Repubblica 4.1.16
Sangue, suolo e Grande spazio i “Quaderni neri” di Carl Schmitt
di Roberto Esposito
Dopo
la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger, l’edizione italiana
dei saggi di Carl Schmitt raccolti in Stato, grande spazio, Nomos per
Adelphi (egregiamente curati da Giovanni Gurisatti, con una postfazione
di Günter Maschke) ripropone la domanda sulla relazione ambigua tra
filosofia e politica. Che uso fare dei concetti di un grande giurista —
quale senza dubbio Schmitt è stato — coinvolto pesantemente nella
politica nazista? È possibile pensare contro di lui attraverso le
categorie interpretative che egli stesso fornisce? Benché l’antologia
comprenda una serie di testi distesi lungo l’arco di un cinquantennio —
da quelli degli anni Venti sul concetti del “politico” a quelli, degli
anni Cinquanta- Settanta, sul nuovo nomos della terra — i saggi che
pongono con più urgenza tale interrogativo sono gli scritti del periodo
della guerra, a partire da L’or-dinamento dei grandi spazi nel diritto
internazionale.
In esso, scritto quando già le armate tedesche
dilagavano a est e a ovest della Germania, l’autore legittima in termini
giuridici la politica di guerra nazista. Il grimaldello teorico
adoperato per smantellare l’ordine fissato dalla pace di Versailles e
difeso dalla Società delle Nazioni è il concetto di “grande spazio”.
Nato come estensione all’ambito mitteleuropeo della dottrina Monroe —
che sanciva l’indipendenza americana da qualsiasi ingerenza straniera,
consentendo di fatto l’espansione imperialistica degli Stati Uniti —
esso si adattava perfettamente alle finalità criminali del Terzo Reich.
Il punto di rottura dell’ordine giuridico precedente è giustamente
identificato da Schmitt nella rivendicazione di Hitler, fatta al
Reichstag il 20 febbraio del 1938, di un diritto alla tutela dei gruppi
etnici tedeschi viventi in Stati esteri. Essa presuppone la sostituzione
del concetto spaziale di impero (Reich) a quello, ormai considerato
residuale, di Stato. Diversamente da questo, stretto nei propri confini
nazionali, il grande spazio imperiale è un territorio sovranazionale
composto da una pluralità di nazioni subordinate, unite dalla identità
etnica del popolo che lo abita. A partire da un simile concetto,
apparentemente neutrale, Schmitt elabora il versante più scopertamente
strumentale del proprio discorso. Fin quando al centro dell’Europa è
mancato un grande spazio di quel tipo, il diritto degli Stati europei
non è stato che una copertura degli interessi delle democrazie
occidentali occupate a costituire i propri imperi coloniali. Ma con la
vittoria del nazionalsocialismo, anche in Europa si apre la possibilità
di una “grande politica”, secondo le ambizioni di un popolo legittimato
all’esistenza «dalla sua specie e dalla sua origine, dal suo sangue e
dal suo suolo». A tale aspirazione — scrive Schmitt — «l’azione del
Führer ha dato realtà politica, verità storica e un grande futuro nel
diritto internazionale». Solo adesso il popolo tedesco può finalmente
sfuggire alla morsa delle potenze nichilistiche dell’America e della
Russia sovietica che, come Heidegger sosteneva nella Introduzione alla
metafisica, stringono alla gola la Germania e l’Europa intera. Il che
non impedisce a Schmitt di legittimare il patto russo-tedesco del 1939
orientato a smembrare la Polonia. Nonostante le assicurazioni fornite da
Schmitt al processo di Norimberga circa il carattere puramente
scientifico dei propri saggi, la loro convergenza con la politica estera
nazista è palese. È vero che il “grande spazio” del giurista non ha il
significato inequivocabilmente razziale dello “spazio vitale” invocato
dai nazisti. Ma è lo stesso Schmitt a ricordare come a rendere operativo
il proprio concetto di spazio siano state le contemporanee ricerche
biologiche tedesche.
Del resto, a fugare ogni dubbio sugli effetti
del proprio discorso, egli non manca di ricordare che il rapporto tra un
popolo e il suo spazio risulti incomprensibile agli ebrei, in quanto
tali sempre sradicati e delocalizzati. Certo, anche nel caso di Schmitt,
si può parlare, come fa Donatella de Cesare per Heidegger nel suo
Heidegger e gli ebrei, di antisemitismo metafisico. Ma ciò non assolve
l’autore dalle sue responsabilità. Ciò vuol dire che va messo
all’indice? Sarebbe come dire che l’Emilio di Rousseau va dato alle
fiamme perché il suo autore ha abbandonato i propri figli in
orfanotrofio. Al contrario, i suoi paradigmi, alcuni dei quali
straordinariamente attuali, come quello stesso di “grande spazio”, vanno
adoperati anche contro le sue stesse intenzioni. Che la categoria di
Stato sovrano sia inadeguata alla comprensione del mondo contemporaneo è
un dato di fatto. Così come l’idea che l’unico ordine mondiale
accettabile sia un difficile equilibrio tra aree di grandezza
continentali in dialogo tra loro. Non è a essa che anche l’Europa Unita,
se mai diverrà tale, deve ispirarsi? Come Schmitt stesso dovrà
riconoscere nel 1955, pur senza aver mai preso le distanze dalle tesi
precedenti, «anche nella lotta spietata tra le nuove e le vecchie forze
possono nascere giuste misure o formarsi proporzioni sensate».