venerdì 8 gennaio 2016

Repubblica 8.1.16
L’idealismo ormai lontano dal mondo del lavoro
di Giancarlo Bosetti


Nonostante l’incandescente fantasia di Thomas More (o di Tommaso Campanella) la distanza tra l’utopia e una realistica riforma è esposta al tira e molla della retorica e all’interesse di chi deve pagarne il prezzo. Nell’isola inventata dall’inglese si lavorava sei ore al giorno, nella Città del Sole del calabrese solo quattro. Erano davvero utopie e lo sono rimaste. Ma per molti è rimasta utopia la limitazione a otto ore, anche dopo che una convenzione internazionale l’ha sancita come un diritto nel 1919. Ancora più utopia oggi la piena occupazione. Il fatto è che a meritarsi cattiva fama non sono stati gli ideali, ma alcuni vizi che si accompagnano spesso all’utopia e fanno sì che venga regolarmente trasformata in incubo. Il vizio non è l’altitudine del desiderio, ma quello che i grandi critici dell’utopismo — due per tutti: Karl Popper e Isaiah Berlin — hanno identificato come il suo aspetto più pericoloso: la convinzione che si possa realizzare una società perfetta, esente dai comuni difetti — egoismo, avidità, opportunismo, eccetera. Il perfezionismo è dunque parente stretto del costruttivismo rivoluzionario, il quale ritiene, attraverso una élite che si auto-investe del mandato di conoscere la direzione della storia.
Che alcuni sappiano dove va quel fiume fa sì che i prezzi di sofferenza da pagare siano soltanto un inevitabile pedaggio per liberare il suo corso dagli impacci (Popper), mentre gli eletti che cucinano la storia continuano a rompere una quantità crescente di uova giustificandosi, come faceva Stalin, con il bisogno di fare una omelette, che però non arriva mai in tavola (Berlin). La cura di questo vizio che tende sempre a ripresentarsi, incontenibile — il desiderio di purificare l’umanità accompagna anche le pulizie etniche — sta sia nel coltivare moderazione e gradualità delle riforme sia nell’accettare quella varietà e imprevedibilità di comportamenti che ripropongono l’evidenza del nostro essere fallibili. E diversi. È il dato inoppugnabile su cui Voltaire costruiva l’edificio della tolleranza. La grandezza degli ideali non è dunque da reprimere. Non era, non è gigantesco l’ideale della cittadinanza cosmopolitica? O quello della pace perpetua in un mondo tutto democratico? Eppure proprio in quelle stesse pagine in cui ne parlava, Emmanuel Kant, che perfezionista non era, collocava la celebre riflessione sul «legno storto», come quello di cui è fatto l’uomo, da cui non si ricaverà nulla di interamente diritto. «Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura».