Corriere La Lettura 10.1.16
I faraoni non sono mai finiti
Una cultura millenaria è oggi minacciato dall’inquinamento, dai mutamenti climatici, dal fondamentalismo islamico
Aveva esaltato la conoscenza come fonte del pensiero, la cività egizia va protetta per il bene di tutti
di Christian Jacq
Se
vogliamo comprendere la straordinaria unicità dell’Egitto, dobbiamo
anzitutto pensare a quella terra come a una sorta di continente, culla
di una civiltà affascinante, in cui è nato e si è evoluto il più
duraturo sistema di governo della Storia: l’istituzione faraonica.
Un’istituzione che, a voler essere precisi, non è mai stata formalmente
abolita.
Una legge che bisogna rispettare sempre e comunque, pena
lo scatenarsi di conflitti devastanti, è quella della geografia. E le
quattro frontiere dell’Egitto sono ben delimitate: a Nord, il mare
Mediterraneo; a Est e a Ovest, il deserto e, a Sud, la prima cateratta
del Nilo (benché l’antica Nubia, che oggi comprende l’Egitto meridionale
e il Sudan settentrionale, fosse più una specie di protettorato che una
vera e propria provincia). Per gli antichi egizi, queste frontiere
erano cruciali e infatti loro erano ben determinati a difenderle, come
dimostrano, per esempio, le fortificazioni erette lungo la famosa Via di
Horus, intese a fronteggiare l’avanzata di eventuali invasori lungo il
corridoio siro-palestinese.
All’interno di questo universo, si
distinguevano due regioni, diverse e complementari. La prima era quella
del Basso Egitto, o Delta, segnata appunto dai sette rami del delta del
Nilo, rigogliosa e verdeggiante. Poi c’era l’Alto Egitto, detto anche
Valle del Nilo. Simile a un serpente, il fiume scorre sinuoso tra i due
deserti e, visto dall’alto, il territorio egiziano sembra un fiore di
loto: il Delta è il calice; la Valle è lo stelo. Considerato la
proiezione terrestre di un fiume celeste, il Nilo era animato da Hapi;
simbolo della fecondità del fiume, era un divinità androgina,
raffigurata con barba e mammelle pendule.
Una delle differenze più
significative tra l’Egitto faraonico e quello attuale è l’assenza delle
piene. Ciò si deve alla diga di Assuan, costruita a partire dal 1960
per volontà dell’allora presidente egiziano Nasser e con l’aiuto
dell’Unione Sovietica. È stato lo strumento con cui si è recisa
l’arteria vitale del Nilo. Anticamente, a partire dal mese di luglio,
«sotto l’influsso della dea Iside», le acque si gonfiavano e
depositavano il limo fertile sulle sponde del fiume. La straordinaria
prosperità delle Due Terre era legata proprio a questo fenomeno. Ma la
piena poteva essere scarsa oppure eccessiva e, in entrambi i casi,
sorgevano seri problemi che toccava allo Stato prevenire o risolvere. Di
fronte all’imprevedibilità della natura, il faraone e i suoi funzionari
avevano il preciso compito di evitare le carestie, di proteggere i più
deboli e di garantire la coesione sociale.
La costruzione della
diga ha portato alla realizzazione del lago Nasser, un imponente bacino
artificiale lungo quasi seicento chilometri, e, di conseguenza,
all’inondazione della Nubia, un fatto che ha alterato pure gli equilibri
climatici. Numerosi monumenti hanno rischiato di essere spazzati via. E
infatti parecchi bassorilievi e dipinti hanno subito gravi danni e di
alcuni ormai non rimangono che testimonianze fotografiche.
Ma come opporsi a tutto ciò?
L’Alto
e il Basso Egitto erano realtà territoriali così diverse che ci volle,
appunto, un «unificatore delle Due Terre» per dare origine a un unico
Stato. Intorno al 3000 a.C. tra i capi delle tribù che si contendevano
la supremazia sul territorio, era emerso Narmer — il cui nome è composto
dal geroglifico del pesce gatto, dominatore dei fiumi, e da quello del
cesello, simbolo dell’arte di costruire — ed era riuscito a portare a
termine l’impresa. Il sovrano si era attribuito il nome di Menes, che
significa «io sono stabile», a sottolineare come egli fosse alla base
delle future dinastie. Nel corso della loro lunghissima Storia, i
faraoni continuarono a celebrare il rito dell’«unione delle Due Terre»,
ben consapevoli che ogni divisione portava immancabilmente a crisi
politiche, economiche e sociali.
Le antiche province dell’Egitto
erano riunite in una federazione governata da un potere centrale,
insediato nella città in cui viveva il faraone. Le capitali non avevano
una sede fissa; nel corso dei secoli, erano state spostate sia a Nord
sia a Sud; di conseguenza, anche la corte era soggetta a frequenti
spostamenti. Per quanto Menfi (nei pressi del Cairo) e Tebe, sede dei
templi di Karnak e di Luxor, fossero «città» importanti, erano ben
diverse dai moderni agglomerati urbani; anzitutto sorgevano non lontane
dalla campagna e poi mescolavano senza soluzione di continuità le
sontuose residenze dei dignitari, animate da stuoli di servitori, ed
edifici assai modesti.
Il fattore demografico è uno degli aspetti
fondamentali che differenzia l’Egitto contemporaneo da quello dei
faraoni. Durante il lungo e prospero regno di Ramses II, si contavano
probabilmente circa tre milioni di abitanti. Attualmente il Paese ne
conta quasi novanta milioni, che hanno a disposizione una superficie
agricola totale grande quanto il Belgio; in più, le aree coltivabili
sono meno estese rispetto a quelle dell’antico Egitto. L’uso di
fertilizzanti, di prodotti chimici e di macchinari spinge verso un
rapido degrado una terra fragile, che non può più contare sul benefico
limo depositato dalle piene del Nilo. Quello che era noto come «il
granaio di Roma» oggi è costretto a importare la maggior parte delle
derrate alimentari.
Ecco perché così spesso si cerca di rilanciare
progetti intesi a rendere fertili le zone desertiche, progetti che
tuttavia si arenano contro un problema gigantesco: l’acqua. Il Nilo è
lungo seimila chilometri, dunque solo in parte si trova in Egitto e i
Paesi più a Sud sono determinati a sfruttarlo secondo le loro esigenze.
Si parla assai poco di questa «guerra dell’acqua», ma essa è una grave
minaccia per l’equilibrio del pianeta e, soprattutto, dell’Egitto.
I
faraoni sapevano benissimo quanto fosse preziosa questa risorsa ed
erano riusciti a sfruttarla al meglio, attraverso una successione di
piccole dighe che creavano uno straordinario sistema d’irrigazione e
numerose riserve d’acqua. Lo scavo e la manutenzione dei canali erano
compiti di primaria importanza.
E qui arriviamo a un concetto
fondamentale della civiltà egizia, a un’idea fondante della istituzione
faraonica: Maat, che veniva rappresentato da una piuma oppure da una
donna — la reggente — con in testa una piuma in cui gli uccelli si
potevano rifugiare. Maat è la «giustezza», da cui deve derivare la
giustizia, la misura armoniosa, la regola che presiede a ogni forma di
vita, quindi la coesione sociale. Senza Maat, si spalancano le porte al
caos, alla violenza, all’ingiustizia. E ciò vale sia per lo Stato sia
per l’individuo.
Nell’antico Egitto, il fondamento del pensiero
non era la fede, ma la conoscenza. La religione non esisteva (perlomeno
non nella forma delle tre «religioni del Libro», il cristianesimo,
l’ebraismo e l’islam); al suo posto c’era il desiderio di comprendere e
di sperimentare le forze creatrici dell’esistenza. Bisognava affidarsi a
esse perché solo così era possibile allontanare le tenebre, la
distruzione che teneva il mondo sotto una costante minaccia.
Tali
forze erano rappresentate da divinità con ruoli specifici: il dio Thot,
per esempio, rappresentato sotto forma di ibis, l’uccello tipico delle
rive del Nilo, era il patrono degli scribi, nonché l’inventore della
scrittura. Ai suoi discepoli insegnava la scienza e la saggezza «che
aprono il cuore», e non soltanto la mente. L’Egitto era ritenuto il
tempio del mondo; era quella la terra «prediletta» dalle massime
divinità, che l’avevano scelta come loro dimora. Alla gente comune non
era dato varcare la soglia dei templi, sedi elettive di quelle forze
creatrici che dovevano essere quotidianamente alimentate perché
continuassero a diffondere i loro benefici influssi. Nei templi era
ammesso soltanto chi era in grado di celebrare i riti, strumenti
indispensabili per mantenere la presenza divina sulla Terra.
Non
c’era nessun credo, nessun dogma e nessun proselitismo. Solo un legame
tra l’invisibile e il visibile, l’eterno e il transitorio, l’Uno e il
Molteplice.
Una delle responsabilità più gravose dell’Egitto
contemporaneo è quella di salvaguardare un’eredità dal valore
universale. Certo, parecchi templi, soprattutto sul Delta, sono ormai
stati distrutti, tuttavia le testimonianze architettoniche rimaste non
sono poche e sono costantemente minacciate dall’inquinamento, dai
mutamenti climatici e dal fondamentalismo islamico. Le istituzioni hanno
l’obbligo di preservare i tesori rinvenuti e di proseguire le opere di
scavo e di ricerca: un’impresa ciclopica, soprattutto se si considera
che il governo ha tagliato drasticamente i fondi destinati ai beni
culturali. Il patrimonio dell’Antico Egitto è una memoria spirituale che
appartiene all’umanità intera. Senza di essa, la nostra società sarebbe
ancora più in crisi di quanto già non sia.
La tecnologia è stata
di grande aiuto alla ricerca archeologica, trasformandola profondamente.
In passato, per accedere alle tombe, spesso si faceva ricorso a
esplosivi, con risultati tanto prevedibili quanto tragici. Oggi, invece,
ci si affida a progetti internazionali come Scan Pyramids che, con
tecniche non invasive, mirano a svelare i segreti ancora celati nei
monumenti. Ci si potrebbe chiedere se esistono, in Egitto, tesori ancora
da scoprire. La risposta è: «Certamente sì». E, per tesori, intendo
piramidi da portare alla luce, tombe, papiri, mummie, statue e manufatti
più o meno sorprendenti. Per non parlare delle opere dimenticate nei
magazzini dei musei. Un lavoro a dir poco… faraonico attende le
generazioni future.
(traduzione di Valentina Russo )