Corriere 11.2.16
Non è Dio che mina la democrazia ma il
fondamentalismo (anche ateo) Dopo il 1945 I partiti democristiani hanno
salvaguardato la libertà in Europa
I paradossi del pamphlet di Paolo Flores d’Arcais (Raffaello Cortina)
Dopo il 1945 i partiti democristiani hanno salvaguardato la libertà in Europa
di Antonio Carioti
Persona
di forti convinzioni, il direttore di «MicroMega» Paolo Flores
d’Arcais, nel suo libro La guerra del Sacro (Raffaello Cortina),
denuncia in modo rigoroso e coerente i guasti del fondamentalismo
religioso e la sua potenziale contiguità con il terrorismo, soprattutto,
ma non soltanto, quello di derivazione musulmana. Però esagera nel
dipingere il mondo in bianco e nero, portando all’esasperazione l’idea
che sia in atto un’epocale «guerra del Sacro contro la laicità» (di qui
il titolo), simboleggiata dall’eccidio della redazione di «Charlie
Hebdo».
Per Flores d’Arcais fuori dalla sua visione atea non vi è
quasi salvezza dal fanatismo. Bolla infatti come complici di fatto dei
jihadisti tutti coloro che non accettano di «esiliare Dio dalla sfera
pubblica». A suo avviso la fede è conciliabile con la democrazia solo
«eccezionalmente». Cita il «muro di separazione tra Chiesa e Stato»
voluto negli Stati Uniti da Thomas Jefferson come garanzia della libertà
di coscienza e del pluralismo confessionale, ma lo interpreta in modo
ben più estensivo quale «annientamento preventivo della possibilità che
la religione diventi identità politica».
Eppure le maggiori
democrazie dell’Europa continentale, dopo il 1945, sono state
riedificate da partiti democristiani, la cui stessa esistenza pare a
Flores d’Arcais poco coerente con il principio di laicità. Così come lo
scandalizzano i continui richiami al loro credo dei politici in quella
che, fino a prova contraria, resta la più longeva e solida democrazia
del mondo, i già citati Stati Uniti. Senza contare il modo in cui
un’appartenenza religiosa si è fatta identità politica in Israele, dove
ha prodotto l’unico Stato democratico del Medio Oriente. Tutti esempi
che dovrebbero suggerire una visione più equilibrata del rapporto tra
fede e politica, visto che la religione ha inevitabilmente una
proiezione sociale. E diventa arduo confinarla nella coscienza del
singolo e nei luoghi di culto, come auspica il direttore di «MicroMega»,
senza una dose piuttosto energica di coercizione.
D’altronde
venature giacobine e pedagogiche traspaiono nel libro a più riprese. «La
libertà, almeno nelle opinioni, o è eccessiva o non è», scrive
all’inizio Flores d’Arcais in difesa della satira di «Charlie Hebdo».
Poi però più avanti ci si accorge che questa regola conosce diverse
eccezioni. L’unica apertamente dichiarata dall’autore riguarda «il
razzismo e il fascismo», per i quali non vi dovrebbe essere tolleranza.
Più indulgenza invece per il comunismo, poiché esso, argomenta Flores
d’Arcais, nel negare la libertà non avrebbe attuato, come il fascismo,
bensì contraddetto i suoi assunti ideologici. In realtà tra la
«dittatura del proletariato» invocata da Lenin e il sistema sovietico a
partito unico non si vede poi una così enorme discrasia, se si parte dal
presupposto che quel partito sia l’unico interprete autentico degli
interessi della classe operaia. Ma ben più problematica è la questione
del razzismo, in quanto non è semplice stabilire quando vi si ricada o
meno.
Come ricorda lo stesso Flores d’Arcais, di razzismo sono
stati accusati anche autori, da lui invece lodati, che denunciavano la
persistenza di pratiche arcaiche fra gli immigrati provenienti dai Paesi
poveri. E che dire poi della vignetta con cui proprio «Charlie Hebdo»
ha infierito sul piccolo profugo curdo Aylan, morto su una spiaggia
dell’Egeo, raffigurandolo come un potenziale molestatore di donne
occidentali? Del resto, più in generale, le fattezze attribuite a
Maometto e ai musulmani da certi disegni satirici richiamano spesso
stereotipi xenofobi.
Se veniamo poi al modello di «democrazia
radicale» auspicato dal direttore di «MicroMega», dobbiamo constatare
che esso mette in castigo anche altre opinioni. La sua infatti è una
visione fortemente egualitaria, che esige un «generalizzato salario di
cittadinanza» e «beni primari» garantiti a tutti. Diritti sociali che,
in quanto «irrinunciabile ossigeno trascendentale del voto autonomo»,
cioè presupposti basilari di un’autentica democrazia, dovrebbero essere
«sottratti alle decisioni delle maggioranze».
A prescindere da
ogni considerazione sulla scarsa sostenibilità economica di un simile
«welfare articolatissimo», bisogna concludere che, secondo Flores
d’Arcais, la destra liberista va sterilizzata politicamente: se vince le
elezioni, deve ritrovarsi nell’impossibilità legale di attuare il suo
programma. Non sarà una messa al bando, ma certo è una menomazione di
non poco conto nei riguardi di una tendenza ideologica sgradita. Per cui
il massimo di democrazia astratta immaginato dal direttore di
«MicroMega» rischia di tradursi in forti limitazioni del concreto
pluralismo politico. Succede che l’assillo di una geometrica coerenza
generi esiti paradossali nel flusso disordinato della storia.