Corriere 25.2.16
Gli inventori di parole
Non solo i letterati, ci sono termini nati dalla mente di artisti, astronomi e scienziati
di Giuseppe Antonelli
L’invenzione
 delle parole ha in sé qualcosa di magico. «Io conosco un signore che 
inventa parole nuove», comincia una filastrocca di Gianni Rodari. Tra le
 altre, quel signore aveva inventato lo spennello, «per disfare un 
quadro se non è bello»; lo stemporale e la stempesta, «che fanno tornare
 subito il sole» e «molte altre parole di grande utilità in campagna ed 
in città».
Solo in pochissimi casi, però, è possibile indicare con
 certezza il creatore delle parole del nostro vocabolario. Uno di questi
 è quando ci troviamo in presenza di una precisa rivendicazione. 
Cicerone, ad esempio, dichiara di aver inventato l’aggettivo morale 
(latino moralis ) per rendere il greco ethikòs (poi diventato l’italiano
 etico): con l’intento, scrive lui stesso, di arricchire la lingua 
latina.
Rimanendo nel campo dell’italiano, uno che si vantava di 
aver usato ben quarantamila parole diverse era D’Annunzio. Tra queste, 
anche alcune coniate da lui come — da pioniere dell’aviazione — 
velivolo. «La parola è leggera, fluida, rapida… pur essendo classica, 
esprime con mirabile proprietà l’essenza e il movimento del congegno 
novissimo» (se lo diceva da solo). A riconoscergli la paternità della 
ben più fortunata tramezzino è Alfredo Panzini, che nel Dizionario 
moderno del 1935 spiega alla voce sandwich: «indica due fettine di pane 
con entro alcuna fine vivanda. D’Annunzio propose “tramezzino”» (qualche
 anno prima Marinetti, l’inventore del futurismo, aveva proposto 
traidue; ma, per restare in tema alimentare, non tutte le ciambelle 
riescono col buco).
Il «miglior fabbro» del nostro parlar materno 
resta comunque Dante Alighieri. Secondo i calcoli fatti da Tullio De 
Mauro, più di un quinto delle parole usate ancora oggi nell’italiano di 
tutti i giorni risulta attestato per la prima volta nelle sue opere, e 
in particolare nella Commedia non a caso detta Divina. Tra i vocaboli 
creati o diffusi da Dante ci sono parole come accidioso, squadernare, 
inurbarsi, trasmutare o anche bolgia (ciascuna delle dieci fosse 
dell’ottavo cerchio dell’inferno, poi passata a significare «caos»), 
tetragono nel senso di «persona forte» e contrappasso, che Dante 
riprende dal latino di San Tommaso.
Contrattacco è invece una 
delle tante parole che dal lessico militare (assedio, barriera, difesa, 
incursione) passano nel Novecento a quello calcistico. Ma, come racconta
 Gian Paolo Ormezzano nel suo Tutto il calcio parola per parola, per 
Gianni Brera «dire contrattacco era troppo facile»: e allora ecco il 
contropiede. La parola non era del tutto nuova, visto che negli anni 
Quaranta «tira di contropiede» era l’equivalente di quello che oggi i 
telecronisti rendono con «tira con il piede non suo» (e di chi altri, 
verrebbe da chiedersi). Brera però la usa con un nuovo significato, 
mettendo a frutto la sua straordinaria capacità di invenzione e 
reinvenzione verbale: il libero, il centrocampista, la melina, l’incanto
 del prestipedatore e il culto della dea eupalla. L’era pseudo-tecnica 
della palla inattiva era di là da venire, e avrebbe portato con sé anche
 la ripartenza: il nuovo modo di chiamare il contropiede che pare si 
debba ad Arrigo Sacchi.
L’invenzione delle parole, d’altra parte, 
non è un’esclusiva dei letterati. La caricatura era parola cara ad 
Annibale Carracci e alla sua bottega, in cui si usava fare «ritrattini 
carichi». Cannocchiale risulta usato per la prima volta dal matematico e
 astronomo Giuseppe Biancani in riferimento all’invenzione di Galilei. 
Per la sua invenzione, invece, Alessandro Volta scelse da sé il nome 
pila (anche se in un primo momento aveva pensato a colonna). Un grande 
divulgatore, se non proprio creatore, di parole nuove è stato Cesare 
Lombroso, che ha contribuito a diffondere nella nostra lingua centinaia 
di neologismi; tra i tanti: alcoolista, claustrofobia, raptus, 
cleptomane, i famigerati criminaloide e mattoide, ma anche parole come 
tatuare o analfabetismo.
Innumerevoli sono, peraltro, le 
coniazioni effimere: quelle che Vittorio Coletti definisce in un suo 
saggio «parole senza fortuna» o «parole mancate», frutto dell’ossessione
 verbipara (il vocabolo è proprio di Coletti) che porta molti scrittori,
 giornalisti, politici a partorire incessantemente parole nuove. Ciò che
 i pubblicitari fanno spesso per mestiere, creando da decenni parole 
macedonia come aperimio, digestimola, trissetante. O giocando sulla 
formazione degli aggettivi. Di una macchina che ebbe grande successo 
negli anni Ottanta si diceva che era sciccosa, scattosa, comodosa, 
risparmiosa (con malizia tutt’altro che infantile, nella pubblicità di 
un gelato si diceva invece che era morsoso, succhioso, leccoso).