martedì 5 gennaio 2016

La Stampa 5.1.16
I guai di Pechino pesano sull’America e mettono a rischio la ripresa europea
Valute, esportazioni e materie prime: l’Occidente adesso teme l’effetto domino
di Francesco Manacorda


Il primo numero che ha fatto tremare le sale operative di tutto il mondo è un 48,2: il calo dell’indice manifatturiero cinese. Il secondo numero, ironia delle statistiche, è lo stesso.
Ieri pomeriggio, quando le Borse europee avevano già subìto la loro batosta e a Wall Street si consumava la peggior seduta inaugurale dal 1932, è arrivato lo stesso semplicissimo numero - 48,2 - che rappresenta l’indice della produzione manifatturiera americana rilevata in dicembre dall’istituto Ism. Perché quel 48,2 fa paura? Detto in due parole perché se l’indice è sopra quota 50 vuol dire che la produzione sta crescendo; se invece è sotto 50 si sta contraendo. Ma il peggio è che quel numeretto è il dato più basso dalla metà del 2009, ossia il momento in cui gli Usa hanno cominciato a risollevarsi dalla crisi finanziaria. E se non bastasse è anche la prima volta in sei anni che il dato è negativo per due mesi di seguito, segnalando così il rischio che il rallentamento possa avvitarsi su sè stesso.
Segnali negativi
Certo, in un’economia matura come quella Usa il settore manifatturiero pesa solo per il 13% del Pil. Ma al di là del fatto che altri dati resi noti in queste ore (come l’indice della spesa per costruzioni, che in novembre è sceso dello 0,4% rispetto a un mese prima) lasciano presagire altri segnali negativi per la congiuntura americana, proprio la manifattura è un buon indicatore di come il rallentamento cinese possa avere effetti immediati e pesanti sugli Stati Uniti, che nel 2015 hanno esportato beni per quasi 100 miliardi di dollari verso quel Paese. Pechino controlla la seconda economia del mondo, che cresce e crescerà a ritmi inauditi per noi occidentali, ma con una regressione preoccupante, come un’auto che perde velocità: il 7,3% nel 2014, il 6,8% nel 2015, il 6,5% quest’anno, il 6,4% il prossimo. Se anche questi dati in discesa appaiono difficili da raggiungere ecco che l’effetto sull’economia Usa, ossia su quella parte di mondo che l’anno scorso ha guidato la ripresa globale e che dovrebbe avere lo stesso ruolo anche nel 2016, con una crescita del Pil che l’Ocse prevede pari al 2,5%, diventa a rischio.
Il peso dei Brics
Sono i venti dell’Est e del Sud del Mondo - assieme alla frenata di Pechino vediamo le nuove minacce di guerra, il congelamento dell’economia russa, mentre Mosca cresce invece come peso politico e aggressività militare, e in generale la caduta dei Brics guidati dal Brasile che dopo un anno disastroso, con il Pil in calo del 3,1%, quest’anno dovrebbe scendere ancora dell’1,2%, che fanno già sentire la loro folata gelida negli Stati Uniti.
Vista in questo scenario la mossa della Federal Reserve, la banca centrale americana guidata da Janet Yellen, che a metà dicembre ha deciso il primo rialzo dei tassi Usa terminando di fatto un’era di credito concesso gratuitamente, rischia adesso di essere percepita come intempestiva: tassi più alti non solo frenano gli investimenti, ma come è ovvio hanno anche un effetto diretto sull’apprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute, prima fra tutte lo yuan cinese.
Le tensioni valutarie
Questo non è un bene, perché anche dal punto di vista valutario i problemi di Pechino rischiano di scaricarsi sugli Stati Uniti: a innescare la crisi di ieri a Wall Street ha contribuito infatti la decisione della Banca centrale cinese di fissare il primo tasso di cambio yuan/dollaro del 2016 al livello più basso da oltre quattro anni. Il tutto dopo che già in agosto la svalutazione a sorpresa della moneta cinese aveva segnato un attacco nella guerra valutaria tra i due Paesi, costringendo la Federal Reserve a rinviare l’aumento dei tassi inizialmente previsto per settembre. Il risultato del tasso di cambio attuale è comunque che le merci cinesi saranno ancora meno care negli Usa con il duplice problema per i produttori americani di vendere meno i loro prodotti in Cina e di dover abbassare i prezzi in dollari se vogliono competere in casa propria con le importazioni che arrivano dall’Asia.
I pericoli per l’Ue
Se la reazione a catena dovesse davvero propagarsi, anche per l’Europa non saranno certo buone notizie: mercati asiatici e mercato americano pesano ovviamente sulle esportazioni dell’Ue, e sebbene il rialzo del dollaro abbia favorito finora i nostri esportatori verso gli Usa, un calo della domanda americana avrebbe effetti immediati su una zona euro dove le leve di politica monetaria- con il quantitative easing della Bce ormai in piena attività - non hanno praticamente più spazio di manovra. L’Occidente resta appeso a Pechino, dunque, nella speranza che da lì non arrivino altri segnali destabilizzanti.