giovedì 4 febbraio 2016

Corriere 4.2.16
La vicesindaca etiope di Tel Aviv
«Io, il Mossad e la terra promessa» Mehereta Baruch-Ron, salvata a 9 anni grazie all’Operazione Mosè

« Operazione Mosè»: lei c’era. Aveva nove anni quando, nel 1984, il Mossad e la Cia organizzarono un ponte tra il Sudan e Israele per mettere in salvo oltre novemila ebrei etiopi. Mehereta Baruch-Ron, attuale vicesindaca di Tel Aviv, era una di loro. Con due sorelle, camminò per più di tre settimane dal suo villaggio, nel nord dell’Etiopia, fino a un campo profughi in Sudan, a 800 chilometri di distanza, dove rimase a bivaccare per sei mesi. Poi la traversata per l’Europa, infine il volo El-Al verso la «terra promessa», l’elettricità, l’acqua corrente, un vero bagno, la scoperta di oggetti ignoti, come il frigorifero, o di meraviglie tecnologiche, come una tubatura funzionante.
Sull’esodo il governo sudanese aveva chiuso gli occhi. Ma, dopo pochi mesi, se ne accorsero i suoi alleati arabi; e le partenze furono bloccate. Fino a nuovi trasferimenti predisposti dai servizi segreti: l’Operazione Joshua e l’Operazione Salomone, nel 1991. «Ci sono voluti sei anni perché la nostra famiglia potesse ricongiungersi in Israele».
Mehereta Baruch-Ron sa di che cosa si parla quando si parla di immigrati, di fughe notturne, di ordini sussurrati nel buio, di profughi ammassati come merci, di clandestinità e di riscatto. Anche per questo era a Milano, l’altra sera a Palazzo Marino, alla cerimonia per il conferimento a don Virginio Colmegna del premio «Uomo dell’anno 2016», attribuito dagli Amici del Museo d’arte di Tel Aviv: «Per la sua dedizione ai poveri e ai più deboli — si legge nella motivazione — e per aver fatto dell’arte e della cultura strumenti di accoglienza e di integrazione».
La sua Casa della carità somiglia ai collegi di Hadera (nel distretto di Haifa) e del Monte Carmelo che accolsero Mehereta quando sbarcò ad Ashkelon, nel Negev occidentale, senza i genitori e senza conoscere una parola di ebraico. I musei e il teatro colmarono le distanze, ruppero le barriere.
«Ci chiamano falasha , il nome etiope per chi è forestiero — racconta Mehereta —; non è un bel termine, ma l’idea di essere fuori posto e che ci fosse una terra promessa, la mia vera patria, ad attendermi, mi ha accompagnata fin da bambina. Ricordo che una delle mie zie aveva studiato e poi lasciato il villaggio per andare in città a insegnare. Io avevo 7 anni e tremavo per lei, costretta a nascondere di essere ebrea».
E ora, che cosa prova per il suo Paese natale? «Non ho più nessuno della mia famiglia laggiù. Non è rimasta alcuna emozione dentro di me. L’Etiopia è bellissima; è diventata un Paese moderno, con un ottimo esercito, una nazione fiera di non essere mai stata invasa, a parte il breve periodo di occupazione italiana. Ma la mia terra, come quella di milioni di russi, polacchi, americani e altri ebrei arrivati da tutto il mondo, è Israele. Dove siamo nati una seconda volta».
Grazie alla fede comune, certo. Ma non solo, per Mehereta: «Ha ragione don Colmegna quando dice che dobbiamo cercare una nuova umanità. Non è più rilevante che l’Italia sia formata solo da italiani o Israele solo da israeliani. La globalizzazione ha creato nuove sfide e gli aspetti negativi dell’immigrazione non superano quelli positivi. È un costo, sì, ma arricchisce. Ci sarà pur in Italia un sindaco nato in Africa, in Siria, vero?» .