lunedì 4 gennaio 2016

Repubblica 4.1.16
Etgar Keret.
Lo scrittore e Lev, 10 anni: “In questi giorni la città è blindata ma abbiamo voluto che andasse a scuola perché solo con la vita si può rispondere all’odio e alla paura che stanno avvelenando la nostra società”
“Così spiego a mio figlio come la guerra è arrivata anche qui a Tel Aviv”
intervista di Marco Mathieu


Guardie armate agli ingressi, polizia ovunque. Lui chiede perché la violenza debba arrivare nella nostra città
Per non spaventarlo gli abbiamo detto che eravamo chiusi in casa per il maltempo ma poi ha voluto sapere

Etgar Keret, 49 anni. Nel suo ultimo libro “Sette anni di felicità” (Feltrinelli, 2015) racconta gli anni tra la nascita di suo figlio e la morte di suo padre
IL Comune ha autorizzato i genitori a tenere a casa i bambini da scuola e otto su dieci lo hanno fatto. Noi invece Lev lo abbiamo mandato, è importante che impari a reagire con la vita a queste situazioni». Etgar Keret, 49 anni, scrittore e terzo figlio di genitori sopravvissuti all’Olocausto, sposato con la regista Shira Geffen, è il padre di Lev, 10 anni. «Ha già state un paio di guerre e un’infinità di attacchi suicidi, ma ora vive un’esperienza diversa».
Cosa è cambiato a Tel Aviv dopo l’attacco al pub?
«È stata la prima volta in cui abbiamo pensato a un attentato dell’Is. Il pub è a poche centinaia di metri da casa nostra. Abbiamo sentito gli spari, poi l’intero quartiere è stato chiuso dalla polizia. A Lev, per non spaventarlo, abbiamo detto che dovevamo stare in casa per il brutto tempo. Ma poi ci ha chiesto...».
E voi?
«Finora capiva che c’erano scontri e uccisioni nei luoghi contesi, da Gerusalemme ai Territori, adesso si chiede perché qualcosa del genere avvenga a Tel Aviv. Indicando le guardie armate che sorvegliano la sua scuola, oggi gli ho spiegato che la guerra può essere ovunque ma non dobbiamo farci dominare da odio e paura».
A scuola cosa dicono?
«I bambini parlano tra loro. Molti tra i compagni di Lev hanno uno smartphone e le informazioni sono ormai ovunque. Diventa più difficile proporre una narrazione alternativa».
Che differenza c’è rispetto a
quando Lei aveva l’età di Lev?
«Sono cresciuto in una società più solidale di quella in cui sta crescendo mio figlio. C’era già l’ombra del terrorismo, ma anche un desiderio condiviso di democrazia e diritti. Oggi manca quel senso di fratellanza».
In che senso?
«Dopo l’attacco non c’ è stata solidarietà né compassione, ma polemiche. C’è chi, in uno dei talk show più seguiti, ha detto che se l’attacco si fosse svolto a Gerusalemme i cittadini avrebbero fermato il killer: noi qui a Tel Aviv saremmo molli, perché di sinistra e pacifisti».
E Netanyahu?
«Mi hanno colpito le sue parole nei confronti degli arabi-israeliani. Non ricordo simile durezza sugli ebrei ultra-ortodossi dopo il rogo della casa dei palestinesi. Addirittura c’è chi è arrivato a sostenere che un ebreo non può mai essere definito terrorista, a differenza degli arabi. Qui ormai c’è una spaccatura profonda tra chi sostiene che la pace possa arrivare dalla soluzione dei due Stati e chi si oppone esasperando il fondamentalismo religioso anche a dispetto della democrazia».
Tornando a Lev...
«Per parlargli di ibertà, pace e democrazia gli spieghiamo che tutto parte dal rispetto dell’altro, dalla fiducia, senza le quali non c’è futuro per questo Paese».
E lui?
«Oggi mentre camminavamo insieme mi ha fatto notare che gli sguardi delle persone erano più duri del solito e che tutti erano vestiti in modo pesante, come se ci fosse un nesso. E in effetti, a causa del freddo e della pioggia molti avevano i cappucci tirati su e giacconi. E questo aumentava l’apprensione con cui ci si guardava perché non siamo abituati al freddo e sotto i giacconi si possono nascondere armi. Poi la polizia ci ha fermato e chiesto di tirare giù il cappuccio e gli ho detto che era per la nostra sicurezza e lui mi ha detto “Vedi che avevo ragione, il freddo ci ha fatto stare chiusi in casa e adesso somigliamo ai terroristi”».
Nel 2015 il suo ultimo libro (“Sette anni di felicità”, edito in Italia da Feltrinelli) ha ottenuto premi e riconoscimenti… «Sì e ne sono molto felice, ma la soddisfazione più grande è stata la traduzione del mio libro in
farsi: è stato pubblicato in Afghanistan, ma circa metà delle copie sono riuscite ad arrivare in Iran e spero siano diventate l’occasione per mostrare agli iraniani un altro volto, più “umano” degli israeliani, ritenuti dal loro regime nemici mortali».
A proposito, Lev la legge?
«Ha letto mio libro per bambini e qualche racconto».
E cosa pensa di lei come scrittore?
«Gli ho spiegato che se fai il medico potrai salvare molte persone, se sei un giudice otterrai il rispetto delle persone e altri esempi simili. “E lo scrittore?”, mi ha chiesto lui. Lo scrittore riceverà molto amore dai suoi lettori, gli ho risposto».
E Lev?
«Mi ha detto che se fosse vero sarebbe una grande cosa, ma vuole verificare di persona».