martedì 5 gennaio 2016

La Stampa 5.1.16
Salari bassi, scioperi e manager spariti
L’industria al ralenti fa tremare i cinesi
La manifattura soffre la ripresa Usa, azione di governo lenta e inefficace
Depositi pieni. La Cina non riesce a smaltire la sovrapproduzione con cui ha risposto alla crisi mondiale
di Ilaria Maria Sala

I motivi della caduta della Borsa cinese possono sembrare ovvii e legati a fatti contingenti (il calo della manifattura e l’entrata in vigore di nuove regole sulle Borse), ma i segnali di un profondo rallentamento sono da mesi sotto gli occhi di tutti, per quanto le dimensioni economiche della Cina, e le sue mille contraddizioni, possano distrarre dalle tendenze più importanti.
Tensioni sociali
Da sud, dalla fabbrica del mondo nell’agglomerato industriale e urbano di Shenzhen, i guai cinesi si vedono più chiaramente. Da alcuni mesi, imponenti manifestazioni di operai che scioperano per gli stipendi che si assottigliano e per la scomparsa di imprenditori hanno acuito le tensioni sociali. Ma come denuncia il China Labor Bulletin - l’unica organizzazione sindacale indipendente, in esilio a Hong Kong - «la repressione anti-attivisti per i diritti dei lavoratori è talmente forte da non avere precedenti in Cina». Un commento non da poco, in un Paese dove i lavoratori non hanno il diritto di organizzarsi.
Produzione ed export
Il rallentamento delle attività produttive però è un dato ormai costante: la produzione si è contratta per il decimo mese consecutivo e l’entità della contrazione aumenta. Per il quinto mese, poi, si è indebolita anche la manifattura delle aziende di Stato, il campione industriale del Paese. Il calo continuativo più lungo dal 2009. Soffre anche l’export cinese che non tiene più il passo con la ripresa economica degli Usa e in parte dell’Europa. Anzi, Pechino patisce il ritorno della crescita dell’industria americana e dei tentativi di Giappone e Corea del Sud di diversificare le esportazioni con altri Paesi.
I consumi
Non solo, anche i consumi calano. Quelli del lusso sono vittima della campagna contro la corruzione e dell’era di “sobrietà” instaurata da Xi Jinping, ma anche i consumi di beni industriali sono in netto ribasso. Rispecchiano gli effetti della bolla immobiliare che si sta sgonfiando e la difficoltà per la Cina di passare da un’economia focalizzata sull’esportazione a una basata su servizi e consumi interni. E la Cina sta ancora cercando di smaltire lo stoccaggio eccessivo dovuto alla sovrapproduzione degli ultimi anni, quando Pechino ha reagito alla crisi economica internazionale con stimoli alla produzione, senza curarsi degli eccessi.
Stimoli inefficaci
Non hanno dato i risultati sperati nemmeno i tanti stimoli varati: sgravi fiscali per le aziende, obbligo per gli istituti di credito di erogare prestiti, sei tagli consecutivi nei tassi di interesse da parte della Bank of China. In questi giorni il premier cinese Li Keqiang ha ripetuto che non ci saranno ulteriori stimoli (una frase però sentita troppe volte per essere creduta del tutto) e che la Cina deve abituarsi a una nuova normalità, con una crescita intorno al 7%, che sarà probabilmente fissata al 6,5% per l’anno in corso. Pechino, però, ha anche lasciato che la stampa nazionale scrivesse che le statistiche cinesi non sono affidabili, lanciando una mini-campagna politica per statistiche più veritiere.
La Borsa drogata
L’idea è che il mercato azionario cinese si sia lasciato spaventare mentre gli investitori puntavano dritto verso l’uscita. Un mercato azionario che, dopo lo scossone dello scorso giugno, continua però a essere drogato, con molti investitori istituzionali ai quali non è permesso di vendere azioni per direttiva governativa. Restano più ingovernabili i piccoli investitori individuali, che hanno messo i risparmi in Borsa giocando finanziariamente come giocherebbero a Monopoli, aggravando le conseguenze in giornate d’improvviso disastro borsistico come ieri.