Repubblica 15.1.16
Shakespeare
Perché parliamo tutti come il poeta di Stratford upon Avon
Quattrocento anni fa moriva il Bardo. Che è entrato nella nostra vita descrivendoci davvero
Anche chi non lo ha mai letto potrà dirsi amletico. E quale donna non si è mai sentita presa in un gioco come Ofelia?
di Nadia Fusini
Se
Shakespeare è davvero quel tale William battezzato a Stratford upon
Avon nelle Midlands il 26 aprile del 1564, la sua morte non desta
incertezze: morì all’età di 52 anni sempre a Stratford upon Avon, il 23
aprile del 1616. Sì che quest’anno, a distanza di quattro secoli,
dovunque nel mondo si celebrerà la sua scomparsa. E già dall’inizio di
questo fatidico 2016, per lo più bisestile, in tutta Europa fervono le
iniziative per ricordare l’anonimo, elusivo, sfuggente scrittore di
teatro e poeta, che risponde a quel nome, della cui vita privata non
sappiamo poi molto, ma che identifichiamo con un corpus di opere,
fondamentali alla nostra identità. Opere in cui, ricordando il
settecentesco
Samuel Johnson, un altro lettore forte di
Shakespeare, nostro contemporaneo, e cioè Harold Bloom, riconosce
l’invenzione della nostra stessa idea di umanità. Cioè a dire, siamo
quel che siamo perché chiunque si nasconda dietro il nome di Shakespeare
in molti modi ci è padre, e dalla lontananza di una paternità tutta
spirituale e immaginaria ci offre una galleria di tipi umani che sono
nel tempo diventati icone del nostro mondo immaginario. E della nostra
coscienza. E cioè, caratteri che partecipano della nostra vita e
ricorrono nei nostri discorsi perché riconosciamo in loro emozioni che
sono le nostre, diverse, eppure medesime, come quando diciamo non fare
l’amletico a qualcuno che dubita, o non sarai mica geloso come Otello,
di qualcuno che sospetta della fedeltà della sua donna, o sei più
cattivo di Iago di qualcuno la cui malignità non riusciamo a
spiegarci...
In realtà, Shakespeare non è mai stato “classico”,
piuttosto sempre “popolare”. Non è l’accademia ad avere “salvato”
Shakespeare, né con le spuntate armi della pedanteria saccente si
raggiunge la bellezza dell’invenzione shakespeariana. È piuttosto
attraverso media quali il teatro e il cinema, che Shakespeare è entrato
nella nostra vita. Anche chi non ha letto Romeo e Giulietta, può
invocare Romeo come proprio fratello, nel caso un destino avverso lo
divida dalla propria amata. Anche chi non ha letto l’Amleto, in certi
momenti della sua vita potrà dichiararsi “amletico”. E cioè, indeciso
riguardo al proprio atto, svogliato rispetto al compito che il padre
morto o la famiglia o la società tutta gli impongono. Ci sono poi altri
giorni in cui si insedia nella nostra mente un cattivo pensiero che la
parte buona non riesce a vincere, e allora ci sentiamo vicini al nobile
Macbeth, il quale fa quello che fa, e cioè uccide il buon re Duncan, che
pure ama, perché sente delle voci, le voci delle streghe, che danno
parola al suo desiderio inconscio. E altri giorni ancora in cui
prendiamo la vita al modo di Falstaff, e non vorremmo che godere — del
cibo, del sesso, del gioco, e barare e rubare e mentire come fa lui, con
strafottenza, e cioè da vero playboy qual è, da quel grandissimo ed
esasperante ed espansivo eroe della “carne” che è Falstaff.
In questo senso, e cioè alla lettera, il teatro di Shakespeare dispone per noi in scena una
comédie
humaine, al cui vasto repertorio possiamo attingere nelle più diverse e
varie occasioni, quando emozioni nuove insorgono dentro di noi, e
rimangono lì sospese, in attesa che, oltre a provarle, le si trasporti a
una qualche forma espressiva.
Che modella la nostra stessa
interiorità. E cioè, il nostro teatro interiore. Chi di noi donne non si
è sentita Ofelia, l’innamorata, che presa in un gioco tutto maschile si
fa ignara pedina, che pezzi più forti di lei sulla scacchiera
inghiottono? E altre volte non ci siamo forse sentite Gertrude, la
regina vorace che morto un marito, se ne fa un altro, senza troppo
tergiversare? Non sarà forse da ammirare, e non da criticare al modo
violento con cui lo fa il figlio Amleto, la sua vivace abbreviazione del
tempo del lutto, quasi ci discolpasse di una certa superficialità, che
fa comunque trionfare la voglia di vivere, rispetto alla tetra sosta
nelle oscure caverne del lutto? Esistono donne così, fedeli al proprio
piacere, costanti rispetto a una bussola con sfacciata fede puntata a
godersi la vita, anche il sesso. Perché no? Come esistono altrettante
donne “ideali”: la Porzia romana, moglie di Bruto, figlia di Catone, che
all’ideale del nome del padre e del marito si sacrifi- ca. O come
Cordelia, la figlia che al vecchio padre dice la verità, perché solo e
soltanto la verità si deve a chi amiamo. O la veneziana Desdemona,
eroina del free- will, che contro la volontà paterna e a dispetto delle
convenzioni sociali, liberamente sceglie il Moro contro più
addomesticati cicisbei veneziani. D’accordo, non finisce bene, ma l’atto
di libertà della Desdemona shakespeariana resta, e trionfa contro le
più tarde sentimentali incarnazioni del personaggio. Come resta
indimenticabile la libertà di Caterina, che Petruccio tenta invano di
domare, finché non è lui a cedere alla superiore potenza della lingua
indomabile della donna, equivalente fallico di un membro virile non
altrettanto attivo. Sì che da domatore si ritrova domato, e l’avvertito
lettore non potrà che domandarsi perplesso, alla fine: a che cosa
servono questi concetti così fallaci? Non concetti, in realtà, ma pure
convenzioni di comodo, come le distinzioni di genere? A ordire una
grammatica, rispetto alla quale tutti scartiamo? E nessuno è al posto
suo?
E se un uomo è un uomo e adora il potere, e giustamente
identifica nell’oggetto corona o scettro il simbolo più efficace della
potenza fallica, non gli verrà spontaneo alla bocca il nome di Riccardo
III, così cattivo e feroce e spietato? Capace di tutto, perfino di
prendere in sposa la stessa donna a cui ha ucciso il padre e il marito,
se serve alla sua carriera. Finché si ritrova solo sul campo di
battaglia ed emette quello sconsolato grido: «Un cavallo, un cavallo, il
mio regno per un cavallo!». Tutto ora scambierebbe per qualcosa che non
ha. E sempre tra gli uomini, quale uomo di potere sapiente e audace nei
suoi giorni più maturi non s’è perso, anche se non in Oriente, tra le
braccia di una seduttrice? Non c’è uomo politico di razza che non abbia
sfiorato il pericolo Circe o Cleopatra, specchiandosi in tal caso in
Antonio. E cioè, subendo la tentazione di lasciar naufragare Roma nel
Nilo, per dirla con il romano tra le braccia della regina di Egitto. Che
comunque è un bel modo di finire; di certo non peggiore di chi come
Lear impazzisce per non sapersi arrendere all’evidenza della vecchiaia,
che disarma l’uomo potente. Staccarsi dalla propria potenza, devolvere
il potere al più giovane, è mossa difficile all’uomo abituato al
comando.
Quanto all’uomo tout court, all’uomo comune, all’uomo
normale, non ce n’è uno che non si sia ritrovato almeno una volta con le
orecchie di Asino come Bottom, scoprendo la propria vulnerabilità di
fronte agli incostanti capricci di una donna-regina... È il mistero
della vita che Shakespeare incarna per noi, offrendoci di volta in volta
nei suoi personagggi le maschere grazie alle quali venire in contatto
con le nostre più segrete pulsioni, confermando che la pulsione, o più
semplicemente la passione di vivere è di per sé teatrale, esibizionista.