lunedì 4 gennaio 2016

La Stampa 4.1.16
In Africa porti e ferrovie ormai parlano cinese
Dai metalli alle infrastrutture, Pechino continua a investire Boom di lavoratori dall’Oriente. E scatta l’intolleranza
di Lorenzo Simoncelli


Per le strade di Harare, capitale dello Zimbabwe, i commercianti vendono e comprano in yuan, la divisa di Pechino. I vagoni della nuova metropolitana che collega Addis Abeba sono addobbati con bandiere etiopi e cinesi. Persino tra i paradisiaci altopiani del Lesotho si scovano operai con gli occhi a mandorla intenti a costruire l’ennesima diga. La penetrazione della Cina in Africa è ormai totale.
Agricoltura e energie verdi
Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, negli ultimi 10 anni il Celeste Impero ha portato a termine 1046 progetti, 2233 chilometri di ferrovie e 3350 di strade. E i cantieri non sono finiti, in corso d’opera ce ne sono altri 3030. Dal gigantesco progetto di rinascita del porto di Bagamoyo, in Tanzania, che una volta completato si trasformerà nel più grande scalo marittimo dell’Africa orientale, alla ferrovia di Tazara che collegherà Zambia e Tanzania. E pensare che l’anno appena trascorso sembrava quello della grande retromarcia. «Nella prima metà del 2015 gli investimenti cinesi in Africa sono caduti del 40% - conferma Elizabeth Sidiropoulos, a capo del South African Institute of International Affairs - ma il Presidente Xi Jinping, all’ultimo China-Africa Cooperation Forum, ha varato un nuovo piano industriale per agricoltura ed energie pulite e staccato un assegno da 60 miliardi di dollari in aiuti umanitari. Segnali che dimostrano la volontà cinese di continuare a investire in Africa».
Da sette anni Pechino è il primo partner commerciale del Continente Nero con 220 miliardi di dollari di merci scambiate (dati Fmi). Cifre raggiunte da Europa e Stati Uniti solo se sommate (137 miliardi per Bruxelles, 85 per Washington). Il modello comunista-capitalista cinese ha attratto estimatori fin dai suoi albori, nel 2004, quando si realizzarono i primi scambi con l’Angola. Petrolio in cambio di strade e ferrovie per ricostruire un Paese distrutto da una lunga guerra civile. Tutto finanziato da Exim Bank, la ricchissima banca statale cinese, e dal China-Africa Development Fund, un fondo specifico all’interno della China Development Bank. Soldi facili, immediati, prestiti a tasso zero (anche se in riduzione) e soprattutto non vincolati a riforme democratiche da attuare nel Paese ricevente, come prevedono invece gli assegni di Banca Mondiale e Fmi. «È importante, però, far notare che l’ammontare degli investimenti cinesi diretti in Cina non è così massiccio come viene descritto - afferma in controtendenza il capo del South African Institute of International Affairs. È sì cresciuto da 500 milioni di dollari a 30 miliardi di dollari in 15 anni, ma spesso si fanno passare prestiti bilaterali per investimenti diretti».
Gli aiuti umanitari
Per conquistare davvero l’Africa, il Celeste Impero ha capito di dover far leva sugli aiuti umanitari, dove gli Stati Uniti tra il 2000 e il 2013 hanno investito 6,6 miliardi di dollari, il triplo di Pechino. Così, nell’ultimo anno, Xi Jinping ha deciso di portare a 94 miliardi di dollari la quota destinata a progetti di cooperazione, il 52% di quanto la Cina investe in queste tipologie di finanziamenti. Denaro che aumenta in concomitanza di alcune mozioni strategiche proposte dal Dragone alle Nazioni Unite e su cui molti Stati africani si allineano. Una sorta di voto di scambio, secondo AidData, un think-thank americano di analisi e ricerca di BigData sui flussi di aiuti cinesi in Africa. Finanziamenti ancora oscuri e che uno studio realizzato dall’Alfred Weber Institute for Economics dell’Università di Heidelberg in Germania ha dimostrato come arrivino prima nelle regioni di provenienza dei leader africani e poi nel resto del Paese.
Nel duello per accaparrarsi l’Africa ai danni degli Stati Uniti Xi Jinping ha anche capito che la politica di non interferenza adottata fin qui non è più premiante. Inoltre gli sforzi diplomatici, soprattutto in Sud Sudan, non hanno dato i frutti desiderati. Così, oltre a un contribuito di 100 milioni di dollari per l’African Stanby Force, i caschi blu africani operativi da fine gennaio, e la promessa di più truppe cinesi per le operazioni di peace-keeping, dove gli Stati Uniti continuano a primeggiare, Pechino ha deciso di aprire la prima base logistica-militare in Africa, a Djibouti, guarda caso non lontano da Camp Lemonnier, insediamento a stelle e strisce con 4 mila uomini stanziati per le operazioni di intelligence nel Corno d’Africa.
Rimane, infine, il grande dilemma dell’integrazione tra popolazione locale e l’oltre milione di lavoratori cinesi sbarcati nel Continente Nero. Se i leader africani sembrano aver ormai sposato una «look east» policy, al contrario i cittadini non sembrano così inclini ad accettare quella che molti analisti hanno definito la seconda colonizzazione dell’Africa. Dalle miniere d’oro del Ghana, al Senegal, dal Kenya al Sudafrica sono già molteplici i casi di intolleranza nei confronti della comunità cinese accusata di usurpare ancora una volta beni e risorse del Continente più ricco del Pianeta.