Corriere 12.2.16
L’America in medio oriente farà ancora da arbitro
Dopo l’accordo sul nucleare con l’Iran cambieranno i destini di quest’area infiammabile, segnata da antichi conflitti
Ma a prescindere dal nuovo presidente, gli Usa confermeranno il loro ruolo ormai consolidato di «riequilibratore esterno»
di Francesco Maria Greco
L’accordo
sul nucleare iraniano, entrato nel vivo sul tema sanzioni qualche
settimana fa, rappresenterà la cartina di tornasole della politica
estera americana in Medio oriente e dei conseguenti assetti geopolitici.
Al
cuore dell’accordo c’è una transazione fra una moratoria al programma
nucleare di Teheran per 10-15 anni e la revoca delle sanzioni.
Cosa
accadrà fra 15 anni è una totale incognita: si possono solo ipotizzare
le mosse dell’Iran nell’immediato futuro per valutare se l’accordo
creerà maggiore stabilità o instabilità in un’area sconvolta da
conflitti senza fine. Un futuro che non sembra più giocarsi sulla
questione palestinese ma sulla partita per la preminenza regionale fra
Riad e Teheran, ammantata dalla narrativa dello scontro
religioso-comunitario fra sunniti e sciiti.
L’Arabia Saudita, che
già gridò al tradimento quando si scoprì che nel 2012 gli americani
avevano avviato contatti segreti con Teheran, ha di fronte a sé diverse
opzioni. A medio termine potrebbe avviare, con l’aiuto del Pakistan, un
proprio programma nucleare entro gli stessi limiti previsti dall’accordo
con l’Iran; nell’immediato potrebbe incrementare il sostegno a forze
sunnite che combattono gli alleati dell’Iran e infine ricorrere a
qualche gesto eclatante.
Quest’ultima ipotesi ha trovato conferma
nell’esecuzione del carismatico leader sciita Al-Nimr proprio due
settimane prima dello stop alle sanzioni: un chiaro segnale inviato
anche a Washington. In questo senso i rivali di Obama affermano che
l’America sta perdendo un alleato, il regno saudita, senza trovare un
amico nel regime iraniano. E, in effetti, sarebbe illusorio pensare che
Teheran apporti sostanziali modifiche alla sua politica estera: un
riavvicinamento agli Stati Uniti o un atteggiamento più aperto verso
Israele o l’abbandono della sua postura «rivoluzionaria» anti
occidentale e anti sunnita sarebbero la negazione del Dna khomeinista
post 1979.
Ma nulla fa presagire che l’accordo induca l’Iran ad
una politica più aggressiva negli scacchieri in cui operano i suoi
alleati sciiti: Iraq, Libano, Bahrain, Yemen, Siria; né appare probabile
che si metta ad orchestrare attacchi contro Israele tramite Hamas,
Hezbollah o Jihad Islamica Palestinese. Riad e i partner del Golfo
temono che l’accordo 5+1 costituisca per gli Usa l’alibi per
giustificare un drastico disimpegno dalla regione.
Come che sia
Washington dovrà trovare in tempi brevi un modo per riequilibrare i suoi
rapporti con il mondo sunnita: un meccanismo volto a gestire la
rivalità irano-saudita per non vanificare i positivi effetti
dall’accordo nucleare.
Nell’immaginario collettivo Riad ha preso
il posto di un Iran che nel 2002 Bush annoverava nel trinitario Asse del
male (con Corea del Nord e Iraq), ma non bisogna dimenticare che
l’Arabia ha ai suoi confini Paesi dominati in tutto o in parte da regimi
sciiti. Quanto al presunto disimpegno americano dalla regione, occorre
riportare il quadro alla sua reale dimensione storica. Il coinvolgimento
degli Stati Uniti fra il secondo dopoguerra e l’attacco alle Torri
gemelle è stato quasi sempre indiretto: dall’indipendenza israeliana, a
Suez, alle guerre dei sei giorni e del Kippur, al conflitto Iraq-Iran.
La missione in Libano nel 1983 fallì rapidamente e la prima guerra del
Golfo fu condotta alla guida di un’amplissima coalizione.
Il
containment dell’Iran khomeinista fu poi affidato ai Sauditi e agli
Stati del Golfo, ma negli ultimi dieci anni sono subentrati due fattori
dirompenti: lo shale gas , che ha ridotto la dipendenza strategica dalla
regione araba e un jihadismo fuori controllo sviluppatosi all’interno
dell’Arabia Saudita e dei suoi vicini, Paesi sui quali, a differenza che
in passato, le pressioni americane hanno avuto scarso successo.
I
rispettivi interessi strategici ormai non coincidono più. Ove poi ci
fosse un massiccio intervento americano sul terreno contro l’Isis, la
quasi certa vittoria militare comporterebbe l’onere della successiva
stabilizzazione e ricostruzione. È per questo che, quale che sia il
vincitore alle prossime presidenziali, gli Usa non potranno che
confermare il ritorno al normale ma insopprimibile ruolo di off shore
balancer (riequilibratore «esterno») .