Repubblica Cult 10.1.16
Il rito del fuoco che rese Roma eterna
Il
culto di Vesta e le leggende sulla fondazione. Inseguendo il mito
l’archeologo Carandini spiega come è nato il moderno concetto di
interesse generale
di Filippo Ceccarelli
Niente
di nuovo sotto il sole di Roma, o forse tutto, come sempre. Presso
l’arcaico “Comitium”, qualche settimana fa, l’ex sindaco Marino ha detto
a ignari turisti di aver innalzato da terra le colonne del Tempio della
Pace. Sotto il suo predecessore Alemanno, d’altra parte, fu organizzato
un torneo di beach-volley al Circo Massimo; mentre l’ultima ideona
sarebbe un ristorante di lusso in cima al Palatino. Resta d’impaccio la
rinomata biblioteca raccolta nel secolo scorso dal celebre archeologo
Giacomo Boni, iniziatore della tecnica stratigrafica. A Boni si devono i
primi rilevamenti su ciò che rimane del Tempio di Vesta e quindi su
quell’area, decisiva ai fini della storia e del mito fondativo della
città eterna, cui è dedicato l’ultimo lavoro di Andrea Carandini, Il
fuoco sacro di Roma.
È il cuore del passato più remoto, ma anche
del futuro. Nel ricostruirlo meticolosamente fra terra e cielo si
disvela il mistero della città arcaica e rivive l’enigma totemico delle
origini. La sorpresa consiste nel fatto che i romani non sanno su quale
profondo tesoro poggiano i loro piedi. Ha osservato una volta Carandini
come Freud abbia accostato Roma all’inconscio trovando «due realtà
analogamente stratificate»; per cui «ogni tanto riemergono rovine
immani, come balene che affiorano sulla superficie del mare e sbuffano
per poi ri-inabissarsi». Seguire le peripezie di questi
cetacei–mammiferi è compito appunto degli archeologi, e tanto più sono
degne le loro scoperte quanto più riescono a evadere dalle risultanze
tecniche per inseguire trame mitiche e primordiali. Da questo punto di
vista il Lucus Vestae e il suo perenne focolare certo non deludono,
pieni come sono di fecondazioni incestuose, numi spulzellatori,
verginità generatrici che precedono di otto secoli quella del
Cristianesimo. Dai villaggi sparsi sui sette colli, queste leggende sono
alla base della città-stato che via via cercherà di modellarsi una
storia all’altezza del suo ruolo, fino a inglobare la figura di Enea.
L’idea politica di fondo, se è consentito banalizzarla, è che il sorgere
del fuoco sacro di Vesta e la figura stessa delle Vestali costituiscono
il preludio, ma anche il presupposto della Cosa Pubblica, nucleo di
valori alla base del moderno concetto di interesse generale. Alla fine
ce n’è quanto basta perché, insieme alla conferma che il mito è il
sottofondo della storia, sia riconosciuta la vocazione universale di
Roma. Preziosa, oltre che sapiente, la conclusione per l’oggi: «Il mare
di Sicilia pullula di profughi che scappano da orribili tragedie: le
tante Troie oggi distrutte. Di fronte a un profugo bisognerebbe porsi
questa domanda: se fosse un altro Enea?».