Corriere La Lettura 10.1.10
Cerchi Buddha ? Prova dagli scettici
Christopher Beckwith demolisce molte consolidate certezze sulla diffusione della fede orientale nell’antichità
Il
sinologo trova le prove della circolazione del culto nato in India non
nelle stele attribuite al re Ashoka ma negli scritti del greco Pirrone
Una
manciata di mesi fa è uscita l’ultima provocazione di Christopher
Beckwith, sinologo che ama raccontare gli imperi della via della Seta.
Se vi piace far galoppare la mente all’inseguimento delle relazioni fra
antica India e Mediterraneo, The Greek Buddha , sin dal titolo, sarà il
vostro nuovo livre de chevet . L’incedere dell’opera è a tratti un po’
caotico ma ha il merito di far uscire le ricerche degli ultimi
trent’anni fuori dalla cerchia degli specialisti e abbonda di originali
spunti di riflessione, tutti scrupolosamente documentati. Scopriamone
alcuni.
La nostra storia inizia in India a metà del III a.C. La
dinastia Maurya ha unificato sotto il suo dominio gran parte del
subcontinente quando i Kalinga, nell’odierno Orissa (sulla costa
orientale), si rivoltano contro la corte. Il re di turno estirpa il
pericolo massacrando 100 mila persone. Alla soddisfazione per aver
ripristinato l’ordine, nel cuore del sovrano fece presto seguito il
disorientamento spirituale per la strage. Lacrime di coccodrillo, o
forse un raro choc morale di fronte ai costi del potere. Il re trovò
finalmente conforto nel buddhismo. Prese allora l’epiteto di Ashoka, il
«senza dolore», con cui sarebbe passato alla storia.
Sguinzagliò
ai quattro angoli dell’impero i suoi emissari, perché eternassero i
precetti del Buddha su colonne e su roccia, a beneficio della salvezza
dei propri sudditi. Non contento, Ashoka inviò missionari anche ai
sovrani ellenistici in Siria e in Egitto. Purtroppo nessuna traccia
delle stele di Ashoka nel Mediterraneo è stata ancora trovata ma
nell’ultimo secolo e mezzo gli archeologi hanno ritrovato ben 33 di
quelle indiane, sparse dalle rovine meridionali di Yerragudi, nella
quiete stupefacente delle cinciallegre e degli scoiattoli dell’Andhra
Pradesh; all’estremo ovest dell’impero Maurya, oggi tra i frutteti della
magnifica piana di Kandahar, in Afghanistan, dove nel 1958 saltò fuori
un editto addirittura bilingue, in greco e aramaico: una sorta di stele
di Rosetta buddhista.
A decifrare l’antico alfabeto brahmi in cui
erano scritte ci aveva pensato nel frattempo lo Champollion inglese,
James Prinsep (1798–1839), un self-made man dell’impero britannico,
geniale imprenditore che aveva fatto i soldi nelle piantagioni indiane e
investito gran parte dei suoi proventi nel collezionare monete antiche.
Bene. La storia è nota e commovente: odora di Indiana Jones. Ma è probabilmente falsa.
Nel
1885, a rovinare tutto arriva il nostro antieroe, Alois Anton Führer.
Sembra un personaggio uscito dalla penna di Agatha Christie: indologo
tedesco, ex prete cattolico, a 32 anni arriva a Lucknow, in Uttar
Pradesh, e rimette a nuovo a tempo record il museo locale, entrando
nelle grazie dei superiori. Gli viene quindi concesso di compiere
diverse perlustrazioni in Nepal, dove trova reperti di notevolissimo
valore, tra cui la stele di Lumbini: la prova provata che Shakyamuni
Gautama, il Buddha storico, nacque lì.
I britannici sono gente
precisa. La notizia dell’exploit di Führer arriva sulla scrivania del
governatore del Bengala, che, insospettito dall’improvvisa sequela di
scoperte sensazionali del giovane archeologo, invia l’implacabile
ispettore Vincent Arthur Smith a controllare. Torchiato, Führer crolla
subito e si rivela un falsario compulsivo. « Every statement in his
report was absolutely false », ogni parola del suo rapporto è falsa, fu
il commento laconico dell’ispettore Smith, nonché la pietra tombale
sulla carriera di Führer, che fuggì in Svizzera. Il suo ex professore di
sanscrito, l’immenso Georg Bühler, si suicidò per la vergogna.
Ma
su cosa stava lavorando Führer quando venne licenziato? Su una stele di
Ashoka. Il che avrebbe dovuto per lo meno sollevare qualche sospetto.
Più
di un secolo dopo entra in scena il nostro Beckwith. Riprende in mano
la storia a partire dal falso del mefistofelico dottor Führer e
riesamina il corpus delle iscrizioni di Ashoka. Si accorge che i
pilastri vennero eretti probabilmente senza alcuna iscrizione, «in
bianco», sin dal IV a.C.: i Maurya volevano evidentemente rifarsi
all’esempio delle colonne monumentali del vicino, potentissimo impero
persiano achemenide. Le iscrizioni vennero aggiunte in un secondo
momento, in più fasi, da più sovrani. Si distinguono soprattutto due
gruppi: alcune stele sono esplicitamente a opera del re Devanampriya
Priyadarshi. Che è sì del III a.C., ma in realtà non si firma mai
Ashoka. Rimane poi un secondo gruppo di iscrizioni, di esecuzione meno
felice, anonime e non datate. A questo punto però chi ci assicura che
siano davvero di Ashoka?
L’autore ipotizza — con una precisione
certosina che mette un po’ in imbarazzo studi precedenti — che le
cosiddette stele «di Ashoka» siano dei pastiche del I-II d.C.
Imiterebbero le iscrizioni Maurya originali, per rifarsi così a un
mitico tempo passato e garantire così protezione ad alcune sette
buddhiste, in un momento storico in cui il buddhismo si stava sfaldando
in diverse correnti. Lo stesso Ashoka potrebbe essere un simulacro di
fantasia, creato secoli dopo sulla scorta delle iscrizioni. Del resto la
prima menzione di Ashoka in un’opera storica indiana è nel III d.C.
Coup de théâtre .
Che cosa comporta tutto questo? Che se vogliamo
trovare le più antiche testimonianze scritte sul buddhismo, dobbiamo
cercare anche altrove. E qui Beckwith tira fuori dalla manica un altro
asso, vero cuore del libro: «Abbiamo Pirrone». Pirrone di Elide (vicino a
Olimpia), dopo aver fatto parte della spedizione militare di Alessandro
in Oriente, dal 334 al 324 secolo a.C., tornato in patria diede vita a
una nuova corrente filosofica, lo scetticismo. Vuoi che in quei dieci
anni, di cui molti spesi nel Gandhara (attuale Pakistan), non sia venuto
a contatto con sapienti indiani? È vero, Pirrone non disse nulla a
riguardo, ma le sue dottrine ci lasciano indizi preziosi: Beckwith
esamina gli scritti dell’allievo di Pirrone, Timone, e riscontra un
parallelismo pressoché letterale tra gli insegnamenti del filosofo
scettico e le tre asserzioni buddhiste fondamentali (il trilakshana ).
Detta
così sembra facile ma nessuno se n’era mai accorto prima. Se fosse
così, grazie a Pirrone avremmo l’attestazione, già all’inizio del III
a.C., di insegnamenti buddhisti che nella letteratura indiana furono
messi per iscritto solo verso il I d.C.
Inesauribile, Beckwith
rilancia un’ulteriore ipotesi, avvincente e forse sensata: Siddhartha,
il Buddha storico, sarebbe stato un pensatore dell’aristocrazia scita,
popolo nomade della steppa. Un intellettuale girovago, com’era destino
di tutti gli Sciti, eccellenti e inquieti cavalieri. E nei suoi viaggi
Siddhartha sarebbe arrivato fino in Cina! Troppo azzardata? A questo
punto, bisogna davvero leggere il libro.