Corriere La Lettura 21.2.16
Philip Glassglass
Comporre è creare un luogo
Da
dove viene la musica? Se lo chiede, nell’alveo di secolari diatribe
estetiche, anche il compositore Philip Glass, nell’autobiografia Parole
senza musica (traduzione di Melinda Mele, Il Saggiatore, pagine 401, e
27). Tra minuziose annotazioni su ogni loft affittato e ogni spostamento
effettuato e ogni musicista incontrato, uniformi e ipnotiche come molta
sua musica, Glass trasforma però la fatidica domanda in un’altra, pure
cruciale: che cos’è la musica? E qui il responso si fa avvincente.
Lasciamo a margine la distinzione tra «mondo della musica» e «industria
musicale», ammonimento di Ornette Coleman poco efficace in prospettiva
diacronica: per secoli, la committenza ha orientato, se non deciso, le
scelte dei compositori. Molto più seducente è Glass quando, dopo tanto
esplorare — dalle severissime lezioni di Nadia Boulanger ai liberi suoni
africani di Foday Musa Suso, dal jazz ai tal di Ravi Shankar — arriva a
concepire la musica come «luogo»: «Un luogo reale quanto lo può essere
Chicago, o qualsiasi altro posto al quale si scelga di pensare». Un
luogo «al tempo stesso astratto e organico», un luogo dove tornare.
Passaggio ulteriore: «Oggi quando scrivo musica non penso alla
struttura, all’armonia, al contrappunto (...). Non penso alla musica ma
penso la musica . Il mio cervello pensa in musica, non in parole».
Esempio, le colonne sonore: «Non scrivo la musica che vada con il film,
scrivo la musica che è il film». Al crocevia tra natura paralinguistica
(la dimensione sprachähnlich , «simile al linguaggio» sostenuta da
Adorno?) e luogo «da abitare», nella concezione di Glass la musica fonde
così un «assoluto» non immemore di Hanslick a un moderno superamento di
norme e tradizioni: la musica è un «sistema», «non più eterno degli
esseri umani» che l’hanno «escogitato»; anzi, «transitorio quanto un
acquazzone pomeridiano».