto: «Mescolanza — egli dice — dei molti e dei pochi»
che produsse davvero il buongoverno (8, 97).
Una parte degli
oligarchi giunti al potere prospettava anche una soluzione più souple :
che l’appartenenza al novero dei cinquemila cittadini pleno iure
avvenisse a rotazione. La cosa non si attuò, ma la rotazione, cui
Cambiano dedica il quarto capitolo, è uno degli aspetti delle proposte
moderato-oligarchiche volte a mitigare il meccanismo democratico.
Infatti era il sistema vigente nella coeva Beozia, tradizionale rivale
di Atene, ed è su quel modello che qualche esponente della oligarchia
del 411 elaborò la cosiddetta «costituzione per l’avvenire» che
Aristotele trascrisse nel XXXI capitolo della Costituzione degli
Ateniesi .
Si trattava, come ben sappiamo, di ipotesi utopistiche
(non ci furono solo utopie egualitarie!), perché la realtà del conflitto
ricchi/poveri non si lasciava imbrigliare in queste ingegnerie
istituzionali e procedeva secondo la non meno ferrea legge dei rapporti
di forza. Finché la minoranza politicamente attiva poté fare da
contraltare al predominio delle grandi famiglie, tra la riforma di
Efialte e il crollo dell’impero, Atene funzionò, per dirla con Arthur
Rosenberg ( Democrazia e lotta di classe nell’antichità , 1920), come un
moderno «Stato sociale» la cui fonte di ricchezza era l’impero. Quando i
rapporti di forza mutarono, per la rovina del primo e poi del secondo
impero, la prevalenza dei ceti forti si affermò, fu formalizzata e fu
persino, per un tempo non breve, sancita da un trattato internazionale:
il trattato di Corinto, imposto da Filippo di Macedonia alle città
greche (336 a.C.), che impegnava tutti i contraenti a reprimere ogni
tentativo di cancellazione di debiti e di divisione di terre.
Di
tutto ciò i filosofi erano stati spettatori, critici e volenterosi
interpreti, per nulla soggiogati da reverenza «politicamente corretta»
verso la cosiddetta democrazia realizzata di tipo ateniese. Spicca — in
un panorama che qui non possiamo scandagliare ulteriormente —
l’intuizione, che lascia interdetti gli interpreti moderni sempre pronti
a manipolare i testi pur di non capirli, racchiusa in un testo
capitale, cui giustamente Cambiano fa riferimento: il frammento di
Antifonte sofista Sulla verità . È molto difficile negare che proclami
la indistinzione tra greci e barbari, là dove dice: «Per natura siamo
nati tutti in modo simile sotto tutti gli aspetti, barbari e greci». La
scoperta, dovuta alla sofistica, della unità del genere umano, che
riecheggerà presso uomini di fedi diverse come lo stoico Seneca e
l’epicureo Diogene di Enoanda, è ancora oggi giudicata prospettiva da
visionari, mentre masse umane dell’intero pianeta chiedono, lasciandoci
talvolta la vita, che se ne prenda alfine atto. Né solo sul piano
filosofico.