Corriere La Lettura 21.2.16
Le guerre dei fiumi Corridoi
commerciali e militari capaci di provocare conflitti, frontiere fisiche e
politiche: la storia (come l’attualità) ruota intorno a corsi d’acqua
Passato La deviazione del Giordano nel 1953 è un pilastro della questione mediorientale
Futuro Nilo, Colorado, Rio Grande, Danubio: le contese fluviali destinate a esplodere
di Manlio Graziano
Una
ditta di Cesena ha recentemente vinto l’appalto per la ristrutturazione
della diga di Mosul, sul fiume Tigri, in Iraq. I lavori dovrebbero
essere sorvegliati da almeno 450 militari, incaricati di impedire
possibili attacchi dei miliziani dell’Isis, che si erano impadroniti del
sito per qualche giorno nell’agosto 2014. La diga di Mosul — un
concentrato di interessi politici, militari ed economici fin dalla sua
costruzione — ha riportato agli onori delle cronache una questione a
lungo dibattuta dagli specialisti di geopolitica: la questione dei
fiumi.
I fiumi sono inestricabilmente legati alla vita dell’uomo,
come fonte della materia prima più indispensabile, come corridoio umano,
commerciale e militare. Ma anche come ostacolo, come elemento di
separazione: frontiera naturale che, con la nascita degli Stati
nazionali, si è talvolta trasformata in frontiera politica. La loro
valenza economica e politica li rende, talvolta, motivo di contesa, tra
Stati e all’interno degli Stati. È proprio per le implicazioni della
loro importanza strategica che certi fiumi sono oggetto di indagine
geopolitica. Un fiume non è solo un corso d’acqua; è la spina dorsale di
un ricco tessuto di attività che da lì nascono e che da lì si
irradiano.
La storia dell’Europa è essenzialmente storia della
guerra millenaria tra i «Franchi dell’ovest» e i «Franchi dell’est» per
il possesso di quel territorio intermedio che, dall’epoca della
partizione dell’impero carolingio fra i tre nipoti di Carlo Magno,
nell’843, prese il nome di Lotaringia. Quella striscia di terra tra la
Frisia e Roma, tra il mare del Nord e il Tirreno centrale, attraversata
dal Reno, dalla Mosa, dalla Mosella, dal Rodano e dal Po, si è
progressivamente trasformata nel cuore economico del continente, fino ai
nostri giorni. Ma la millenaria rivalità tra «Franchi dell’ovest» e
«Franchi dell’est» — diventati col tempo la Francia e la Germania —
dimostra che la competizione politica non è mai monocausale. Infatti,
quella rivalità non è mai stata rivolta esclusivamente al controllo di
quei fiumi; è stata una competizione attorno a un territorio più ampio,
anche se quei fiumi ne hanno indubbiamente costituito la nervatura
centrale. E a quella rivalità si sono aggiunti, nel corso della storia,
fattori esterni, come l’emergere di altre due Germanie — la Prussia e il
Brandeburgo — orientate più a est che a ovest, l’ascesa della Russia,
la rivalità anglo-francese, le colonie e l’apparizione degli Stati
Uniti, tanto per citare i più importanti. E senza parlare dell’Austria,
quella parte del mondo tedesco impegnata in una competizione
plurisecolare con l’Impero ottomano su un altro bacino, il Danubio.
La storia e l’attualità non sono avare di contenziosi che sembrano ruotare essenzialmente attorno a uno o più fiumi.
La battaglia del Giordano
Il
caso probabilmente più noto riguarda il Giordano, che bagna Libano,
Siria, Israele, Giordania e l’Autorità nazionale palestinese.
Nel
1953, Israele avviò un piano di deviazione del corso del fiume (National
Water Carrier, Nwc) per irrigare la pianura costiera di Sharon e, in
prospettiva, il deserto del Negev. Nel 1965, furono invece la Siria, il
Libano e la Giordania, finanziati da Egitto e Arabia Saudita, che
intrapresero la costruzione di una serie di canali, con lo scopo
principale di svuotare letteralmente il Nwc e di ridurre di circa due
terzi il volume d’acqua diretto in Israele. Tel Aviv rispose bombardando
i siti dei lavori e, durante la guerra dei Sei giorni del 1967,
conquistò le alture del Golan, da dove partiva il più importante dei
canali di deviazione del Giordano.
Israele voleva certamente
allontanare la minaccia idrica, ma questo non basta per considerare la
conquista del Golan solo da quel punto di vista. L’importanza strategica
di quelle alture vi ha giocato un ruolo sicuramente maggiore: nel 1967,
Israele non solo sottrasse al nemico siriano la base dei suoi periodici
bombardamenti e degli attacchi della guerriglia, ma acquisì anche la
possibilità di tenere costantemente sotto tiro la strada per Damasco e
di estendere il proprio raggio d’azione contro il Libano e la Giordania.
La partita del Giordano non sarà chiusa finché il conflitto
mediorientale non sarà risolto. Nel frattempo, però, sono intervenuti
alcuni accordi parziali, come quello del 1994, siglato nella prospettiva
di una soluzione globale del conflitto, e quello tra Israele e
Giordania del febbraio 2015, sulla base di un memorandum siglato anche
dall’Autorità palestinese nel 2013. Un’intesa, quest’ultima, che prevede
la costruzione di un impianto di desalinizzazione ad Aqaba (porto
giordano sul Mar Rosso) e il raddoppio delle forniture di acqua al
Giordano dal lago di Tiberiade, in mano israeliana.
Gli affluenti del Gange e il peso della Cina
Un
altro caso celebre di intreccio tra risorse idriche e interessi
geopolitici riguarda il Tibet, l’altopiano da cui prendono origine, tra
gli altri, l’Indo, il Brahmaputra, il Mekong, il Salween, l’Irrawaddy,
lo Yangtze, il Fiume Giallo, e alcuni tra i maggiori affluenti del
Gange. Secondo certi studiosi, dal Tibet sgorgherebbe acqua per quasi
metà della popolazione mondiale. Ad eccezione del Fiume Giallo e dello
Yangtze, si tratta di corsi d’acqua che attraversano prevalentemente
altri Paesi, alcuni dei quali temono, a torto o a ragione, che la Cina
possa servirsi del controllo delle loro sorgenti come arma di ricatto
politico.
Nell’ottobre 2015, Pechino ha portato a termine la
costruzione della diga Zangmu, sul Brahmaputra, e persegue il progetto
di deviazione di numerosi affluenti dello stesso per irrigare le regioni
aride dello Xinjiang e del Gansu. L’India si sente sotto tiro, non solo
per la diminuzione della portata del suo tratto di fiume, ma anche
perché teme, appunto, che Pechino si stia dotando di strumenti per fare,
di quella portata, un’arma politica. Le sue preoccupazioni sono
fondate; ma, anche in questo caso, è assai implausibile che i fiumi
costituiscano l’elemento decisivo dello storico sostegno indiano alla
causa del Tibet. L’elemento decisivo è, piuttosto, che New Delhi si
sentirebbe molto più tranquilla se un Tibet indipendente si frapponesse
fra l’India e la Cina, allontanandola di alcune centinaia di chilometri
dai suoi confini, ma anche da quelli del rivale Pakistan.
I danni della diga Farakka
Ancora
sui fiumi tibetani. Se i progetti di dighe sul corso superiore del
Mekong rischiano di deteriorare i rapporti tra la Cina e i Paesi a valle
del fiume — Birmania, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam — i rapporti
tra India e Bangladesh sono turbati dalla costruzione della diga
Farakka, sul Gange, che devia 1.100 metri cubi d’acqua al secondo verso
Calcutta, riducendo del 70% la portata del fiume in Bangladesh. In tutti
questi casi, sul danno immediato in termini idrici si allunga l’ombra
della pressione politica.
Se il Bangladesh ha dei sospetti circa le intenzioni dell’India, il Vietnam ha delle certezze circa le intenzioni della Cina.
Non c’è pace per il Tigri e l’Eufrate
Un
caso in cui l’utilizzo politico delle risorse idriche non lascia spazio
a dubbi è quello che riguarda la gestione del corso superiore del Tigri
e dell’Eufrate da parte della Turchia, dove entrambi i fiumi nascono.
L’ambizioso progetto del Sud-Est Anatolico, consistente nella
costruzione sui due fiumi di 22 dighe e 19 centrali, fu messo in
cantiere negli anni Settanta per soddisfare le crescenti esigenze
d’acqua della penisola. Tuttavia, i dirigenti della ribellione curda
videro, nelle inondazioni provocate dalla costruzione di alcuni
sbarramenti, l’intenzione di separare i curdi di Turchia da quelli di
Siria e Iraq. La Siria, dal canto suo, decise di usare il Pkk (il
Partito dei lavoratori curdi, attivo in Turchia) per osteggiare un
progetto destinato a ridurre in maniera drastica la portata
dell’Eufrate, ottenendo però il risultato opposto: con la minaccia
esplicita di ridurre il flusso del fiume, Ankara obbligò nel 1998
Damasco a ritirare l’appoggio al Pkk, e perfino ad espellerne il capo,
Abdullah «Apo» Öcalan, arrestato in Kenya dopo un controverso soggiorno
in Italia.
La diga di Mosul, di cui si parlava prima, fu
progettata agli inizi degli anni Ottanta per compensare in qualche modo
il deficit idrico provocato dal progetto turco, ma soprattutto per
accelerare l’arabizzazione di una regione dell’Iraq abitata anche da
assiri, curdi, turkmeni, shabak, yazidi e armeni, tutti considerati
potenziali quinte colonne del nemico in quegli anni di guerra contro
l’Iran. Quella diga, terminata nel 1984, è anche considerata la più
pericolosa al mondo, perché costruita su uno strato di gesso friabile:
all’epoca, gli ingegneri incaricati dei lavori chiesero di realizzare un
doppio zoccolo di fondamenta, ma lo impedì Saddam Hussein, che aveva
fretta di concludere. Dal 2003, gli americani hanno speso 27 milioni di
dollari solo per le riparazioni più urgenti; e a gennaio di quest’anno,
il generale Sean MacFarland ha affermato che la diga potrebbe crollare
da un momento all’altro, sommergendo gran parte della valle,
distruggendo Mosul, Bayji, Tikrit, Samara e perfino parti di Bagdad. I
diversi governi che si sono succeduti dopo la caduta di Saddam hanno
sempre affermato che gli americani esagerano i rischi legati alla
stabilità della diga. Nondimeno, i lavori per un suo rafforzamento
prevedono un investimento che, secondo certe fonti, potrebbe superare i
quattro miliardi di dollari.
Le altre contese (soprattutto il Nilo)
Altri
casi che potrebbero, in un futuro più o meno prossimo, occupare le
pagine dei giornali riguardano il Nilo, ma anche il Colorado e il Rio
Grande tra Stati Uniti e Messico, il bacino acquifero Guaranì che
attraversa Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, e perfino, di nuovo,
il Danubio, che attraversa tredici Paesi (Germania, Austria, Repubblica
Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia, Bulgaria,
Romania, Moldavia e Ucraina) e che è uno dei (tanti) motivi di
frizione, oggi, tra Slovacchia e Ungheria.
Per restare in Europa,
un progetto di deviazione delle acque dell’Ebro, vecchio di quasi
vent’anni, è stato risuscitato poche settimane fa per essere giocato
nella disputa che oppone il governo dimissionario di Madrid ai
nazionalisti catalani.
La questione del Nilo sembra essere la più
interessante dal punto di vista geopolitico, anche perché segnala il
profilarsi di nuovi equilibri nel continente africano. Forte della sua
superiorità storica e politica, l’Egitto ha sempre rivendicato un
controllo quasi assoluto sulle acque del fiume; nel 1929 fu la Gran
Bretagna a imporre al Sudan di rinunciare a ogni intervento sul suo
corso, che allora attraversava quasi esclusivamente territori
controllati da Londra. Quel principio fu confermato nel 1959, quando i
Paesi bagnati dal Nilo e dai suoi affluenti erano diventati otto, oltre
all’Egitto, nessuno dei quali in condizione di sottrarsi al diktat del
Cairo. Nel 2010, invece, il governo di Addis Abeba ha lanciato il
progetto — nomen omen — della Diga del rinascimento etiopico, sul Nilo
Azzurro.
I governi egiziani che si sono susseguiti da allora
(Mubarak, Morsi e Al Sisi) hanno reagito chiedendo puramente e
semplicemente la sospensione dei lavori, avviati nel 2012. L’Etiopia,
dal canto suo, non ha esitato a invitare altri Paesi rivieraschi, in
particolare il Sudan, a sostenere la sua impresa, allo scopo di
delegittimare definitivamente le pretese egiziane. L’esito di questa
contesa sarà indicativo dell’evoluzione dei rapporti di forza tra gli
Stati africani.
Naturalmente, la politica fluviale ha talvolta un
impatto anche sul territorio e sui rapporti di potere all’interno dei
singoli Stati. Oltre al caso di Mosul, basti pensare alla diga delle Tre
Gole in Cina, la cui costruzione ha necessitato la sommersione di 13
città e centinaia di centri abitati e il trasferimento di oltre un
milione e mezzo di persone; o ai progetti di sbarramento in corso o già
realizzati in India, lungo il Gange e il Narmada, che hanno provocato
rivolte e incidenti nelle regioni interessate. Non c’è dubbio che le
scelte di politica fluviale dei vari governi rispondano innanzitutto a
bisogni di comunicazione, di irrigazione e di produzione di elettricità.
Ma in molti casi, al momento di affrontare spese che sono sempre
colossali, altri fattori entrano in linea di conto, affinché
l’investimento porti benefici anche in altri campi, in particolare in
quello dei rapporti con i governi vicini. In un’epoca di cambiamenti
repentini nelle relazioni tra gli Stati e al loro interno, anche la
politica fluviale diventa sempre più frequentemente soggetto e oggetto
di dispute e conflitti.