domenica 21 febbraio 2016

Il Sole Domenica 21.2.16
Anniversari
Galileo l’indisciplinato
Il 5 marzo 1616 la Chiesa condannò la dottrina copernicana. Lo scienziato ne difese la verità e si trovò suo malgrado nel mezzo di un’aspra disputa religiosa
di Massimo Bucciantini

Alla fine del Cinquecento si potevano contare sulle dita di una mano o poco più. In Germania, non facevano mistero della loro adesione all’eliocentrismo l’astronomo di corte a Kassel Christoph Rothmann, il matematico dell’Università di Tubinga Michael Maestlin e il suo allievo prediletto, il giovane Johannes Kepler. In Olanda, c’era Simon Stevin. In Inghilterra, Thomas Digges. In Italia, a dichiararsi per primi copernicani erano stati un filosofo, che avrebbe finito la sua sventurata vita in Campo dei Fiori, e un ancora sconosciuto professore di matematica dell’università di Padova.
Mosche bianche. Merce rara rispetto alla stragrande maggioranza di coloro che allora lesse il De revolutionibus (1543) e preferì separare gli aspetti tecnici (a cominciare dall’abolizione del punto equante) da quelli più propriamente cosmologici. Ovvero astronomi che accettarono come ipotesi matematica l’eliocentrismo senza rinunciare all’immobilità fisica della Terra. Un’interpretazione che normalizzava la sfida lanciata da Copernico e rendeva la sua grande opera “politicamente corretta”, poiché evitava ogni commistione con la filosofia naturale e ogni conflitto con le verità della Scrittura.
Va detto però che già negli anni immediatamente seguenti l’uscita del libro non mancarono prese di posizione fortemente critiche: e ciò accadde sia sul versante luterano e calvinista sia su quello cattolico. A Firenze, tra il 1546 e il ’47, un teologo domenicano del convento di San Marco, Giovanni Maria Tolosani, scrisse un opuscolo – rimasto manoscritto, ma che venne ampiamente utilizzato in pubbliche lezioni da uno dei principali avversari di Galileo, il frate Tommaso Caccini – in cui accusava Copernico di errori intollerabili contro i sacri testi. Anche a Roma, un altro domenicano e per di più teologo di Paolo III, Bartolomeo Spina, aveva manifestato l’intenzione di confutare Copernico. Ed è molto probabile che se la morte – avvenuta nel 1546 – non glielo avesse impedito, il De revolutionibus avrebbe contribuito ad allungare i già fitti elenchi predisposti dalla Congregazione cardinalizia dell’Indice dei Libri Proibiti.
Poi non se ne seppe più niente. Intanto nel 1566, a Basilea, venne stampata una seconda edizione. L’opera ottenne così un supplemento di diffusione in tutta Europa, circolando ancora più largamente nel sud della Francia e in Italia (Galileo possedeva l’edizione di Basilea), ma senza creare scandalo.
L’offensiva sul terreno teologico riprese, e questa volta in modo vigoroso, solo dopo il 1610, all’indomani della stampa del Sidereus Nuncius. Uno dei primi a scagliarsi contro Copernico, e contro Galileo, fu un fiorentino, l’aristotelico Ludovico Delle Colombe, autore di uno scritto rimasto inedito e composto tra la fine del 1610 e i primi mesi del 1611. Il titolo è inequivocabile: Contro il moto della Terra. Proprio nella sua Firenze, Galileo si trovò così di fronte a un vero e proprio partito, capeggiato dall’arcivescovo Alessandro Marzimedici e da Don Giovanni de’ Medici, figura di primo piano all’interno della casa regnante. Vi facevano parte teologi e predicatori come Niccolò Lorini e Tommaso Caccini, filosofi scolastici come Francesco Sizzi e Giulio Libri, cultori di arti magiche e astrologiche come Orazio Morandi. E personaggi oggi poco noti, come il pistoiese Bonifacio Vannozzi, protonotario apostolico e segretario di Paolo V, il quale tra l’agosto e il settembre 1610 scriveva al magistrato e suo concittadino Gerolamo Baldinotti: «Io son con V. Sig. nel fatto del Galileo, e ogni buon teologo si riderà di chi dica da vero che la Terra si muove. Son cose dette altre volte per via di supposizione, non di verità. Che la Luna sia terrea, con valli e colline, è tanto dire che vi son degli armenti che vi pascono e de’ bifolchi che la coltivano. Stiancene con la Chiesa, nemica delle novità da sfuggirsi, secondo l’ammaestramento di S. Paolo. Son pensieri da belli ingegni, ma pericolosi». Non ci vuole molto a capire che in questa lettera c’è già il conflitto scienza/fede che opporrà Galileo a Bellarmino e alla Chiesa di Roma. E siamo a pochi mesi dall’uscita del Sidereus, molto tempo prima della celebre lettera da cui di solito si fa iniziare il caso Galileo, e cioè la celebre Lettera a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613.
Senza l’osservazione di un nuovo cielo non ci sarebbe stata, il 5 marzo 1616, nessuna condanna del De revolutionibus. Erano trascorsi ben settant’anni dalla sua pubblicazione ma soltanto una manciata di anni dall’osservazione delle montuosità lunari e delle fasi di Venere, come dalla scoperta dei satelliti di Giove e delle macchie solari. Fu l’astronomia telescopica a sconvolgere il mondo fino ad allora creduto vero e a porre problemi cosmologici e teologici rilevantissimi. Se la Terra è simile alla Luna per le sue montagne, e se è simile a Giove perché ambedue hanno dei satelliti, non è forse allora possibile che la Terra sia un pianeta come gli altri? E se così fosse, come può l’inferno essere al centro della Terra, se non è più la regione più distante dal cielo ma è essa stessa nel cielo?
Non fu Galileo, peccando di orgoglio, a lanciare la sfida ai teologi. Se non fosse stato costretto a difendersi, non avrebbe mai di sua iniziativa scelto di confrontarsi su un terreno così scivoloso. Che non era il suo, non essendo, né allora né poi, un teologo. Ed è in questo scenario che proporrà con forza, e per la prima volta, l’esigenza di una fondazione autonoma della ricerca scientifica. Che per lui aveva un unico significato: porre i fenomeni della natura sotto l’esclusivo potere conoscitivo dei matematici, lasciando all’autorità dei teologi le sole questioni di fede e di morale.
Il decreto inquisitoriale dichiarò la dottrina della mobilità della Terra e immobilità del Sole, «insegnata» da Niccolò Copernico nel De revolutionibus e dal teologo spagnolo Diego de Zuñiga nel suo Commento a Giobbe, «in tutto contraria alla divina Scrittura». Una dottrina considerata sempre più pericolosa perché «si va diffondendo e viene accettata da molti». Come appunto stava a dimostrare un opuscolo scritto in volgare e stampato nel gennaio del 1615 da un teologo copernicano, il padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini. Com’è noto solo la sua Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico fu proibita, mentre le altre due opere furono sospese fino a quando non fossero state corrette.
Nel decreto, non una parola su Galileo. Eppure aveva da poco pubblicato un libro apertamente copernicano come le Lettere sulle macchie solari (1613). Si sa che se la caverà, per così dire, con un ammonimento ingiuntogli personalmente dal cardinale Bellarmino. Ma l’invito alla prudenza non venne ascoltato: l’assoluta autonomia della scienza e l’adesione a una nuova costituzione dell’universo non erano per lui valori negoziabili. E anche per questo non fu un concordista, uno cioè che pensava di conciliare le verità scientifiche con quelle di fede. Fu, semmai, un concordista alla rovescia: perché se è vero che Natura e Scrittura non possono per principio contrariarsi – in quanto prodotti del medesimo Autore – è altrettanto vero che spetta agli interpreti dei testi sacri adattarsi ai risultati della scienza, e mai viceversa.