domenica 10 gennaio 2016

Corriere La Lettura 10.1.10

Cerchi Buddha ? Prova dagli scettici
Christopher Beckwith demolisce molte consolidate certezze sulla diffusione della fede orientale nell’antichità
Il sinologo trova le prove della circolazione del culto nato in India non nelle stele attribuite al re Ashoka ma negli scritti del greco Pirrone

Una manciata di mesi fa è uscita l’ultima provocazione di Christopher Beckwith, sinologo che ama raccontare gli imperi della via della Seta. Se vi piace far galoppare la mente all’inseguimento delle relazioni fra antica India e Mediterraneo, The Greek Buddha , sin dal titolo, sarà il vostro nuovo livre de chevet . L’incedere dell’opera è a tratti un po’ caotico ma ha il merito di far uscire le ricerche degli ultimi trent’anni fuori dalla cerchia degli specialisti e abbonda di originali spunti di riflessione, tutti scrupolosamente documentati. Scopriamone alcuni.
La nostra storia inizia in India a metà del III a.C. La dinastia Maurya ha unificato sotto il suo dominio gran parte del subcontinente quando i Kalinga, nell’odierno Orissa (sulla costa orientale), si rivoltano contro la corte. Il re di turno estirpa il pericolo massacrando 100 mila persone. Alla soddisfazione per aver ripristinato l’ordine, nel cuore del sovrano fece presto seguito il disorientamento spirituale per la strage. Lacrime di coccodrillo, o forse un raro choc morale di fronte ai costi del potere. Il re trovò finalmente conforto nel buddhismo. Prese allora l’epiteto di Ashoka, il «senza dolore», con cui sarebbe passato alla storia.
Sguinzagliò ai quattro angoli dell’impero i suoi emissari, perché eternassero i precetti del Buddha su colonne e su roccia, a beneficio della salvezza dei propri sudditi. Non contento, Ashoka inviò missionari anche ai sovrani ellenistici in Siria e in Egitto. Purtroppo nessuna traccia delle stele di Ashoka nel Mediterraneo è stata ancora trovata ma nell’ultimo secolo e mezzo gli archeologi hanno ritrovato ben 33 di quelle indiane, sparse dalle rovine meridionali di Yerragudi, nella quiete stupefacente delle cinciallegre e degli scoiattoli dell’Andhra Pradesh; all’estremo ovest dell’impero Maurya, oggi tra i frutteti della magnifica piana di Kandahar, in Afghanistan, dove nel 1958 saltò fuori un editto addirittura bilingue, in greco e aramaico: una sorta di stele di Rosetta buddhista.
A decifrare l’antico alfabeto brahmi in cui erano scritte ci aveva pensato nel frattempo lo Champollion inglese, James Prinsep (1798–1839), un self-made man dell’impero britannico, geniale imprenditore che aveva fatto i soldi nelle piantagioni indiane e investito gran parte dei suoi proventi nel collezionare monete antiche.
Bene. La storia è nota e commovente: odora di Indiana Jones. Ma è probabilmente falsa.
Nel 1885, a rovinare tutto arriva il nostro antieroe, Alois Anton Führer. Sembra un personaggio uscito dalla penna di Agatha Christie: indologo tedesco, ex prete cattolico, a 32 anni arriva a Lucknow, in Uttar Pradesh, e rimette a nuovo a tempo record il museo locale, entrando nelle grazie dei superiori. Gli viene quindi concesso di compiere diverse perlustrazioni in Nepal, dove trova reperti di notevolissimo valore, tra cui la stele di Lumbini: la prova provata che Shakyamuni Gautama, il Buddha storico, nacque lì.
I britannici sono gente precisa. La notizia dell’exploit di Führer arriva sulla scrivania del governatore del Bengala, che, insospettito dall’improvvisa sequela di scoperte sensazionali del giovane archeologo, invia l’implacabile ispettore Vincent Arthur Smith a controllare. Torchiato, Führer crolla subito e si rivela un falsario compulsivo. « Every statement in his report was absolutely false », ogni parola del suo rapporto è falsa, fu il commento laconico dell’ispettore Smith, nonché la pietra tombale sulla carriera di Führer, che fuggì in Svizzera. Il suo ex professore di sanscrito, l’immenso Georg Bühler, si suicidò per la vergogna.
Ma su cosa stava lavorando Führer quando venne licenziato? Su una stele di Ashoka. Il che avrebbe dovuto per lo meno sollevare qualche sospetto.
Più di un secolo dopo entra in scena il nostro Beckwith. Riprende in mano la storia a partire dal falso del mefistofelico dottor Führer e riesamina il corpus delle iscrizioni di Ashoka. Si accorge che i pilastri vennero eretti probabilmente senza alcuna iscrizione, «in bianco», sin dal IV a.C.: i Maurya volevano evidentemente rifarsi all’esempio delle colonne monumentali del vicino, potentissimo impero persiano achemenide. Le iscrizioni vennero aggiunte in un secondo momento, in più fasi, da più sovrani. Si distinguono soprattutto due gruppi: alcune stele sono esplicitamente a opera del re Devanampriya Priyadarshi. Che è sì del III a.C., ma in realtà non si firma mai Ashoka. Rimane poi un secondo gruppo di iscrizioni, di esecuzione meno felice, anonime e non datate. A questo punto però chi ci assicura che siano davvero di Ashoka?
L’autore ipotizza — con una precisione certosina che mette un po’ in imbarazzo studi precedenti — che le cosiddette stele «di Ashoka» siano dei pastiche del I-II d.C. Imiterebbero le iscrizioni Maurya originali, per rifarsi così a un mitico tempo passato e garantire così protezione ad alcune sette buddhiste, in un momento storico in cui il buddhismo si stava sfaldando in diverse correnti. Lo stesso Ashoka potrebbe essere un simulacro di fantasia, creato secoli dopo sulla scorta delle iscrizioni. Del resto la prima menzione di Ashoka in un’opera storica indiana è nel III d.C. Coup de théâtre .
Che cosa comporta tutto questo? Che se vogliamo trovare le più antiche testimonianze scritte sul buddhismo, dobbiamo cercare anche altrove. E qui Beckwith tira fuori dalla manica un altro asso, vero cuore del libro: «Abbiamo Pirrone». Pirrone di Elide (vicino a Olimpia), dopo aver fatto parte della spedizione militare di Alessandro in Oriente, dal 334 al 324 secolo a.C., tornato in patria diede vita a una nuova corrente filosofica, lo scetticismo. Vuoi che in quei dieci anni, di cui molti spesi nel Gandhara (attuale Pakistan), non sia venuto a contatto con sapienti indiani? È vero, Pirrone non disse nulla a riguardo, ma le sue dottrine ci lasciano indizi preziosi: Beckwith esamina gli scritti dell’allievo di Pirrone, Timone, e riscontra un parallelismo pressoché letterale tra gli insegnamenti del filosofo scettico e le tre asserzioni buddhiste fondamentali (il trilakshana ).
Detta così sembra facile ma nessuno se n’era mai accorto prima. Se fosse così, grazie a Pirrone avremmo l’attestazione, già all’inizio del III a.C., di insegnamenti buddhisti che nella letteratura indiana furono messi per iscritto solo verso il I d.C.
Inesauribile, Beckwith rilancia un’ulteriore ipotesi, avvincente e forse sensata: Siddhartha, il Buddha storico, sarebbe stato un pensatore dell’aristocrazia scita, popolo nomade della steppa. Un intellettuale girovago, com’era destino di tutti gli Sciti, eccellenti e inquieti cavalieri. E nei suoi viaggi Siddhartha sarebbe arrivato fino in Cina! Troppo azzardata? A questo punto, bisogna davvero leggere il libro.