giovedì 4 febbraio 2016

Corriere 4.2.16
Olivier Roy : Sono già tra noi,  pericolosi
i nichilisti (senza causa) della Jihad
intervista di Lorenzo Cremonesi

Fascinazione per la morte, collettiva ma soprattutto individuale, cercata, glorificata, idealizzata nell’autoimmolazione vista come supremo atto eroico. Oltre a ciò, ignoranza della storia, della tradizione islamica e del Paese di residenza, sradicamento dalle comunità in cui si vive, esistenze separate in piccole cellule quasi famigliari: sono le caratteristiche base di quelli che Olivier Roy definisce i «nuovi nichilisti della jihad». Un fenomeno che, secondo lo studioso francese, è tipico dell’Europa occidentale e ha invece poco a che fare con i combattenti di Isis in Medio Oriente. Osserva: «Il Califfato in Siria e Iraq avrà un suo decorso storico legato alle dinamiche regionali e presto potrebbe venire persino battuto. Ma i giovani nichilisti islamici europei sono a casa nostra, destinati a restare, casomai potrebbero trovare un’altra causa per cui combattere».
Chi sono i nichilisti islamici?
«Un fenomeno molto francese. Sono giovani, figli di immigrati di seconda o terza generazione. In genere prima si radicalizzano e solo in un secondo tempo aderiscono all’Islam salafita più estremo. Un’ideologia che non richiede grandi conoscenze storiche o teologiche. L’azione del singolo adepto viene esaltata in quanto tale, svetta dalla tabula rasa della conoscenza. I suoi nuovi seguaci non sono frutto dell’estremismo islamico, bensì artefici dell’islamizzazione dell’estremismo. Spesso sono vecchi compagni di scuola, vicini di casa sin da bambini. L’amico sposa la sorella dell’amico. Creano nuclei famigliari chiusi. Con loro gli imam moderati possono fare poco. Hanno linguaggi diversi da quelli delle moschee tradizionali. In realtà sono profondamente occidentali: di madrelingua francese, parlano molto meglio dei loro genitori, comunicano sulla Rete, hanno bevuto alcol, fumato spinelli, fatto il filo alle ragazze in discoteca».
Ma perché nichilisti?
«Sono affascinati dalla morte. La cercano, la predicano e coltivano intimamente, è parte della loro identità individuale e di piccolo gruppo che si considera eletto. Vogliono morire, per loro è un onore farlo combattendo, dà senso alle loro esistenze. In questo modo si differenziano dai gruppi terroristici classici, per i quali restare in vita è uno dei doveri fondamentali per poter garantire la continuità del proprio impegno nella lotta. In secondo luogo, non credono in un ideale utopico, non lavorano per una società migliore, non cercano di militare in partiti politici o associazioni. Anche quando arrivano in Siria, la loro interazione con la popolazione locale resta praticamente nulla. Non cercano di migliorare le condizioni economiche dei siriani, non aiutano i civili, non sono medici o infermieri, non si interessano ai problemi dell’amministrazione. Sono arrivati per la jihad, vogliono combattere e sono disposti a morire al più presto».
Il nichilismo è parte integrante della tradizione occidentale. Pensiamo ai nichilisti russi dell’Ottocento, alla filosofia di Nietzsche, al movimento anarchico, alla violenza dei Freikorps tedeschi dopo la Prima guerra mondiale, all’eversione dopo il Sessantotto. Lei a chi paragonerebbe i nuovi jihadisti?
«Alla Banda Baader-Meinhof. Come i jihadisti, che rifiutano i genitori assimilati in Europa, i terroristi tedeschi erano in rotta con la generazione dei padri, accusata di aver sostenuto il nazismo senza ribellarsi. Entrambi i gruppi lottano per difendere un idealizzato, ma vagamente definito Lumpenproletariat universale; i tedeschi criticavano i partiti della sinistra, così come i jihadisti rifiutano contatti con l’Islam istituzionale in Francia e altrove. Anche i tedeschi esaltavano il suicidio. Inoltre sono movimenti globalizzati. I tedeschi andavano nei campi palestinesi in Libano, in Libia, in Siria, nello Yemen. Isis predica la guerra santa ovunque. In più però i jihadisti hanno una fascinazione estrema per la violenza fine a se stessa, i cui precedenti sono più recenti».
Per esempio?
«Penso al massacro di Columbine nel 1999, quando due studenti armati uccisero 12 compagni di liceo e ne ferirono altri 24. I due alla fine si uccisero. La polizia scoprì poi che avevano filmato tutti i preparativi dell’attentato. Se fosse avvenuto oggi, li avrebbero trasmessi sui social, più o meno come fanno gli uomini di Isis. A colpire è l’esaltazione dell’azione di uccidere e il bisogno di renderla pubblica come strumento di autoaffermazione. Una logica simile spinse nel 2011 il 32enne Anders Behring Breivik a massacrare 77 giovani norvegesi sull’isola di Utøya. C’è qui un legame profondo tra nichilismo e orgoglio. I jihadisti, che si sentivano al margine, uccidendo e uccidendosi si collocano finalmente al cuore dell’attenzione pubblica. Prima si radicalizzano e solo in un secondo tempo scelgono l’Islam nella sua versione più estrema. Ma tutto questo non c’entra più con la disperazione delle banlieue. Gli autori dell’attacco contro “Charlie Hebdo” il 7 gennaio 2015 e di quello a Parigi il 13 novembre avevano poco a che vedere con il mondo delle banlieue. Sono invece affascinati dalla violenza, vista in mille forme su internet. A Marsiglia le banlieue imperano, ma ci sono gruppi criminali che danno armi e sensazioni forti ai giovani. Di conseguenza, qui i jihadisti si contano sulle dita di una mano. A Nizza invece la comunità araba è più ricca e integrata, eppure i jihadisti arrivano più facilmente dai ranghi della sua classe media».
Ma se la radicalizzazione si manifesta prima dell’Islam fondamentalista, perché scegliere quest’ultimo?
«È l’ideologia che in questo momento domina il mercato della violenza terrorista. La sinistra, anche quella estrema, non li interessa: non è abbastanza radicale, non ha una dimensione globale e non coinvolge affatto questi giovani. Sono degli sradicati, non si riconoscono nei movimenti di protesta tradizionali europei, non condividono le battaglie per i diritti civili, per esempio per i matrimoni gay. Sono ribelli senza una causa, arrabbiati sicuramente, ma alla ricerca di un obiettivo per cui combattere».
E la trovano nell’Islam?
«Risponde ai loro bisogni. Inoltre, per chi viene da una famiglia musulmana, c’è la tradizione ormai ventennale dei volontari andati a combattere in Afghanistan, Cecenia, Bosnia, poi approdati ad Al Qaeda e ora nelle file di Isis».
È caduto il tabù della guerra, così come ha dominato l’Europa uscita dalle ceneri del secondo conflitto mondiale?
«I jihadisti europei vivono in un immaginario scenario di guerra permanente. Ma non ha alcun contesto storico, non sanno neppure che cosa sia stata la Seconda guerra mondiale. La loro guerra viene da quella virtuale dei videogame. Le Brigate rosse e i movimenti di quella stagione avevano come riferimenti la guerra partigiana contro il nazifascismo, i miti della Resistenza, la Rivoluzione russa. I jihadisti non hanno nulla di tutto questo, si muovono in un vuoto culturale e politico. Non a caso scelgono il filone salafita che rifiuta qualsiasi autorità, predica ai giovani che possono arrivare alla verità ed essere maestri di loro stessi semplicemente combattendo».
Possono diffondersi in Italia?
«Non lo credo. In Italia avete piccole comunità islamiche e poche di seconda o terza generazione. Inoltre da voi c’è l’associazione degli italiani convertiti all’Islam, molto attiva e presente per frenare i fenomeni di radicalizzazione. Ma senz’altro il terrorismo crea adepti e grande attenzione mediatica: la voglia di imitarlo può diventare un problema grave».
Dobbiamo avere paura dell’Islam?
«Non dell’Islam, ma del radicalismo. Il mio libro intende smentire proprio le teorie di chi identifica sempre e comunque il primo con i secondi».