sabato 6 febbraio 2016

Corriere 8.2.16
Le scelte di Renzi che dividono i socialisti europei
di Francesco Verderami

Divisi tra ragione e sentimento, i socialisti europei amano e odiano Renzi contemporaneamente. Non è un caso collettivo di schizofrenia, è una scissione politica tra il desiderio di affermare degli ideali e l’obbligo di salvaguardare gli interessi nazionali.
Così può capitare che nella stessa famiglia con la stessa provenienza, ci siano giudizi opposti sul premier italiano. Che a Bruxelles il commissario socialista francese Pierre Moscovici confidi a una collega italiana di essere «preoccupato» per i metodi di Renzi, e che a Strasburgo l’eurodeputato socialista francese Gilles Pargneaux riveli a una collega italiana di essere «ammirato» per i metodi di Renzi: «Ce l’avessimo noi uno così». È davvero incredibile questo mondo sottosopra, perché dovrebbe esserci una maggiore affinità elettiva tra il ministro dell’Economia dell’Unione e l’inquilino di Palazzo Chigi, rispetto al trasporto manifestato dal parlamentare transalpino, che viene dalla corrente di Martine Aubry, figlia di Jacques Delors. Non fosse altro che per ragioni di etichetta istituzionale.
Ecco, l’etichetta. Un argomento su cui Gianni Pittella, capogruppo dei socialisti europei, viene tormentato dai compagni francesi e tedeschi. «Eh, ma in passato non era così». «Eh, ma non è il caso di fare i maestrini». Pittella non ha bisogno di sentire a chi facciano riferimento: lo sa. Il punto è che a Bruxelles come a Strasburgo la forma è sostanza, perciò i codici di linguaggio di Renzi hanno creato scompiglio, e scompigliato l’austera compostezza della larga coalizione. Quale sia stata la reazione del Ppe è noto, tanto da aver spinto Jean Claude Juncker — nelle sue vesti di esponente Popolare — a definire il premier italiano un «giovane che diventerà maturo», e provocando quasi un incidente diplomatico con Roma.
Se così stanno le cose, il punto è capire di quante legioni dispone Renzi nell’Unione, fino a dove i compagni socialisti sono pronti a seguirlo con questa idea di «rottamare gli euroburocrati», la loro dottrina, persino i loro referenti. E se nel gruppo in Parlamento il capo del governo italiano fa proselitismo, in Commissione trova porte chiuse e non solo per lealtà di collegio. Ce n’è la prova nelle tre diverse dichiarazioni di Moscovici dell’altra sera: la prima tagliente verso il leader del Pd, la seconda più accomodante su richiesta del gruppo socialista europeo, la terza più diplomatica su richiesta di Palazzo Chigi. Il denominatore comune di tutte le note era però lo stesso: Renzi abbassi i toni.
L’asse franco-tedesco non si spezza per questioni di appartenenza allo stesso partito, e gli europarlamentari francesi — ai quali Renzi piace — si ritengono vincolati al patto nazionale. Quanto ai tedeschi dell’Spd, già in sofferenza a casa loro, non è piaciuto l’irrigidimento del premier sui fondi da destinare alla Turchia per l’emergenza migratoria: con le elezioni amministrative alle porte e le politiche dietro l’angolo, vedersi scavalcati su un tema che in Germania sta mettendo in difficoltà anche la Merkel ha provocato una forte irritazione. Più di quei continui riferimenti di Renzi al «41% del Pd». I Popolari, maligni, raccontano che il cahier de doleances sia stato riferito loro da Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo che tiene con il Ppe buoni rapporti, perché mira a essere riconfermato. In caso contrario gradirebbe tornare al ruolo di capogruppo, che oggi è di Pittella.
C’è una componente di fatalismo meridionale e insieme di pragmatismo politico nel modo in cui Pittella fa mostra di essere tranquillo, anzi «ottimista», dice: «Nel senso che — posto che non si può fare a meno dell’Italia — si dovrà trovare un compromesso, dentro un governo di coalizione. Perché c’è un governo di coalizione in Europa, non è che si può avere tutto». E se il compromesso non si trovasse, Renzi rischierebbe l’effetto boomerang anche tra i compagni che oggi lo adulano.
Quale sia poi il «compromesso» se lo chiede la liberaldemocratica Sylvie Goulard, stufa di «questo teatrino che non porta da nessuna parte. Il premier italiano convogli piuttosto la sua energia in una proposta di riforma e la presenti». Sì, ma di quante divisioni dispone il leader del Pd? Ieri sera la tavola con il primo ministro olandese Mark Rutte pare l’abbia apparecchiata Frans Timmermans, vice presidente della Commissione con cui Renzi parla spesso. Più di quanto non capiti con la Mogherini.