Corriere 4.2.16
Come uscire dall’angolo
Nuovi equilibri: ora alzare il livello del dibattito politico sulla flessibilità.
di Maurizio Ferrera
Non
è facile decifrare la spirale di polemiche in atto fra Roma e
Bruxelles. Per quanto importanti sul piano finanziario, non è credibile
che tutto si riduca a questioni di «zero virgola», di applicazioni più o
meno restrittive delle clausole di flessibilità. Il conflitto va
piuttosto ricondotto all’intreccio di partite che si sono aperte con
Bruxelles su vari fronti. Innanzitutto, non rispettando molte delle
raccomandazioni ricevute lo scorso giugno, la legge di Stabilità per il
2016 ha creato una ferita nei rapporti con la Commissione, proprio
mentre si invocavano deroghe sul deficit. Come dire: noi abbiamo il
diritto di ignorarvi, voi il dovere di aiutarci. Incautamente e con
troppo fragore, Renzi ha poi aperto dossier delicatissimi (dal gasdotto
Nord Stream alle norme sulle banche), rompendo logiche da arcana imperii
che è difficile in questo momento ricostruire con precisione. La
rottura ha pesato, infiammando gli animi.
Ci sono però due altre
spiegazioni, una più superficiale, l’altra più profonda. Leggerezza,
emotività e stereotipi, in primo luogo. A parte rari esempi, i leader
italiani a Bruxelles hanno sempre dovuto scontare pregiudizi negativi.
Qualche tempo fa, commentando le ambizioni europee di Renzi, il
diffusissimo magazine online Il Politico lo ha attaccato per come si
atteggia nei confronti degli altri leader, per come usa il cellulare,
per il suo inglese «da clown». La strategia migliore per il nostro
Presidente sarebbe quella di lasciar perdere, di alzare il livello della
conversazione. Renzi invece risponde e incalza i critici con battute
«virili» (per usare il brutto epiteto usato da Juncker), facendo così
ripartire il tiro al bersaglio.
La spiegazione «profonda» è più
rilevante, soprattutto per impostare una strategia di uscita. La crisi
del debito ha cambiato la gerarchia politica fra i Paesi Ue. Con il
Fiscal Compact si è data vita a una Comunità imperniata su criteri di
«stabilità finanziaria rafforzata», che ha di fatto e di diritto
accresciuto il potere dei Paesi del Nord. Tale diagnosi è largamente
condivisa fra gli scienziati politici (per chi vuole approfondire
consiglio la lettura di States, Debt and Power di K. Dyson, 2013). In
parte, questo nuovo assetto ha portato benefici a tutta l’eurozona: la
tenuta dell’euro e i prestiti ai Paesi in difficoltà. Ha anche spronato i
nostri governi a fare irrinunciabili compiti a casa. Ma si sono
prodotti anche nuovi problemi. La stabilità rafforzata garantisce i
Paesi del Nord contro il rischio di irresponsabilità fiscale dei Paesi
del Sud, ma condiziona fortemente questi ultimi nelle loro opportunità e
percorsi di crescita. I condizionamenti sono spesso indiretti e
occulti, ma ci sono e funzionano a nostro danno. La sfida è quella di
metterli allo scoperto, evidenziarne gli effetti perversi sul piano
funzionale (per tutta l’eurozona) e i loro risvolti di iniquità, nel
quadro di un’Unione fra eguali.
È su questo obiettivo strategico
che il nostro governo dovrebbe concentrarsi. Abbandonando prima
possibile la logica «verticale» del conflitto fra Italia e Bruxelles e
attivando invece a tutti i livelli un confronto sui diversi modelli di
crescita dell’Europa e i loro prerequisiti in termini di governance . La
conversazione deve passare al più presto da «l’Italia ha fatto le
riforme e dunque vuole…» (attenzione, peraltro, all’esito di queste
riforme, ancora piuttosto modesto) a un discorso su «ci vuole un altro
tipo di Europa, queste sono le nostre proposte».
Non sarà facile
trovare gli interlocutori. Il nuovo assetto di potere all’interno
dell’eurozona è sfavorevole ai Paesi «periferici» (fra cui va ormai
annoverata, di fatto, anche la Francia): sia per le regole decisionali
introdotte dal Fiscal Compact, sia per l’irrefrenabile tentazione da
parte dei Paesi deboli a relazionarsi direttamente con Berlino piuttosto
che a coalizzarsi fra loro. Qualche margine c’è, soprattutto tessendo
relazioni nel Parlamento europeo. Ma conterà molto la qualità delle
proposte e il consenso che riceveranno da esperti e intellettuali che
ragionano sul futuro della Ue. In Europa le idee contano quanto e spesso
più dei voti.
Se imboccasse questa strada, Renzi potrebbe
ottenere tre vantaggi. L’Italia uscirebbe dall’angolo in cui si è
infilata. Il nostro Presidente potrebbe accreditarsi come interlocutore
serio e costruttivo verso i nostri partner e le istituzioni di
Bruxelles. Gli elettori capirebbero che l’alternativa non è e non può
essere fra «Ue sì» e «Ue no», ma fra tipi di Ue, con priorità diverse. E
vedrebbero che almeno uno di questi tipi ha l’obiettivo esplicito di
conciliare la stabilità finanziaria con la crescita e l’equità. Più di
ogni altra cosa, l’Europa ha oggi bisogno di una infusione di
legittimità, deve ritrovare la fiducia e la «passione» dei suoi
cittadini. Come uno dei grandi Paesi fondatori, l’Italia può e deve oggi
posizionarsi in prima linea su questo fronte, da cui dipende la stessa
sopravvivenza dell’Unione.