domenica 7 febbraio 2016

Corriere 7.2.16
Vittorini e il culto del lavoro Il siciliano che amava Milano Il coraggio Nonostante la gravità del male che lo colpì rimase sempre attivo fino agli ultimi giorni
di Paolo Di Stefano

«In clinica continuò a leggere, a scegliere testi (di antropologia, filosofia, estetica, politica, semiologia) per la collana einaudiana “Nuovo Politecnico”». Così Raffaele Crovi ricordava gli ultimi mesi di Elio Vittorini. Il primo ricovero, per un intervento chirurgico nella clinica San Giuseppe di Milano, risale all’autunno 1963. Ufficialmente si disse che soffriva di diverticoli, ma una sera rivelò amaramente all’amico Raffaele che in realtà diverticoli erano sinonimo di cancro. Non aveva mai smesso di lavorare, era consulente della Mondadori, dove dirigeva la «Medusa degli stranieri», e poi i «Nuovi scrittori stranieri», andando nel suo ufficio di via Bianca di Savoia quasi ogni pomeriggio; era consulente anche per Einaudi, si occupava con Calvino del «Menabò», aveva in corso un paio di libri, partecipava a incontri pubblici e non faceva mancare la sua presenza come giurato di premi (quando il Pozzale, nel 1965, bocciò Hilarotragoedia di Manganelli, promise di chiudere con i premi).
Scriveva lettere, faceva schede editoriali, incontrava autori, viaggiava, entrava in politica (presidente dei Radicali nel 1960), trovava il tempo di frequentare gli amici, di andare in vacanza con la moglie Ginetta in Sardegna, in Jugoslavia e in Grecia, in Sicilia. Rilasciava interviste, promuoveva appelli civili, come la Dichiarazione contro la guerra d’Algeria. Uno degli ultimi progetti di Vittorini fu una nuova rivista internazionale, «Gulliver», che non avrebbe visto la luce nonostante il comitato direttivo formidabile: da Calvino a Pasolini e Leonetti, da Blanchot a Enzensberger, da Butor a Leiris a Barthes a Grass, Uwe Johnson, Ingeborg Bachmann e altri.
Non si fermava mai. Anche per «Gulliver» redigeva programmi e lettere lunghissime, si spostava a Zurigo. Se ne fregava dei segni del male che si erano palesati per tutto il 1963. L’anno dopo, in marzo, venne allestito il numero zero (rimasto unico) con cui «Gulliver» prometteva di «promuovere insieme un nuovo discorso intellettuale, politico e letterario» e nel quale comparivano ben tre articoli di Vittorini, oltre alla sua nota introduttiva. Intanto, però, in una lettera all’amico Maurice Blanchot del dicembre 1964 rivelò: «Una malattia come questa è un’esperienza che non lascia le cose al punto in cui le ha trovate. Produce una regressione. Preciso: una regressione dell’intelligenza». Questo fu Vittorini, almeno dal 1939, quando Bompiani lo chiamò a Milano strappandolo a Mondadori. Arrivava da Firenze, dove il ragioniere-contabile siracusano, figlio di un ferroviere, si era trasferito dieci anni prima.
Ora, nel cinquantenario della morte, l’Università Statale e la Cattolica di Milano dedicano un convegno al suo rapporto con la «città politecnica» (19 e 20 febbraio). Vittorini morì nella sua casa di via Gorizia 22 il 12 febbraio 1966: tre giorni prima aveva sposato Ginetta Varisco, «per un desiderio coltivato a lungo», ricorda Crovi (la sua prima moglie era Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore). In dicembre aveva scritto a Roland Barthes per convincerlo a concedere all’Einaudi la traduzione degli Elementi di semiologia : e Barthes non esitò, anzi dedicò a Elio l’edizione italiana. Chi volesse visitare le sue spoglie, deve andare nel piccolo cimitero di Concorezzo, vicino a Monza, dove Vittorini giace accanto alla moglie Ginetta, che morì nel 1978.
Vittorini e Milano, dunque. «Più di ogni altro — dice Giovanna Rosa, che cura il convegno — ha saputo interpretare lo spirito e la civiltà del capoluogo lombardo, città capace di rimescolare il mondo, come dice Franco Loi». Milano città del mondo . È il titolo dell’intervento di Edoardo Esposito, che a Vittorini ha dedicato numerosi studi. Già una lettera del 1933 a Lucia Rodocanachi testimonia l’attrazione fatale dello scrittore di passaggio a Milano: «Sa che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città (…). Io non sarò più tranquillo se non saprò d’esserci là dentro, come milanese, e davvero credo di aver trovato la maniera di lavorarci tra collaborazioni fisse a giornali e piccoli lavori (oltre le traduzioni) con Mondadori». Per Vittorini, osserva Esposito, «Milano è la città della possibilità, del cambiamento, del futuro. Una città che lo esalta subito, dove mito e realtà si danno concordemente la mano».
Nel febbraio 1939 può scrivere a Silvio Guarnieri di aver trovato casa in via Pacini 23. Attraverso il lavoro editoriale e le traduzioni, Milano diventa «l’ideale trampolino verso un’America in cui Vittorini non metterà mai piede». Frequenta Giansiro Ferrata, l’ingegner Gadda, Sergio Solmi, Quasimodo. Ci sono anche fasi di stanchezza, in cui Milano gli appare « ville morte », ma, osserva Esposito, «è sempre con il lavoro che la città si riscatta»: l’editoria rimane una finestra sul mondo e sulla modernità per un intellettuale che dice di essere interessato solo al tempo in cui vive: «Perché mi sembra possibile, qui e non altrove, in Italia, un’esistenza a livello moderno (…). Qui c’è la realtà del lavoro, la realtà della fabbrica, che non possiamo abolire dalla nostra immaginazione, se viviamo oggi…». Abbandonato nel 1961 il romanzo Le città del mondo , Vittorini si dedicò a un racconto metropolitano, il cosiddetto «manoscritto di Populonia», rimasto incompiuto per il male che avanzava.
Il suo ultimo libro pubblicato in vita resta dunque il Diario in pubblico , uscito nel settembre 1957 per Bompiani. È un libro composito, che segue il cammino del Vittorini saggista, critico, polemista attraverso la riorganizzazione di scritti che coprono un trentennio quasi, dal 1929 al 1956, e con l’aggiunta di note di autocommento «attuali». Ora il Diario in pubblico viene riproposto per le cure di Fabio Vittucci, che ne ricostruisce la travagliata vicenda editoriale. Vittorini parlò di un materiale «frantumato al massimo» e ricomposto in un nuovo mosaico cronologico-tematico secondo due criteri fondamentali: «Che i passi mi soddisfino ancora oggi, che essi rivestano un interesse generale e non puramente autobiografico». Un «diario delle occasioni intellettuali», non un diario intimo e neanche un’antologia, diviso in quattro «ragioni»: letteraria (1929-1936), antifascista (1937-1945), culturale (1946-1947), civile (1948-1956). Un’opera complessa, generosa e, in fondo, sperimentale, com’è stata sperimentale e generosa tutta l’avventura intellettuale di Vittorini.