Corriere La Lettura 21.2.16
Ho scritto un libro per ricordarmi chi sono (quando non lo saprò più)
Clara
Gallini è un’antropologa: «Incidenti di percorso», al quale ha
lavorato dopo la prima operazione al cervello, è diventato un modo per
ri-conoscersi e alleviare
i danni subiti dalla mente. «Rileggermi è una scoperta. Incontro una persona diversa»
di Teresa Cabatti
«Quanti
anni ha la gatta? Non lo so, ho perso il conto. La mia amica Vittoria
dice di averla vista per la prima volta nel 1996. Secondo questo calcolo
avrebbe vent’anni, non credo». Clara Gallini, nata nel 1931, è una
delle più importanti antropologhe italiane, allieva ed erede di Ernesto
de Martino, una vita dedicata allo studio e alla ricerca, docente di
Antropologia culturale ed Etnologia all’Università di Cagliari, poi
all’Orientale di Napoli, infine a Roma (professore emerito alla
Sapienza). È autrice di testi come Cyberspiders. Un’etnologa nella rete ;
Croce e delizia. Usi, abusi e disusi di un simbolo ; La sonnambula
meravigliosa ; Il miracolo e la sua prova. Un etnologo a Lourdes . Si
tratta di testi studiati in tutto il mondo.
Oggi Clara Gallini
pubblica un libro su se stessa, Incidenti di percorso. Antropologia di
una malattia (Edizioni Nottetempo), libro che ha scritto dopo
l’operazione al cervello per un tumore, senza sapere che poi ci
sarebbero state altre operazioni che le avrebbero definitivamente
danneggiato la memoria. «Quello che ho scritto ho potuto farlo quando
ancora gli eventi stavano lì disponibili al ricordo. Ora è come se fossi
svuotata. Rileggermi è stata una scoperta».
Che tipo di scoperta?
«Ho conosciuto una persona diversa che però mi è anche molto simile».
Una persona che le piace?
«Non lo so. L’accetto nelle sue contraddizioni».
Rileggendosi, che cosa l’ha sorpresa di più?
«La morte di Ratzinger».
Una bugia.
«In
clinica ho assistito al funerale di Papa Ratzinger. Do la notizia a
tutti, infermieri medici pazienti. Tutti mi dicono no, non è morto. Era
una visione della fase post-operatoria».
Le prime parole che ha detto al risveglio?
«Non sono Bossi».
Perché?
«Sentivo la paralisi facciale e prendevo anche le mie distanze politiche».
Che memoria pensa di aver perso?
«Di
sicuro la memoria prossima: cosa ho detto, fatto, letto il giorno prima
lo dimentico completamente. In generale, tutta la memoria è scomparsa
con la malattia, e si è attivata, sempre nella malattia, solo con i
ricordi d’infanzia, addirittura nei particolari, che ora però sono di
nuovo scomparsi».
Come l’ha cambiata la malattia?
«Mi ha
costretta a fare un viaggio nel corpo, e a scoprire la storia. La storia
di quando si sta bene, e la storia di quando si sta male».
Com’era lei quando stava bene?
«Autonoma».
E quando stava male?
«Nella
prima fase, prima della perdita di memoria, ho fatto funzionare la
macchina dei ricordi per tornare all’infanzia, per vedere come sono
stata formata dagli altri. Come accettavo, e come mi ribellavo».
Che infanzia ha avuto?
«Sono stata una bambina nata e cresciuta in un ceto abbiente in un città di provincia, Crema».
Nel
libro, della giovinezza lei scrive: «Avevo ormai scelto la strada
dell’intellettuale». Quali sacrifici ha significato questa scelta?
«Per fare l’intellettuale ho dovuto lottare. Ho lottato contro l’ambiente che mi voleva intellettuale sì, ma sposa e madre».
Lei si è ribellata?
«Avevo
uno spettro: zia Ada. Si era laureata, e appena finita l’università si
era chiusa in casa. Disse che soffriva d’insonnia, serrò gli scuri delle
finestre, e costrinse i parenti a camminare scalzi».
Paura di finire così?
«Non
io, mia madre; era più una paura di mia madre. Intanto mia sorella
aveva scelto la strada della famiglia. Era diventata moglie e madre. Per
la verità si è anche laureata in Medicina».
Lei invece?
«Io non ero né zitella né moglie. Ero Clara. Ho cercato di essere un’intellettuale autonoma e resistente».
Ci è riuscita?
«Fino a un certo punto sì».
Fino a quando?
«All’università
di Cagliari, dove sono stata vent’anni, dal 1959 in poi, sono stata
sola. Poi a Roma, sempre sola. La mia casa era aperta a tutti, ospiti e
parenti, ma la padrona sono stata sempre io».
E adesso?
«Con la malattia ho dovuto prendere una badante, che comunque non è un marito».
Meglio?
«Non lo so. Non l’ho mai provato».
I suo genitori hanno accettato che lei non si sposasse?
«Con
grande discrezione mio padre ha provato a costruirmi intorno una
situazione. Ricordo un viaggio in automobile — mio padre, mia madre, e
uno sconosciuto».
Chi era?
«Suppongo un possibile marito. Per loro».
Non ha mai desiderato un marito?
«L’ho sempre sognato, è una delle mie contraddizioni. In realtà io sono un gran casino».
Lei
scrive: «Per una donna, affermare la propria autonomia poteva anche
significare una rinuncia a tutto il resto». L’intellettuale ha prevalso
sulla donna?
«Ho una sessualità repressa. Quando mi vedono le persone dicono: “Hai la faccia della zitella. Non hai attrattiva sessuale”».
Pensa che sia vero?
«Ho avuto pochi amori. Clandestini, perché complicati anche per me».
Nel senso che era lei a volere che rimanessero clandestini?
«È un discorso che fa ancora fatica a uscire. Non è elaborato abbastanza per essere reso pubblico».
La malattia le ha fatto riscoprire la femminilità?
«Non mi pare».
Ma lei racconta che, uscita dall’ospedale, la prima cosa che ha fatto è stata indossare una gonna.
«Non
ero più nel ruolo di malata. Sulla via della guarigione, potevo
mostrarmi nel ruolo di persona. Mettere la gonna significava scoprire la
persona che si poteva mostrare agli altri. Non c’entra niente la
donna».
Essere intellettuale significa rinunciare a essere femmina?
«Non posso generalizzare, mi mancano gli strumenti».
Per lei come è stato?
«Non mi ponevo il problema del femminile. Tutto qui».
E il femminismo?
«Ho
fatto venire le femministe da Milano a Cagliari. Hanno parlato. Io ho
assorbito dal femminismo ma non ho aderito al movimento».
Cos’è stato dunque per lei il femminismo?
«Un’interlocutrice importante».
Lei scrive: «Adesso mi rimangono la televisione e i ricordi d’infanzia».
«Solo la televisione. I ricordi sono svaniti. A volte mi domando: che faccio ora? Non ho altro che Sanremo da vedere».
Lo ha visto?
«Sì.
Ma soprattutto sono stata due giorni davanti alla tv a guardare il
viaggio delle spoglie di Padre Pio. Volevo vedere la folla, quanti
erano, i gesti rispetto alla salma. Toccare, segnarsi la croce, il
silenzio».
Un fenomeno che aveva studiato come antropologa?
«Avevo
letto la storia di Padre Pio e del suo amministratore che si era
riempito di soldi ed era sparito. Letto ma non studiato».
Considerazioni su questo «viaggio di Padre Pio»?
«Mi
sono chiesta se ci fossero altri esempi nella storia di viaggi verso
destinazioni temporanee. Non lo so. Ho pensato: a Cascia c’è il corpo di
Santa Rita, in qualche modo deve esserci arrivato. Però questo di Padre
Pio è un’altra cosa, è un viaggio turistico».
La differenza tra Padre Pio e Lourdes, su cui lei ha scritto «Il miracolo e la sua prova» (Liguori editore)?
«Su
Lourdes avevo molto materiale e non sapevo come prenderlo, l’ho fatto
attraverso Zola. Ci sono tante Lourdes a seconda delle persone che la
vedono. Anch’io ho visto una Lourdes mia».
Che ha visto?
«Mancanza
di allegria. Per questo sono fuggita subito. Eravamo io e una mia
collega, arrivate e fuggite. Ho preferito raccontare la Lourdes di
Zola».
Qual è la distanza tra letteratura e antropologia?
«Si
sono create delle specializzazioni, bisogna romperle. Io ho cercato di
rompere questa divisione, e anche quella tra lingua scritta e lingua
parlata».
«La sonnambula meravigliosa» in Francia è considerato prima di tutto un grande romanzo.
«La ringrazio. Non lo sapevo».
È stato diverso scrivere questo nuovo libro rispetto ai precedenti di studio?
«Anche questo lo è, con gli strumenti dell’etnologa ho analizzato la malattia, la mia».
Nel
libro ripete spesso di essere una malata privilegiata, a cominciare da
quella che chiama «la clinica per ricchi» dove si è potuta operare. Che
rapporto ha con il lusso?
«È l’unico mondo che conosco perché da quello provengo».
A leggerla però sembra che la ricchezza le generi un po’ di insofferenza.
«Ho
letto Marx, sempre restando un’intellettuale borghese. Una delle mie
contraddizioni: stare dalla parte di chi non ha, ma restare sempre una
padrona».
E dunque che significa essere un malato privilegiato?
«Con
la badante vado alla Asl dove un’impiegata m’informa che da settembre
l’erogazione dei pannoloni è ridotta: da tre a due. Lì ho pensato: sono
una privilegiata. Posso permettermi tutti i pannoloni che voglio».
Sollievo o senso di colpa?
«Come posso permettermi tanti lussi? Ogni giorno me lo chiedo, e faccio i conti. Finché dura, mi dico».
Tra i lussi lei include Abilia, la badante.
«Abilia
viene dal Perù, è una donna eccezionale, pensi quanto può essere
difficile vivere così, in una città estranea, a occuparsi solo di una
vecchia come me».
Avete un rapporto di amicizia?
«Sempre all’interno del rapporto servo-padrone. Dentro questa diseguaglianza si forma il colloquio».
Ora che Abilia è al suo Paese, le manca?
«Più che mancarmi, lei è sempre nei miei discorsi. Non è assente».
Vale anche per i morti?
«A
questa età il mondo si è molto ristretto, è popolato di morti. Io ho
paura a cercare certe persone perché mi chiedo se ci siano ancora o no.
L’altro giorno mi chiama un amico regista che non sentivo da tempo, è
vecchio, la mia età».
Che cosa gli ha detto?
«Ma sei vivo!».