Corriere 6.2.16
Adolescenti interrotti
Perché si chiudono in casa
In Giappone, dove sono stati «riconosciuti» si chiamano hikikomori. In Italia sono 80 mila
di Irene Soave
«È
come avere in casa una torre, e tuo figlio è dentro. Tu ci giri intorno
ma non puoi mai entrare». Marco, figlio unico di due professionisti,
ora è all’università. Ma in quella che sua mamma chiama «la torre» e che
per la psicologia è una nuova sfida chiamata «ritiro sociale», ha
trascorso quasi tre anni. «Dormiva fino alle 15: giocava online con
ragazzi in America e aveva quel fuso. Nelle settimane peggiori non si
lavava nemmeno».
In Giappone quelli come Marco si chiamano
«hikikomori» e psicologi e psichiatri se ne occupano da tempo. In Italia
è una condizione «nuova»: il primo congresso sul ritiro sociale in
adolescenza ha riunito a Milano, lo scorso weekend, un migliaio di
addetti ai lavori. È «ritiro sociale», spiega lo psicoterapeuta Antonio
Piotti, fra gli organizzatori del convegno e curatore del saggio sul
tema Il corpo in una stanza (Franco Angeli, 2015), «se il ragazzo si
chiude in casa per almeno sei mesi, rifiutando i contatti sociali e
passando ore su Internet. Quasi sempre lascia la scuola». Una condizione
estrema, ma non rara, se al congresso è emersa la stima di 80 mila casi
in Italia. Alla milanese Fondazione Minotauro, che negli ultimi tre
anni ha preso in carico un centinaio di «hikikomori», la metà dei 500
ragazzi che arrivano ogni anno ha già abbandonato la scuola.
Quasi
mai per problemi di studio: Marco, ad esempio, autorecluso a 17 anni,
«era sempre stato bravissimo». E proprio lì affioravano i primi segni di
quello che negli anni si sarebbe rivelato un patologico senso di
inadeguatezza. «A 9 anni, sulla pista di atletica — racconta il papà —
un compagno lo sorpassò: lui finse di prendersi una storta e lasciò la
gara. Era iper competitivo, un soldatino. In terza media tornò a casa in
lacrime e raccontò che i compagni lo avevano picchiato. Ci preoccupammo
molto, ma già il giorno dopo arrivò a casa minimizzando: “Tutto risolto
papà”. Come volesse tranquillizzarci. E noi ci tranquillizzammo, anche
se lui stava sempre più chiuso in camera».
È proprio il tentativo
di non preoccupare i genitori l’allarme più rilevante; più della
cosiddetta «dipendenza da internet», che con l’avvento degli smartphone è
diventata una categoria, anche clinica, fumosa. «Il primo segno di
disagio — spiega la psicoterapeuta del Minotauro Loredana Cirillo — è
che va sempre tutto bene. Non esiste un adolescente che non ha problemi,
che non litiga, che sta volentieri molto da solo». Il fatto di passare
molto tempo online, invece, «è solo un sintomo. I genitori vengono quasi
sempre da noi lamentando che il ragazzo vive incollato al monitor e che
ogni limite o divieto non lo schioda di lì. Ma il computer aiuta solo
ad “abitare” il ritiro, fornendo una socializzazione vicaria, da cui è
assente il corpo “adulto” che il ragazzo sta sviluppando. Ed è questa la
chiave: il “ritirato” si sente inadeguato a diventare un uomo».
«Facevamo
contratti scritti — ricorda il papà —: Marco poteva entrare a scuola
alle 10 se però si limitava a tre ore di videogiochi. Arrivava il
mattino, e lui restava a letto. Io gli tiravo l’acqua in faccia, ma era
inutile. Lo disprezzavo». Marco migliora con l’intervento dello
psicologo. «Spesso — spiega Piotti — i ragazzi rifiutano di uscire per
un consulto. Perciò possiamo anche intervenire a domicilio». E preparare
la strada a una terapia vera, a cui si sottopongono anche i genitori.
«Abbiamo capito che le nostre aspettative sul successo di Marco andavano
ritirate — riprende il padre —. Non è stato un processo breve né
facile. Ma ho capito che era quasi finita quando dopo mesi che non mi
parlava ho visto il suo nome sul display del telefonino. “Vorrei provare
la maturità”, mi ha detto. Ero in ufficio, sono andato a scuola a
cercare i prof, a chiedere di riaccettarlo. È il ricordo più bello della
mia vita. Come se Marco fosse nato di nuovo» .