Repubblica Cult 17.1.16
Gillo Dorfles
Il critico pittore che ha vinto la partita con il tempo
di Dario Pappalardo
ROMA
Dice Gillo Dorfles: «L’atto di disegnare e dipingere è stato per me –
sin dall’infanzia – qualcosa di quasi coercitivo e mi ha obbligato a
riempire di sgorbi le pagine dei miei libri scolastici, il legno dei
duri banchi delle medie, la sabbia delle spiagge estive». Cento anni
dopo, i “ghirigori” di quel bambino nato a Trieste nel 1910 riaffiorano
nei colori di Circonvoluzione e Protezione, opere del 2015 realizzate
appena l’estate scorsa dal critico e artista, ora in mostra al Macro di
Roma. Essere nel tempo, a cura di Achille Bonito Oliva (coordinamento
scientifico e progetto di allestimento di Fulvio Cardarelli e Maurizio
Rossi, fino al 30 marzo; catalogo Skira, che ha pubblicato anche il
libro Gli artisti che ho incontrato) è la prima retrospettiva “totale”
dedicata a Gillo Dorfles. Un percorso in oltre cento opere – dipinti,
disegni, ceramiche, gioielli – che integrano l’attività di critico qui
documentata da manoscritti, lettere, fotografie, video, edizioni dei
saggi. È un viaggio dentro il mondo dell’uomo che con i suoi quasi 106
anni ha raccontato e superato il Novecento. Ha rivoluzionato l’estetica e
dato il nome al kitsch, provocando una crepa nell’Italia ancora
permeata dall’idealismo crociano con quel Discorso tecnico delle arti
(1952) che metteva finalmente in evidenza il valore della “materia” e
del “mezzo espressivo” rispetto al “fantasma interiore”, fondamento
dell’arte secondo Croce.
«Quando studiavo medicina a Roma, negli
anni Trenta, non avrei mai immaginato di tornare come protagonista di
una mostra del genere», ha confessato Dorfles all’inaugurazione, dove è
arrivato – cappotto, cappello e completo marrone – fermando tutti
all’ingresso del Macro per venti minuti. Come se fosse lui la vera opera
d’arte perché, da ultracentenario lucidissimo, ha sconfitto il tempo.
Quel giovane aspirante medico, ottant’anni fa, era già un pittore: «Ho
dipinto da sempre». Un pittore costretto poi, consapevolmente, a essere
schiacciato dal critico. Ma l’allestimento romano dimostra che la prima
occupazione ha nutrito costantemente la seconda. La riflessione di
Dorfles, lo sguardo sul mondo dell’arte e sul costume che cambia e tutto
consuma, muove da una pratica quotidiana. La prima china su carta
esposta è del 1930: Senza titolo raffigura mostruosi ghirigori che hanno
occhi e inquietudini del tempo in cui sono stati disegnati. Il ventenne
mitteleuropeo Dorfles guarda verso nord: l’espressionismo tedesco, ma
anche le sollecitazioni antroposofiche di Rudolf Steiner. Dopo la visita
al Goetheanum, il centro studi steineriani di Dornach (Basilea),
l’artista dipinge paesaggi nordici ( Paesaggio con volto umano, 1934;
Paesaggio iperboreo, 1935) o composizioni con croci, larve, misteriose
entità, che nei colori e nelle tensioni oscillano tra Munch e William
Blake. È un simbolismo che accantonerà presto. Nella seconda metà degli
an- ni Trenta, la specializzazione in psichiatria a Pavia si riflette
nella coloratissima serie dei Ritratti dei matti: corpi distorti in
uniforme o vestiti da sacerdote, protagonisti e vittime di un’ossessione
ritratta negli occhi strabici.
Ma il vero preludio ai testi
critici degli anni Cinquanta è la partecipazione alla fondazione del
Movimento Arte Concreta. Il Mac nasce a Milano nel 1948: con Dorfles ci
sono Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet. Insieme guardano
agli svizzeri della Konkrete Kunst di Zurigo a Max Bill, e ovviamente al
Bauhaus, Mondrian, Kandinskij e V-an Doesburg. Promuovono l’interazione
tra le arti, un dialogo attivo tra pittura, scultura, architettura,
design e industria che in quell’Italia del dopoguerra è ancora da
scoprire. Nelle parole di Dorfles la poetica del movimento, che si
scioglierà dopo un decennio, appare chiara: lo scopo è incoraggiare
un’arte svincolata «da ogni contenutismo aneddotico e da ogni “ritorno”
stilistico verso un passato ormai accademico; che, d’altronde, curi
soprattutto i rapporti e le interazioni tra architettura, plastica e
pittura, così da promuovere un rinnovamento effettivo del gusto in tutti
i settori della vita moderna». Per l’Italia di allora è una rivoluzione
“multidisciplinare” destinata a segnare un punto di non ritorno.
Nell’arte di Dorfles significa una totale libertà espressiva, una
pittura quasi “automatica”, guidata solo dalla forza generatrice del
colore. L’asimmetria e le esplosioni cromatiche delle opere di quegli
anni sembrano guardare a Paul Klee o a Miró. Con la fine della stagione
del Mac, il Dorfles pittore cede il passo al critico, al recensore delle
Biennali di Venezia e allo studioso di estetica. Lui che avrebbe
teorizzato la necessità di riscoprire L’intervallo perduto in mezzo
all’eccesso di stimolazioni e all’horror pleni si prende una pausa dalla
pittura “ufficiale”. Fuori, intanto, dilaga la Pop Art.
Quando
torna allo scoperto con le sue tele, dagli anni Ottanta in poi, lo fa
con nuovi colori, tra robot, uomini luna, cybernauti. In alcune opere
riaffiorano i temi della produzione saggistica: Custodire l’intervallo,
Rispettare il vuoto! sono estensioni visive della sua riflessione
critica. L’Autoritratto su ceramica è un gioco autoironico di linee che
restituiscono l’immagine di un volto che ha saputo guardare negli occhi
tutto il Novecento e ancora più in là.
©RIPRO