Corriere La Lettura 21.2.16
Marilyn, manuale di psicopatologie
Due psichiatri ri-visitano la diva: insonnia, fobie, stress post-traumatico. E diagnosticano uno spettro autistico dottosoglia
di Ranieri Polese
In
principio fu il cinema. «Sono cresciuta al cinema. I miei avevano una
sala cinematografica a Bernalda, in provincia di Matera. Tutti i giorni,
dopo i compiti, andavo a vedere un film. La sala c’è ancora, è chiusa
da un bel po’ di anni. Francis Ford Coppola la voleva comprare. Bernalda
è il paese d’origine della famiglia Coppola, il cinema sta davanti al
palazzo che il regista ha restaurato trasformandolo in un resort. Lì ha
festeggiato il matrimonio della figlia Sofia». Liliana Dell’Osso,
docente di Psichiatria e direttore della Clinica psichiatrica
dell’Università di Pisa, racconta il suo amore per il cinema. Che sotto
varie forme continua ancora. Per esempio nei cicli di film che propone
nei suoi corsi di specializzazione. Sulla locandina si leggono alcuni
titoli: Il padre di Giovanna di Pupi Avati, Persona di Ingmar Bergman.
«Il tema è la malattia mentale, i film offrono sempre spunti
interessanti per la discussione». E ora esce un libro su Marilyn Monroe:
L’altra Marilyn (pubblicato da Le Lettere) scritto con lo
psicoterapeuta Riccardo Dalle Luche. «Sì, ma va letto il sottotitolo:
Psichiatria e psicoanalisi di un cold case . L’idea di questo libro è
nata durante uno dei campus Angelini per specializzandi. Avevo proposto
tre casi su cui i partecipanti dovevano fare una diagnosi: Lady Diana,
Kurt Cobain e appunto Marilyn. Tutti e tre erano presentati come casi
anonimi. È stato lì che si è acceso l’interesse per Marilyn. E per il
suo paradosso: era una donna gravemente ammalata, la cui immagine però
era, e continua a essere, il simbolo della seduzione. Alla base di
questo libro c’è una nuova teoria sul disturbo borderline , di cui
Marilyn è il prototipo. Perché, come lei, ci sono tante altre Marilyn
non famose fra le pazienti che ogni giorno incontriamo in clinica».
Patologia
Prendendo
in prestito un termine in uso nelle serie poliziesche, Marilyn è un
cold case . La sua morte, nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1962, fu
archiviata come suicidio per avvelenamento da barbiturici. A partire
dagli anni Ottanta, molte ricerche misero in dubbio questa conclusione,
anzi si parlò espressamente di omicidio. E come mandanti, di volta in
volta, si indicarono i fratelli Kennedy, la mafia, il Kgb. In che modo
il vostro libro vuole riaprire il cold case Marilyn? «Oggi il tempo
degli scoop mi pare finito. Tra le quattro ipotesi su quella morte —
suicidio, overdose involontaria, errore medico, omicidio — quella più
difficile da credere è il suicidio: Marilyn non assunse il Nembutal per
bocca, l’autopsia non ne trovò traccia nello stomaco. Probabilmente le
fu somministrato con un clistere, escludo che lo abbia fatto da sola.
Qualunque cosa accadde, per me la sua fu una morte inevitabile: Marilyn è
morta per la sua patologia. Del resto, anche chi crede all’ipotesi
dell’omicidio non può ignorare la condizione psicopatologica di Marilyn:
solo una mente sconvolta poteva pensare di ricattare Bob Kennedy, come
pare fece Marilyn nei suoi ultimi giorni, minacciando di rivelare
segreti di Stato».
Autopsia psicologica
Eppure Marilyn è
stata in cura da molti psicoanalisti. «La malattia mentale di Marilyn fu
malamente diagnosticata (Anna Freud, che la ebbe come paziente a Londra
durante le riprese de Il principe e la ballerina , la considerava una
schizofrenica paranoide marginale, ma il suo caso non aveva niente a che
fare con la schizofrenia) e ancora peggio curata: un insieme di
psicoanalisi senza regole e un uso incontrollato di psicofarmaci. Per
noi Marilyn è un prototipo, un modello di psicopatologia. L’intento di
questo libro, di questa “autopsia”, è infatti quello di formulare
un’ipotesi scientifica innovativa sul disturbo borderline di
personalità. Insomma, una diagnosi di quella patologia che, come
sosteniamo, ha reso inevitabile la sua morte. Per questo parliamo di
“Spettro autistico sottosoglia”, a cui si possono far risalire sintomi
come l’insonnia (Marilyn ne soffriva da sempre) e un mix di
psicopatologie come la fobia sociale (non sostenere lo sguardo delle
persone), l’abuso di psicofarmaci, il disturbo post-traumatico da stress
ovvero il numbing (estraniamento dall’ambiente e una sorta di paralisi
nella vita di relazione)».
Morte inevitabile
Condannata a
una «morte inevitabile», Marilyn avrebbe potuto essere salvata? «Oggi,
direi di sì. Ma allora, considerato il suo caso, non fu possibile. E
questo a causa di una serie di fattori: una diagnosi confusa ed errata;
gli psicofarmaci che all’epoca erano piuttosto inappropriati. E infine
l’eccesso di fiducia nella psicoanalisi, quando ormai sappiamo che casi
di malati gravi come Marilyn non dovrebbero essere curati da
psicoanalisti. L’ultimo suo analista, il dottor Ralph Greenson, aveva
instaurato con Marilyn un rapporto pazzesco: sedute ogni giorno che
duravano ore e si tenevano anche in camera da letto di lei. In più
Greenson prescriveva farmaci in dosi eccessive. Questa terapia non
poteva non avere effetti devastanti». È una critica dell’efficacia
universale della psicoanalisi che ricorda le polemiche contro il
professor Giovanni Battista Cassano quando propose una cura
farmacologica della depressione. «Cassano è stato il mio maestro a Pisa.
Il suo merito è stato quello di capire le novità della psichiatria e il
progresso delle neuroscienze. Ha contribuito a far diventare questa
università uno dei centri di ricerca più avanzati. Ora è in pensione. Io
occupo la sua stanza».
La maschera e il volto
Nel libro,
sotto forma di «anamnesi», si riassume la vita di Marilyn. La madre
Gladys, nella cui famiglia si riscontrano gravi malati mentali e molti
suicidi, passa lunghi periodi ricoverata in cliniche psichiatriche
mentre la piccola Norma Jeane viene data in affido a diverse famiglie,
dove probabilmente subisce molestie sessuali. I due nomi propri sono
quelli delle dive Jean Harlow e Norma Talmadge; il cognome, Mortenson,
le deriva da uno dei mariti di Gladys, che quasi sicuramente non era il
suo vero padre. «Quando parlava della sua infanzia e della prima
adolescenza — dice la professoressa Dell’Osso — Marilyn le definiva
normali: un chiaro comportamento da spettro autistico, cioè l’assoluta
incompetenza a riconoscere il trauma subito». Crescendo si rende conto
che il sesso, la seduzione possono aiutare molto. Vuole diventare
attrice, e così ogni uomo che la può favorire può averla. È in questa
fase che comincia la sua trasformazione, da bella ragazzotta che posa
per delle foto pubblicitarie diventerà la bionda divina, la star più
grande di Hollywood. «Ma in questo modo lei costruiva un’altra se
stessa, bellissima, perfetta, affascinante. Dietro cui nessuno poteva
indovinare Norma Jeane. La creazione di Marilyn è stato il suo
capolavoro, perseguito con perfezionismo maniacale: ore di trucco e di
parrucchieri, abiti cuciti addosso. E il tutto si traduceva in
spaventosi ritardi, che provocavano problemi sul set. In questo
sdoppiamento, che ricorda quello di Dorian Gray, Marilyn non invecchia
mai. Purtroppo però la coabitazione tra queste due donne non poteva
funzionare. Gli uomini della sua vita, attratti da Marilyn, si trovavano
poi a vivere con l’insicura, disturbata Norma Jeane. L’ultimo marito,
Arthur Miller, descriverà la vita di coppia come un inferno. Norma Jeane
cercava disperatamente una figura paterna, qualcuno che la adottasse.
Il dottor Greenson fu l’ultimo di questa serie di figure. E il loro
rapporto si risolse in una catastrofe».