venerdì 8 gennaio 2016

Repubblica 8.1.16
Il “principio speranza” oltre i calcoli della ragione
di Vito Mancuso


A proposito di utopia occorre sempre ricordare quanto scriveva Oscar Wilde nel 1891: «Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione» ( L’anima dell’uomo sotto il socialismo). La capacità di utopia però, chiamata da Ernst Bloch «il principio speranza», è imparentata con un superamento della ragione calcolante e per questo all’uomo coi piedi per terra appare spesso irrazionalità e follia. Non è quindi un caso che, qualche anno prima del capolavoro di More, Erasmo da Rotterdam avesse dedicato a lui l’Elogio della follia (1509), composto proprio nella casa londinese di More.
Ma cosa permette di distinguere l’utopia dall’immaginazione fantastica e dall’illusione? È il fatto che l’utopia rimanda sempre a un luogo, a un topos; di esso, di cui si dichiara consapevolmente l’inesistenza qui e ora, si avverte il bisogno per mostrare quale potrebbe e dovrebbe essere il volto più vero dell’esistenza. L’utopia perciò non è fuga dal reale, ma penetrazione nella sua essenza più autentica grazie a una più acuta capacità di visione. Prendiamo l’essere umano: limitandosi a ciò che appare, può essere considerato solo un grumo di istinti e di voglie, ma nella luce del pensiero utopico diviene soggetto di armonia, creatore di bellezza, promotore di giustizia e apparire come il fenomeno più nobile prodotto dall’universo. Qual è la prospettiva più realistica? La prima. Qual è quella più produttiva? La seconda. Lo statuto epistemologico del pensiero utopico appare quindi paradossale: si fugge con la mente in un luogo inesistente ma, ben lungi dall’alienarsi nelle illusioni, si diviene più capaci di incidere sulla realtà. Non ci si lascia scoraggiare dalla pesantezza del quotidiano, ma lo si trasforma. Si impone però la domanda decisiva: qual è la sorgente del pensiero utopico? Come nominare cioè quella dimensione dell’essere più alta rispetto alla piana del reale e per questo capace di illuminarla e di riformarla? Un tempo si chiamava Dio e l’utopia era religiosamente connotata. Poi la si chiamò società socialista e l’utopia divenne politicamente connotata. Il libro di Thomas More, come già la Repubblica di Platone, rappresenta una felice sintesi delle due prospettive, all’insegna di un’ideale teologia politica e di una politica spiritualmente connotata. Stiamo ancora aspettando di vedere la realizzazione di qualcosa di simile ma credo che coltivarne la prospettiva sia una forma di felice utopia.