venerdì 15 gennaio 2016

Repubblica 9 .1.16
Desaparecidos
Noi vittime della storia siamo tutti una famiglia
di Wlodek Goldkorn

Raquel Robles racconta in un romanzo la sua esperienza di figlia di desaparecidos argentini
Raquel Robles aveva poco più di quattro anni, quando, un giorno d’aprile, in casa si presentarono i militari. Gli uomini in armi portarono via il padre e la madre. Raquel non li rivide più. Oggi Robles, figlia di due desaparecidos argentini (due dei trentamila, giovani e meno, uccisi in segreto e senza che i loro corpi potessero avere una sepoltura degna degli umani) ha 45 anni, è scrittrice e donna impegnata in politica,
ma anche insegnante, specializzata nel lavoro con adolescenti in gravi difficoltà. La sua vicenda l’ha voluta narrare in un romanzo: Piccoli combattenti, ora pubblicato da Guanda (traduzione di Iaia Caputo, pagg. 160, euro 15).
La prosa di Robles è asciutta e precisa. Le parole non sono mai troppe né usate per indurre il lettore a versare una gratuita lacrima. Piccoli combattenti è un romanzo che a buon diritto può entrare nel filone della grande letteratura, di quella narrativa che scarta il superfluo per parlare dell’essenziale: amore, paura, morte, identità, la labilità della memoria. E tra le pagine, oltre alla vicenda di una bambina che cresce in casa degli zii, con due nonne e un fratellino di 18 mesi più piccolo di lei, torna più volte il riferimento al ghetto di Varsavia, agli insorti del quartiere ebraico, a Irena Sendler, una donna che salvò 2.500 bambini ebrei e fu orrendamente torturata dai nazisti (le spezzarono le gambe e le mani): quasi a sottolineare quanto la vicenda dei desaparecidos assomigli (lo avevano già intuito scrittori come Nathan Englander e Elsa Osorio) al meccanismo che in Europa portò alla Shoah. L’abbiamo intervistata.
Quanta autobiografia c’è nel suo romanzo?
«Se per autobiografia intende l’adesione precisa ai fatti, rimarrà deluso. Ci sono molti ricordi, ma ho lasciato lavorare la mia immaginazione. Ho voluto raccontare i sentimenti, le emozioni; non essere fedele ai fatti».
Sta dicendo che la memoria è frutto della nostra immaginazione e che il passato come lo vediamo è in gran parte proiezione dei nostri desideri?
«Noi, e quando dico noi, intendo la gente che ha sofferto, siamo chiamati a ricordare. E quando usiamo la parola ricordare pensiamo istintivamente a una memoria solida che può essere ritrovata e riprodotta. Ma è un’idea sbagliata. La memoria è invece il ricordo degli stati d’animo».
Il suo è un libro sull’assenza. Assenza dei genitori, assenza degli affetti. Cosa è la memoria quando si ha a che fare con l’assenza?
«Quando vivi nell’assenza diventi ossessionato dalla ricerca della verità perché hai il costante sospetto che tutto quello che ricordi è inventato. Però, a pensarci bene anche chi ha avuto i genitori fino a un’età avanzata, non può ricordare tutto di loro. Io, mia madre e mio padre li ho persi prestissimo e in una maniera brutale. Ma a un certo punto ho capito che dovevo liberarmi da questa ossessione. E quando me ne sono affrancata, ho capito e sentito di poter scrivere questo libro. E a proposito: vorrei aggiungere una cosa su Primo Levi».
Vuol parlare del valore della testimonianza? Primo Levi era un testimone così credibile perché era prima di tutto un grande narratore.
«D’accordo. Però era ossessionato dalla memoria, perché temeva di non essere creduto. E invece la verità “oggettiva” è materia forense non di letteratura ».
Vuol dire che non le piace Primo Levi?
«Al contrario. Lo adoro. Se questo è un uomo lo rileggo almeno una volta l’anno. E ogni volta vorrei avere Levi davanti a me per potergli dire: “Tu sei un grandissimo scrittore. Ti leggo non per trovare la verità su Auschwitz, ma perché hai scritto libri bellissimi, perché sei un maestro nel narrare le emozioni. E non importa se i dettagli corrispondono a quello che gli avvocati e i giudici considerano la verità”».
Abbiamo parlato dell’assenza. Si possono amare genitori assenti, come lo erano i suoi?
«Sì. Intanto, non erano del tutto assenti, ho dei ricordi di loro. E so che mi hanno amata. Sa cosa è l ‘opposto dell’amore? ».
Lo dica lei.
«Non è indifferenza. L’opposto dell’amore è una sensazione che si prova quando si è sperimentato l’amore. Quando penso ai miei zii che mi hanno cresciuto, so che mi volevano bene. Ma non era l’amore materno. D’altronde io sapevo cosa fosse l’amore materno perché l’ho provato in precedenza».
Non è arrabbiata con i suoi genitori?
L’hanno abbandonata per una causa politica.
«Da bambina lo ero. Ma sapevo anche che il colpevole della loro morte e quindi del mio abbandono era il Nemico (così la scrittrice chiama i militari nel romanzo Piccoli cobattenti, ndr). Sono sempre stata più matura della mia età anagrafica. Non ho avuto un’infanzia vera, sentivo il dovere di badare a mio fratello. Però sapevo che mio padre e mia madre non si sono suicidati. Mia madre era una poetessa, mio padre un agronomo, amavano la vita. È il Nemico che cercava la morte. Oggi, sono grata ai miei genitori, erano persone perbene. Nel mio libro la nonna dice: “La morte non è importante, importante è la dignità”».
Non le sembra invece che anche la morte eroica è assurda?
«Sono d’accordo nel rigettare l’idea romantica della morte. Avrei preferito che Che Guevara fosse vivo. Morendo non si guadagna niente, si diventa il nulla e le nostre parole servono solo a riempire il vuoto. Ma, ripeto, i miei genitori sono stati ammazzati, non hanno cercato la morte».
Lei si identifica con gli insorti del ghetto di Varsavia. Perché?
«Mia nonna materna era ebrea. Da bambina frequentavo un’associazione ebraica culturale di sinistra (Ikuf) e partecipavo ai campi estivi. Ogni anno celebravamo l’anniversario dell’insurrezione. I miei zii comunisti, poi, mi hanno insegnato che la storia non è solo la storia del tuo paese, ma di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà ovunque, in qualsiasi posto. Gli insorti del ghetto sono parte della mia famiglia».
E oggi?
«Il Nemico è sempre presente. Uccide e occulta i corpi degli assassinati. Ovunque nel mondo. Guardi l’Europa. I profughi sono considerati non umani. E, finché il capitalismo governerà il mondo, non cesserà questo modo di pensare. La logica del capitalismo è egoismo, è ritenere che io sto bene perché sono migliore di coloro che stanno male e quindi posso essere indifferente. I peggiori non sono gli assassini, ma coloro che giustificano i crimini».