Corriere 27.2.16
Qualche dubbio sulla Libia, Il calcolo dei rischi
risponde Sergio Romano
Non
le pare che sia giunta l’ora che il governo italiano esca dall’equivoco
Libia? Il premier ha confermato l’ok del nostro governo agli alleati,
per l’uso di Sigonella come base di partenza dei droni armati Usa che
decolleranno per azioni di difesa in Libia. Inoltre, ha tenuto a
precisare che «l’Italia fa la sua parte come tutti gli altri» e il sì ai
voli arriverà caso per caso. Il ministro degli Esteri, da parte sua, ha
aggiunto che l’uso della base «non è un preludio all’intervento
militare». L’opposizione ricorda che esiste l’articolo 11 della
Costituzione. Cosa stiamo aspettando per uscire dall’equivoco? Che
arrivi quell’attentato terroristico che finora ci ha risparmiato?
Tina Taormina
Cara Signora,
Forse
la linea dell’Italia è meno indecifrabile di quanto possa sembrare a un
primo sguardo. Il governo non può dimenticare ciò che accadde nel 2011
quando la Francia di Nicolas Sarkozy e la Gran Bretagna di David
Cameron, con il riluttante aiuto degli Stati Uniti, misero l’Italia di
fronte a un fatto compiuto. Il governo Berlusconi capì che l’operazione
anglo-francese stava colpendo a morte il rapporto di collaborazione che,
bene o male, era stato costruito con il trattato di Bengasi, ed esitò
per qualche giorno prima di risolversi ad accettare la scomoda parte
dell’alleato tardivo che dal proprio intervento a fianco degli alleati
maggiori non avrebbe tratto alcun reale vantaggio.
I fatti, a
posteriori, hanno dimostrato che la decisione di smantellare il regime
di Gheddafi senza alcun progetto per il futuro era stata la mossa più
infelice di un governo occidentale in Nord-Africa dopo la malaugurata
spedizione di Suez del 1956, e in un certo senso hanno dato ragione
all’Italia. Ma avere avuto ragione, ovviamente, non bastava. In tali
condizioni il governo italiano fece quello che sapeva e poteva fare.
Approfittò delle sue esperienze nel Paese e soprattutto dell’Eni per
creare una rete di rapporti con il maggior numero possibile di notabili
locali. L’obiettivo, condiviso dalle Nazioni Unite, era quello di
promuovere la formazione di un nuovo governo locale, sufficientemente
rappresentativo, con cui lavorare per disegnare un percorso di
pacificazione e ricostruzione.
Se il disegno fosse andato in porto
e il governo libico lo avesse richiesto, l’Italia sarebbe probabilmente
già intervenuta con un contingente. Ma il disaccordo fra le due
principali fazioni libiche e la apparizione dell’Isis nella Sirte hanno
enormemente complicato la crisi. Anche a me è parso che occorresse
prendere in considerazione l’ipotesi di una operazione militare contro
lo Stato Islamico. Ma quali sarebbero gli alleati sul terreno?
L’esperienza siriana ha insegnato che l’Isis può contare su una rete di
complicità molto più estesa di quanto avessimo immaginato e che la
guerra, in queste circostanze, diventa una trappola in cui l’amico di
oggi è il nemico di domani. Non basta. Siamo sicuri che la presenza
militare della vecchia potenza coloniale non offrirebbe allo Stato
Islamico l’occasione per saldare insieme fanatismo religioso e
nazionalismo arabo, come è accaduto in Iraq dopo la guerra americana?
Ancora
una osservazione, cara Signora. Molti sperano che un intervento
militare contro l’Isis eviterebbe gli attentati dell’organizzazione
islamista in Europa. Sulla necessità di stroncarla con i mezzi più
efficaci, non ho dubbi. Sulla possibilità che questo garantisca subito
la nostra sicurezza ne ho molti. Sinora abbiamo constatato che quanto
più l’Isis subisce scacchi sul terreno, tanto più cerca di colpire il
fronte interno dell’Occidente. Dall’articolo di Fiorenza Sarzanini sul
Corriere di ieri («Intervento in Libia. Ok a missioni segrete dei nostri
corpi speciali») risulta chiaramente che non è facile per l’Italia
resistere alle pressioni dei suoi principali alleati. Bisognerà agire,
indubbiamente, ma almeno non prima di avere calcolato attentamente le
conseguenze di un maggiore coinvolgimento.