Repubblica Cult 24.1.16
Antonio Giuliano
Ricordi di un archeologo
“Per tutta la vita ho studiato il passato mi sento un esodato dalla tecnologia”
colloquio con Antonio Gnoli
Giuliano
si iscrive alla facoltà di Lettere a Roma negli anni Quaranta. Tra i
suoi docenti ci sono Mario Praz ( foto sotto) e Ranuccio Bianchi
Bandinelli di cui, da allievo, diventa stretto collaboratore.
Perfeziona la formazione in Germania e Grecia
Dal 1967 insegna all’Università, prima a Genova e poi a Roma.
È stato redattore dell’Enciclopedia dell’Arte Antica e ha diretto l’Enciclopedia Archeologica.
Dal 2001 è membro dell’Accademia dei Lincei
Ha
studiato la cultura del mondo antico fino al periodo normanno e
federiciano. Tra gli oggetti dei suoi studi, anche l’opera e la figura
di Giacomo Leopardi, Stendhal e il periodo storico della Restaurazione
in Italia
Tra i saggi pubblicati,
Arte greca ( 1986-87);
Storia dell’arte greca (1989, 1998); Studi normanni e federiciani (con
altri, 2003); Giacomo Leopardi e la Restaurazione: nuovi documenti
(1998)
Da qualche anno Antonio Giuliano – forse il più
grande storico dell’archeologia, ancora in circolazione e miracoloso
sapiente per tutto quello che riguarda il mondo federiciano e la
Restaurazione post-napoleonica – vive in un equilibrio di solitudine e
attesa. Che le cose si compiano, dopotutto, è un fatto naturale, ma è
come se quest’uomo, per nulla rassegnato, le guardasse con disarmante
ironia. Un’ironia spoglia e misteriosa che sembra adattarsi a una
essenzialità cercata a lungo e finalmente trovata. Nella casa studio di
Roma dove ci incontriamo osservo lunghi e malinconici scaffali vuoti: «I
libri di consultazione e di studio da tempo li ho donati all’università
di Genova dove insegnai per quasi un decennio e alla Biblioteca
Corsiniana, dove sono accademico dei Lincei. Perché? Per il semplice
motivo che giunto all’età di ottant’anni decisi di smettere di scrivere e
di non occuparmi più delle tante cose che hanno impegnato sessant’anni
della mia esistenza».
Le ha pesato la decisione?
«All’inizio
è stato difficile, poi capisci che quel gesto così risoluto portava a
una liberazione. Se uno smette di scrivere non smette di pensare. E
quando sei liberato da un imperio tutto diventa molto più semplice e più
dolce».
Si sente un uomo sereno?
«Mi sento un uomo
amareggiato. Ma non c’entra nulla con le ultime decisioni. È che ho la
sensazione di essere stato superato dagli eventi».
Quali eventi?
«Avevo
già settant’anni quando è iniziata la grande rivoluzione tecnologica.
Pensi a un uomo che per tutta la vita ha inventariato servendosi di
penna, o al più di macchina da scrivere, che ha visto evolvere l’uso
della fotografia e crescere esponenzialmente i sistemi informatici,
crede che fosse semplice stare al passo? Sono un esodato dalla
tecnologia, una vittima del veloce tempo del cambiamento. Oltretutto,
essendo stata una persona dedita al passato remoto, tutto ciò suonava
come una singolare beffa».
Come è nata la passione dell’archeologia?
«Nessuna
vocazione particolare. C’erano già in famiglia un fratello medico e uno
ingegnere. Per differenziarmi scelsi Lettere. Ricordo il mondo
universitario della fine degli anni Quaranta. Molti studenti erano
reduci dalla guerra. Con la fretta di laurearsi. Ma i corsi importanti
andavano deserti. Ad ascoltare le lezioni di Mario Praz sulla
letteratura inglese eravamo in due. Capitava che da solo seguissi quello
di storia delle religioni di Raffaele Pettazzoni. Alla fine il
professore mi chiedeva: verrà la prossima volta? Altrimenti resto a casa
a studiare. Stavamo guarendo dagli orrori della guerra. Il paese
cambiava, ma senza una vera prospettiva».
Dove è nato?
«A
Roma, una città dove, nei periodi primaverili e autunnali, potevi
sentire, per la transumanza, il rumore degli zoccoli delle pecore. I
monumenti erano imponenti e sporchi. Al Colosseo si rischiava di
prendere la malaria. I romani hanno sempre avuto il terrore dell’ombra,
da dove, dicevano, si propagavano le infezioni. Era un mondo délabré.
Tenuto in piedi miracolosamente».
Da chi?
«Da qualche
volenteroso. Ricordo il sovrintendente ai monumenti del comune di Roma
Antonio Muñoz. Bravissimo. Era lo zio di Federico Zeri e gli lasciò,
credo, in eredità un ritratto del Fayyum».
Cosa sono i ritratti del Fayyum?
«Opere
funerarie prevalentemente di epoca romana perlopiù di ragazzi e giovani
donne. Ritratti di straordinaria bellezza. Furono scoperti nella zona
egizia del Fayyum, di qui il nome. Anche Freud ne acquistò uno dalla
collezione Graef».
Freud fu un appassionato di mondo antico e di archeologia, in particolare.
«Non
capiva sempre l’importanza di quello che vedeva. E spesso acquistava
oggetti insignificanti sul piano formale. Un suo consulente fu Emanuel
Loewy, che detenne a Roma la prima cattedra di archeologia. Era viennese
come Freud. Parlava un italiano buffissimo. Questo a detta di Roberto
Longhi che seguì alcune sue lezioni al museo dei Gessi a Testaccio».
Buffe in che senso?
«Si
esprimeva in un italiano appreso dai libri, artificioso. Nel 1915, allo
scoppio della guerra, Loewy si rifugiò in Svizzera, come austriaco non
voleva combattere contro l’Italia. Il mio professore Giulio Quirino
Giglioli, suo allievo, gli fece avere una pensione, in anni in cui gli
austriaci non erano visti di buon occhio».
Lei è stato molto legato a Ranuccio Bianchi Bandinelli. Che ricordo ha di lui?
«Prese
la cattedra che era stata di Giglioli. Si era specializzato a Berlino
con Ferdinand Noack e Gerhart Rodenwaldt che fu un grandissimo esperto
di pittura pompeiana. Rodenwaldt si suicidò nel 1945 quando i russi
entrarono a Berlino. Qualche anno prima di morire chiese a Bianchi
Bandinelli di tenere una conferenza sull’arte romana. Ne stimava le
grandi doti di studioso.
Come spiega la passione dei tedeschi per il mondo antico?
«Fu la grande influenza di Goethe e la paura dell’irrazionale a spingerli verso questo amore. La filologia fece il resto».
Bianchi Bandinelli conosceva bene il tedesco.
«La madre era nata in Slesia. Ranuccio pensava in tedesco».
Quello
che volevo chiederle è cosa pensa del fatto che si prestò a fare da
guida ai monumenti quando il Führer venne in visita a Roma?
«È un
episodio che è stato molte volte stigmatizzato. Ma mi chiedo: cosa
avrebbe dovuto fare? Credo che quando gli fu proposto avrà pensato che
un’occasione del genere non gli si sarebbe mai più ripresentata. E poi
si sentiva di gran lunga superiore a quei personaggi».
Dice davvero?
«Non
ho dubbi. La madre lo considerava “il bambino più prezioso”. Fu
cresciuto come una persona eccezionale. E questo temo fu il suo limite
più grande».
Lei ha studiato in Germania?
«La prima volta vi
andai nel 1952 a mie spese. Il paese faceva spavento. Distruzione e
macerie ovunque. Kassel e Dresda cancellate. In quel periodo i francesi
mi avevano proposto di entrare nella legione straniera. Cercavano
giovani per mandarli in Indocina e in Algeria. Rifiutai, ma guardando a
quello sfacelo tedesco mi pentii del mio no. A Monaco conobbi Ernst
Langlotz, mi insegnò a vedere le cose. A Salonicco incontrai John
Beazley e compresi l’importanza della ceramica attica. Aveva una moglie
petulante e autoritaria. Un suo allievo geniale, Humfry Payne, morì
troppo giovane. E fu sepolto a Micene. Capitava che i grandi archeologi
desiderassero la Grecia come ultima terra del riposo».
Che mondo era?
«Straordinario.
Abitato da folli dotati di un metodo. Da uomini spesso colti e
intuitivi. A volte grandissimi, come Ronald Syme, un neozelandese che
insegnava filologia classica a Istanbul e Storia antica a Oxford. Fu
amico e avversario di Arnaldo Momigliano».
Tornò in Germania?
«Andai
a Tubinga nel 1959. C’era Bernhard Schweitzer che aveva fatto un gran
lavoro sull’arte greca e sulle prime sculture ellenistiche. Era uno
strano ometto con una doppia gobba e un’intelligenza tagliente che
ricordava Lichtenberg. Durante la prima guerra mondiale fu riformato e
allora, mi dissero, si mise a collaudare aerei a Berlino. Strana a volte
la vita degli archeologi».
E la sua come è stata?
«Come
archeologo certamente scrupolosa, ma senza eccessive passioni. Almeno
non così forti come quelle che ho riversato sul mondo federiciano e
sulla Restaurazione».
Immagino che la Grecia avrà comunque avuto un ruolo?
«Vi
andai nel 1955. Restai per qualche mese, scavando soprattutto a Creta
sotto la direzione di Doro Levi. Conoscevamo quel mondo attraverso le
considerazioni di alcuni libri di viaggio. Innanzitutto quelli di Emilio
Cecchi e di Mario Praz. Poi venne quello più esile di Cesare Brandi. Ho
sempre pensato che lo spirito europeistico, nel modo in cui è avvenuto
non abbia giovato alla Grecia. Troppo radicata era la tradizione slavo
bizantina perché la sua cancellazione non producesse più danni di quanti
se ne paventassero».
La tradizione è importante?
«Come
potremmo farne a meno senza restare incapaci di orientarci? Pasolini se
ne accorse. Avvertì violentemente la profondità di quella ferita non
rimarginabile».
Lo ha conosciuto?
«Una sola volta lo vidi a
un incontro con Bianchi Bandinelli. Mi colpì la sua bella voce nasale.
Longhi un giorno mi disse che era stato il suo allievo più geniale».
Lei ha avuto anche una costante frequentazione con storici dell’arte. Come conobbe Longhi?
«La
prima volta che andai da lui fu con Giovanni Previtali. Mi colpirono
gli occhi neri e zingareschi. Faceva benissimo l’imitazione di se
stesso. Giocava al casinò. Perdeva un sacco di soldi e detestava la
moglie: Anna Banti. Eppure, non ci sarà mai nessuno al suo livello.
Forse Hermann Voss, in Germania, avrebbe retto il confronto».
I suoi allievi?
«Bravi
e con competenze e sensibilità diverse. Arcangeli fu una persona
serissima. Giuliano Briganti ebbe il senso della qualità come pochi al
mondo. Federico Zeri una memoria fotografica prodigiosa, ma era afflitto
dal cattivo gusto. Zeri, inoltre, non si considerava un’emanazione di
Longhi. Piuttosto di Berenson».
Cosa pensa di Bernard Berenson?
«Aveva
creato intorno a sé il mito del grande connaisseur. Girava a piedi per
tutte le pievi italiane. Comprava quadri e faceva l’esperto per i ricchi
americani. Lo vidi una sola volta. Sotto la barbetta curata, il vestito
inappuntabile e il monocolo, c’era il tratto levantino».
E della coppia Argan e Brandi?
«Brandi
conosceva bene la pittura senese e aveva una passione per il bel canto.
Una sera in trattoria intonò Il trovatore, bella voce. Ma se penso ai
titoli stonati di certi suoi libri Dialoghi di Elicona; Carmine o della
pittura sento che il tempo con lui è stato impietoso. Quanto ad Argan la
fama era molto superiore alle sue competenze».
Le competenze, intendo le sue, sono state ampie. Le ha vissute con più noia o curiosità?
«Forse
entrambe. È vero mi sono occupato di tante cose: del collezionismo
federiciano e della Restaurazione in Francia e in Italia nella fase
post-napoleonica. Ho studiato attentamente due figure in particolare:
Stendhal e Leopardi. Di Leopardi, pochi lo sanno, si occupò il
cancelliere Metternich».
È strano questo interessamento.
«Curioso.
Metternich era un lettore di Heine. In privato faceva il sovversivo; in
pubblico domava le rivoluzioni. Si rivolse al ministro di polizia
chiedendogli informazioni su Leopardi, il quale era in mezzo a contrasti
ecclesiastici e considerato un pericoloso giacobino. L’informativa
giunse tre anni dopo. Nel frattempo Leopardi era morto. Metternich poté
leggere in quella nota la prima biografia compiuta del nostro grande
poeta. In fondo non tutti i mali vengono per nuocere».
La Chiesa lo aveva messo all’indice?
«Vietò
la lettura delle Operette morali. Fu Monsignor Tizzani – lo stesso a
cui il Belli affidò i suoi Sonetti perché li bruciasse e per fortuna non
lo fece – il più oltranzista e reazionario. Ricordo che quando chiesi
di consultare i documenti in Vaticano, Ratzinger si oppose. Fu grazie al
Cardinal Martini che potei aggirare il divieto».
Cosa è stata la Restaurazione in Italia?
«Qualcosa
che si è incistata a livello quotidiano. La Restaurazione non fu
imposta dall’esterno, è nel bagaglio degli italiani: soprattutto per
eredità della Chiesa. Siamo un paese piccolo borghese a vocazione
cattolica che ogni tanto ha qualche alzata di capo. Insomma vecchio. Di
più: senile».
La sua vecchiaia?
«Una grande scocciatura. Si è
ancora lucidi per alcune ore della giornata. Poi senti che le decisioni
ti appartengono sempre meno. La gente scomparsa, gli amici che non ci
sono più. Mi mancano Antonio Cederna, che studiò da giovane archeologia e
fu uomo di grande rettitudine, e Giuliano Briganti la cui grazia
mentale non aveva eguali. Anche il mondo che c’era è scomparso.
Sostituito da nulla o da ciò che mi appare incomprensibile».
E alla morte pensa mai?
«Non
mi riguarda più di tanto. Non dipende da me e mi sembra di cattivo
gusto parlarne. E poi: che ne so? Chi morrà vedrà. Più che cristiano in
questo mi sento pagano. Affrontare la vita coraggiosamente, per quanto
sia possibile e pensare di non lasciarsi travolgere dalla sofferenza».
Mi sorprende l’asciuttezza dei suoi giudizi. Cosa l’ha affascinata del mondo antico?
«La
sua enorme capacità selettiva. Il senso visionario, e l’uso dei sogni.
Cittadini del mondo onirico e dell’impero. Una condizione rara. E poi
c’era il senso dell’inestimabile che abbiamo perso. Tutto oggi si può
comprare e vendere. Anche la vita. Capisce? Il mondo antico aveva il
senso del definitivo, il nostro mondo ha solo il provvisorio».
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