Corriere 8.2.16
Le scelte di Renzi che dividono i socialisti europei
di Francesco Verderami
Divisi
tra ragione e sentimento, i socialisti europei amano e odiano Renzi
contemporaneamente. Non è un caso collettivo di schizofrenia, è una
scissione politica tra il desiderio di affermare degli ideali e
l’obbligo di salvaguardare gli interessi nazionali.
Così può
capitare che nella stessa famiglia con la stessa provenienza, ci siano
giudizi opposti sul premier italiano. Che a Bruxelles il commissario
socialista francese Pierre Moscovici confidi a una collega italiana di
essere «preoccupato» per i metodi di Renzi, e che a Strasburgo
l’eurodeputato socialista francese Gilles Pargneaux riveli a una collega
italiana di essere «ammirato» per i metodi di Renzi: «Ce l’avessimo noi
uno così». È davvero incredibile questo mondo sottosopra, perché
dovrebbe esserci una maggiore affinità elettiva tra il ministro
dell’Economia dell’Unione e l’inquilino di Palazzo Chigi, rispetto al
trasporto manifestato dal parlamentare transalpino, che viene dalla
corrente di Martine Aubry, figlia di Jacques Delors. Non fosse altro che
per ragioni di etichetta istituzionale.
Ecco, l’etichetta. Un
argomento su cui Gianni Pittella, capogruppo dei socialisti europei,
viene tormentato dai compagni francesi e tedeschi. «Eh, ma in passato
non era così». «Eh, ma non è il caso di fare i maestrini». Pittella non
ha bisogno di sentire a chi facciano riferimento: lo sa. Il punto è che a
Bruxelles come a Strasburgo la forma è sostanza, perciò i codici di
linguaggio di Renzi hanno creato scompiglio, e scompigliato l’austera
compostezza della larga coalizione. Quale sia stata la reazione del Ppe è
noto, tanto da aver spinto Jean Claude Juncker — nelle sue vesti di
esponente Popolare — a definire il premier italiano un «giovane che
diventerà maturo», e provocando quasi un incidente diplomatico con Roma.
Se
così stanno le cose, il punto è capire di quante legioni dispone Renzi
nell’Unione, fino a dove i compagni socialisti sono pronti a seguirlo
con questa idea di «rottamare gli euroburocrati», la loro dottrina,
persino i loro referenti. E se nel gruppo in Parlamento il capo del
governo italiano fa proselitismo, in Commissione trova porte chiuse e
non solo per lealtà di collegio. Ce n’è la prova nelle tre diverse
dichiarazioni di Moscovici dell’altra sera: la prima tagliente verso il
leader del Pd, la seconda più accomodante su richiesta del gruppo
socialista europeo, la terza più diplomatica su richiesta di Palazzo
Chigi. Il denominatore comune di tutte le note era però lo stesso: Renzi
abbassi i toni.
L’asse franco-tedesco non si spezza per questioni
di appartenenza allo stesso partito, e gli europarlamentari francesi —
ai quali Renzi piace — si ritengono vincolati al patto nazionale. Quanto
ai tedeschi dell’Spd, già in sofferenza a casa loro, non è piaciuto
l’irrigidimento del premier sui fondi da destinare alla Turchia per
l’emergenza migratoria: con le elezioni amministrative alle porte e le
politiche dietro l’angolo, vedersi scavalcati su un tema che in Germania
sta mettendo in difficoltà anche la Merkel ha provocato una forte
irritazione. Più di quei continui riferimenti di Renzi al «41% del Pd». I
Popolari, maligni, raccontano che il cahier de doleances sia stato
riferito loro da Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo che
tiene con il Ppe buoni rapporti, perché mira a essere riconfermato. In
caso contrario gradirebbe tornare al ruolo di capogruppo, che oggi è di
Pittella.
C’è una componente di fatalismo meridionale e insieme di
pragmatismo politico nel modo in cui Pittella fa mostra di essere
tranquillo, anzi «ottimista», dice: «Nel senso che — posto che non si
può fare a meno dell’Italia — si dovrà trovare un compromesso, dentro un
governo di coalizione. Perché c’è un governo di coalizione in Europa,
non è che si può avere tutto». E se il compromesso non si trovasse,
Renzi rischierebbe l’effetto boomerang anche tra i compagni che oggi lo
adulano.
Quale sia poi il «compromesso» se lo chiede la
liberaldemocratica Sylvie Goulard, stufa di «questo teatrino che non
porta da nessuna parte. Il premier italiano convogli piuttosto la sua
energia in una proposta di riforma e la presenti». Sì, ma di quante
divisioni dispone il leader del Pd? Ieri sera la tavola con il primo
ministro olandese Mark Rutte pare l’abbia apparecchiata Frans
Timmermans, vice presidente della Commissione con cui Renzi parla
spesso. Più di quanto non capiti con la Mogherini.