martedì 5 gennaio 2016

Repubblica 5.1.16
Il conflitto in medio oriente e gli insegnamenti della storia
di Ian Buruma


TED CRUZ, uno degli aspiranti repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti, ha detto che per porre fine ai disordini che lacerano il Medio Oriente la sua soluzione sarebbe quella di «bombardare a tappeto» i luoghi del conflitto, per vedere se «la sabbia può splendere al buio». Donald Trump, che stando ai sondaggi repubblicani sarebbe il candidato di punta, ha promesso di «bombardare di brutto l’Is». Un terzo candidato, Chris Christie, ha invece minacciato una guerra contro la Russia.
Con candidati che brandiscono una retorica simile, non sorprende che secondo un recente sondaggio il trenta percento degli elettori repubblicani si sia detto a favore del bombardamento di Agrabah. Ignari del fatto che tale località, tratta dal film d’animazione Aladdin, non esiste. Ma ha un suono arabo, e tanto gli basta.
Le bellicose affermazioni dei candidati potrebbero essere considerate come altrettante esortazioni pronunciate da mostri assetati di sangue. Un’interpretazione più misericordiosa le imputerebbe invece alla loro drammatica mancanza di immaginazione morale e di conoscenza della storia. Evidentemente non riescono nemmeno ad immaginare le conseguenze delle loro dichiarazioni.
Una sommaria conoscenza della storia recente basterebbe infatti a dimostrerebbe che «bombardare di brutto» non contribuisce granché a vincere le guerre. Non funzionò in Vietnam, ed è improbabile che possa funzionare in Siria o in Iraq. Nemmeno i nazisti furono sconfitti dai bombardamenti a tappeto della popolazione civile: ai fini della disfatta della Wehrmacht, il contributo dato dai carri armati russi fu ben più efficace.
Ciò solleva un interrogativo (che ben si addice all’inizio di un nuovo anno): la storia ha realmente molto da insegnarci? Dopotutto nessun fatto è mai esattamente uguale a quelli che lo hanno preceduto.
Sarebbe probabilmente corretto affermare che non ci si può aspettare che la storia ci indichi come dobbiamo comportarci in una data crisi. La conoscenza del passato può tuttavia aiutare a comprendere meglio l’epoca in cui viviamo. Alcuni modelli di comportamento umano sono ricorrenti: il problema è che i commentatori e i politici spesso tendono ad avvalorare le proprie posizioni ideologiche ricorrendo ad esempi sbagliati.
Poiché sono poche le persone in grado di evocare un’epoca precedente alla Seconda guerra mondiale, gli esempi compresi tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta sono tra i più sfruttati.
Ogni volta che si parla di un dittatore, ovunque egli si trovi, invochiamo lo spettro di Hitler. E quando intendiamo esprimere il nostro scetticismo riguardo al frettoloso impiego di una guerra “preventiva” contro simili personaggi ecco riemergere i fantasmi del 1938. Chi nutriva dubbi riguardo all’invasione dell’Iraq da parte di George W. Bush era tacciato di essere un “conciliatore”, alla stregua dello sventurato primo ministro britannico Neville Chamberlain.
La nostra scarsa conoscenza della storia, che si limita quasi esclusivamente ai nazisti e alla Seconda guerra mondiale, ci impedisce di fatto di scorgere altre analogie storiche che potrebbero forse rivelarsi più istruttive. Le terribili guerre che oggi dilaniano il Medio Oriente, nelle quali sette religiose rivoluzionarie e capi tribali si battono contro spietate dittature sostenute da una o l’altra delle grandi potenze hanno molto meno in comune con la guerra contro Hitler (e ancor meno con i più recenti conflitti in Corea e nel Vietnam) che con la Guerra dei trent’anni che tra il 1618 e il 1648 devastò la Germania e l’Europa centrale, durante la quale gli abitanti dei villaggi e delle città furono assassinati, depredati e torturati. Chi sopravviveva ai proiettili e alle spade era destinato a morire di fame o di una delle malattie che venivano propagate da moltitudini di uomini armati.
Al pari dei conflitti a cui assistiamo oggi, la Guerra dei trent’anni è spesso considerata una guerra di natura essenzialmente religiosa, che vedeva opposti tra loro cattolici e protestanti. Tuttavia, come nel caso della violenza che sta dilaniando il mondo arabo, la situazione in realtà era ben più complessa: mentre molte alleanze seguivano delle suddivisioni settarie, i soldati mercenari (tanto protestanti che cattolici) cambiavano fronte ogni qual volta faceva loro comodo, mentre i principi protestanti tedeschi erano sostenuti dal Vaticano e la Francia cattolica appoggiava la Repubblica olandese (protestante).
Le guerre in Siria e in Iraq evidenziano un andamento analogo. L’Is rappresenta una violenta ribellione sunnita contro i governanti sciiti. Gli Usa si oppongono all’Is, ma altrettanto fanno l’Iran (una potenza sciita) e l’Arabia Saudita — che è governata da despoti sunniti. Tuttavia il conflitto in Medio Oriente è incentrato sulla lotta per l’egemonia tra Arabia Saudita e Iran: entrambi sostenuti da alcune tra le maggiori potenze mondiali ed entrambi abituati ad istigare deliberatamente i fanatici religiosi — benché la chiave di lettura del conflitto non abbia nulla a che vedere con la religione.
La Guerra dei trent’anni era una lotta per l’egemonia tra la monarchia dei Borboni e quella degli Asburgo, e si è protratta sino a quando una delle due fazioni non è stata abbastanza forte da imporsi sull’altra, causando le più atroci sofferenze tra gli abitanti delle campagne e delle città. Analogamente a quanto accade oggi in Medio Oriente, anche allora alcune grandi potenze (Francia, Danimarca, Svezia) si schierarono, prendendo le parti dell’una o dell’altra corrente nella speranza di trarne qualche vantaggio.
Quali insegnamenti possiamo trarre da tutto ciò? C’è chi ritiene che solo una riforma religiosa generale possa ripristinare la pace in Medio Oriente. Ma una riforma dell’Islam, in sé auspicabile, ha di certo poco a che fare con la guerra in atto. Il presidente siriano Bashar al Assad non si sta battendo in nome di una particolare setta islamica (quella degli alawiti), ma per la propria sopravvivenza politica. L’Is non combatte in nome dell’ortodossia sunnita, bensì per imporre un califfato rivoluzionario. La lotta tra Arabia Saudita e Iran non è di natura religiosa, ma politica. Durante la Guerra dei trent’anni ci furono momenti in cui sarebbe stato possibile raggiungere un accordo politico, ma ciò non non avvenne per mancanza di volontà: una delle due fazioni era decisa a proseguire i combattimenti — o a indurre il nemico a fare altrettanto — nella speranza di garantirsi ulteriori vantaggi.
Perdere opportunità simili in Medio Oriente sarebbe tragico. Ogni accordo richiede un compromesso, e i nemici devono parlare tra loro. Invocando con millanteria la necessità di bombardare a tappeto e accusando coloro che tentano di giungere a un accordo di essere dei vili pacificatori non si fa altro che prolungare (nel migliore dei casi) l’agonia, e causare (nel peggiore) delle catastrofi addirittura peggiori. Di questo passo il conflitto in Medio Oriente potrebbe durare ben più di tre decenni e finirebbe per coinvolgere quasi tutti.
( Traduzione di Marzia Porta)