domenica 31 gennaio 2016

Repubblica 31.1.16
I tabù del mondo
Quando la donna sceglie il desiderio e diventa Antigone
L’eroina tragica immortalata da Sofocle, la sorella disposta a morire pur di non tradire l’affetto cieco per il fratello, è il simbolo eterno dell’urgenza dei vincoli familiari contro l’astratto universalismo della legge. E di un universo assoluto che elimina ogni dialettica, mediazione o compromesso
di Massimo Recalcati


Antigone è una delle figure più intense e commentate della tragedia greca. Attraverso questa giovane donna Sofocle, dopo aver descritto in Edipo la figura drammatica del figlio assoggettato a un destino tanto spietato quanto inesorabile, ritrae la figura della sorella, l’icona, il simbolo della fratellanza. La differenza profonda tra Edipo e Antigone è che il primo dominato dall’inconscio — Edipo non sa né quello che fa, né chi è — mentre la seconda sa agire con piena determinazione: per Hegel è «senza inconscio». Mentre Edipo è giocato beffardamente dai suoi atti e più prova a svincolarsi dal suo destino di figlio parricida e incestuoso e più i lacci del destino stringono la loro presa, Antigone è la figura più pura della decisione. Se in Edipo, infatti, ogni decisione si rivela impotente a modificare il destino già scritto nella profezia dell’Oracolo, in Antigone è la decisione stessa che diventa un destino.
Il nucleo della tragedia di Sofocle è costituito, come ha indicato Hegel, dall’opposizione irriducibile di due Leggi: quella diurna e universale della Città — della Polis — e quella notturna e singolare del legame familiare. Il fratello, Polinice, ha tradito schierandosi coi nemici rimanendo ucciso in combattimento alle porte della città. La Legge dello Stato stabilisce che gli sia negata la sepoltura. Il rappresentante di questa Legge, Creonte, non ammette eccezioni: egli è il simbolo di una Legge inumana che esige la sua applicazione cieca, di una Legge che non sa includere la grazia, il diritto dell’eccezione. È contro questa Legge che si muove Antigone, nel nome di un’altra Legge, quella della fratellanza, della famiglia, dell’amore che esige la pietas, il diritto di dare sepoltura al corpo straziato del fratello morto. Nella sua celebre lettura della tragedia sviluppata nella Fenomenologia dello spirito, Hegel insiste nel mostrare l’assenza di flessibilità dialettica in questo scontro dilemmatico tra due Leggi che vogliono essere entrambe assolute. La lettura di Lacan — sviluppata nel Seminario VII titolato L’etica della psicoanalisi — sposta invece l’attenzione sulla hybris più specifica di Antigone: la sua inflessibilità. In quanto figura estrema del desiderio, ella non cede, non sbanda, non vacilla, non dubita. È una giovane donna, dalle parvenze fragili, che però si presenta capace di assumere sino in fondo tutte le conseguenze della propria decisione. Antigone non retrocede rispetto al proprio desiderio, non difende l’interesse particolare della propria vita, non si risparmia, non calcola, non pianifica, non tergiversa. Il suo moto è animato a senso unico da un amore per il fratello che non conosce limiti, nemmeno quello della morte. In questo senso, come afferma Lacan, è una figura dello “sconfinamento”: seguire con decisione la Legge del proprio desiderio può significare entrare in contrasto con la Legge della città. Non è quello che accade nell’epilogo tragico di Million dollar baby di Clint Eastwood dove il vecchio allenatore di pugilato Frankie decide, contro la Legge della città, di accompagnare verso la morte Maggie condannata, da un colpo vigliacco ricevuto nel suo ultimo combattimento per il titolo mondiale di boxe femminile, a vivere completante paralizzata in un letto d’ospedale? Donare la morte a chi più si ama al mondo non evoca forse il carattere estremo del gesto di Antigone? Se Lacan insiste nel sottolineare il carattere antidialettico, solitario, tragico, del gesto di Antigone non è forse per mostrarci che quando è in gioco il nostro desiderio, siamo sempre messi a confronto con le conseguenze dei nostri atti? Non accade, come per Antigone, di essere esposti al rischio dello sconfinamento, al rischio di perderci, di finire nella fossa? È questo, infatti, il destino che Sofocle assegna alla sua eroina: non cedere sul suo desiderio, non indietreggiare sulla propria verità, comporta per Antigone la condanna a essere sepolta viva.
Ma Antigone non scende a patti, non media, non vuole mettere in discussione la sua decisione, resta inflessibile e dura come una pietra. Preferisce discendere all’inferno piuttosto di vivere vedendo offesa la memoria del fratello amato. Il suo desiderio è così radicale da sconfinare verso la morte. È ciò che motiva la particolare fascinazione che emana la sua figura. Ella ci insegna che gli esseri umani sono esseri di desiderio e non esseri che si limitano a sopravvivere. Antigone oltrepassa ogni concezione utilitaristica dell’esistenza: sacrificando la sua vita per onorare simbolicamente Polinice ella si spinge sino a spezzare il tabù della morte.
È questo il suo passo più vertiginoso: la vita in sé — privata della sua dignità umana — non è vita che vale la pena di vivere. In questo senso l’inflessibilità di Antigone si ricollega ad un altro gesto che la mitologia greca ha scolpito in modo indimenticabile: quello del filosofo Empedocle che decide di gettarsi nel cratere ardente dell’Etna. Anche in quel gesto si evidenzia che la vita umana non può essere ridotta alla vita animale. Il “No!” alla vita del filosofo rivendica l’umanità della vita al di là della sua semplice presenza. È la lezione tragica che possiamo ricavare dal sorriso smarrito con il quale Antigone si congeda per sempre dal mondo.
SUL SITO
“I tabù del mondo” è anche online all’indirizzo temi. repubblica.it/repubblicaspeciale-tabu- del-mondo

Corriere 31.1.16
Il disgelo tra Santa Sede e Pechino
Svolta nei rapporti Vaticano-Cina Francesco nominerà 3 vescovi
Sarà il Pontefice e non il governo a nominare i prelati delle sedi vacanti
E’ la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Stati
di Paolo Salom


L’annuncio è pronto, probabilmente già sulla scrivania del Papa. In Vaticano non nascondono la soddisfazione. Perché, per la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica Popolare, sarà il Pontefice a nominare i nuovi vescovi (probabilmente tre) di sedi vacanti in Cina. Questo il frutto di un intenso, quanto discreto lavoro diplomatico iniziato tra grandi diffidenze e difficoltà sotto Benedetto XVI e proseguito con passo più spedito dall’elezione di Francesco. Più volte nel corso degli ultimi anni, delegazioni pontificie sono state accolte a Pechino e inviati dell’Impero Celeste hanno fatto la loro comparsa al di là delle mura vaticane. L’ultima trattativa risale alla scorsa settimana. Due giorni in cui i rappresentanti delle due parti hanno affrontato con un pragmatismo condiviso dalla tradizione gesuita e da quella cinese le questioni aperte: dalla più semplice a quella più complessa. Per ora, fanno sapere in Vaticano, è stato convenuto di risolvere un’annosa questione riguardo la nomina dei vescovi, come noto prerogativa del Papa cui i nuovi pastori devono obbedienza. Il risultato convenuto sarebbe questo: Pechino sottopone al Vaticano una lista di nomi «graditi» e tra questi il Pontefice identifica e annuncia il nome prescelto.
La Chiesa Patriottica
Il passaggio, al di là delle apparenze, è decisivo. Perché quando i rapporti erano più freddi, se non ostili, era la Chiesa Patriottica, ovvero l’organizzazione ufficiale dei fedeli cattolici dipendente dal governo di Pechino, a scegliere e nominare i vescovi senza nemmeno consultare la Sante Sede. A suo tempo, Giovanni Paolo II aveva ricordato come i pastori così scelti si sarebbero dovuti considerare automaticamente scomunicati. Più di recente, il riavvicinamento tra Vaticano e Impero Celeste aveva portato a un meccanismo (tacito) più accettabile per Roma: la Chiesa Patriottica avrebbe scelto i nuovi vescovi da una rosa gradita in San Pietro. Un processo che aveva portato Benedetto XVI, dopo alcune asperità, a dichiarare che la «quasi totalità» dei vescovi nominati in Cina «sono ormai in comunione piena con la Santa Sede». Ora il meccanismo si ribalta. E, punto nodale, non è qualcosa di semplicemente «tollerato» (perché male minore) ma il frutto di un accordo raggiunto e accettato da entrambe le parti in causa. Inoltre non è che il primo di una serie di passi (aperture?) che i più ottimisti inseriscono in un percorso che si concluderà entro la fine di quest’anno con l’annuncio della ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche, sessanta e più anni dopo la fuga da Pechino (1952) del Nunzio Apostolico.
Il «nodo» Taiwan
Contemporaneamente, il Vaticano dovrà ritirare il suo riconoscimento a Taiwan, «conditio sine qua non» imposta da Pechino a chiunque voglia inviare un ambasciatore sotto la Grande Muraglia (sono 23, al momento, compresa la Santa Sede, i Paesi che hanno relazioni con l’«isola ribelle» e non con la Madre Patria).
In Cina nel 2017?
Dunque non è impossibile immaginare, forse nel 2017, un viaggio di papa Francesco in Cina, un viaggio che cambierebbe la Storia della Chiesa e dell’Asia: mai un Pontefice ha potuto mettere piede sul suolo del Paese di Mezzo. Ad attendere questo momento, i 4 milioni di cattolici iscritti nell’Associazione patriottica cinese (insomma, la Chiesa di regime) e, soprattutto, i 16 milioni di seguaci della Chiesa clandestina, fuori legge e ufficialmente «sovversiva» perché da sempre fedele a Roma.
È proprio questo il nodo più difficile da sciogliere: la questione della fedeltà a un «governo straniero», considerata cosa empia nella Repubblica Popolare, fondata da Mao sulle ceneri di un Paese che era stato preda per secoli delle mire colonialiste delle Potenze Occidentali e non solo. Ma, se è corretto quanto trapela, e cioè che entro fine anno tutto sarà sistemato, è lecito ritenere che anche questa (spinosa) questione è stata affrontata. E qualcuno ha suggerito come superarla.

Corriere 31.1.16
Da Matteo Ricci a Francesco, il filo che lega due imperi
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO Isola di Sanciano, 3 dicembre 1552, poco dopo mezzanotte: in una capanna, vegliato da un amico cinese, padre Francesco Saverio, primo missionario gesuita, muore guardando a un paio di miglia il «Regno di Mezzo». Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, lo aveva inviato in Oriente nel 1540 e lui aveva capito che per diffondere il Vangelo bisognava ad ogni costo raggiungere quel Paese immenso per dimensioni, storia e cultura, arrivare al cuore dell’Asia: un sogno compiuto trent’anni più tardi da Matteo Ricci, il confratello che conquistò la stima dei cinesi scrivendo nella loro lingua il trattato Dell’amicizia e disegnando un mappamondo che, nel 1584, metteva al centro la Cina, non l’Europa. Bisogna partire da qui, per capire la portata del dialogo in corso tra due realtà millenarie. Il primo Papa gesuita della storia sa come Francesco Saverio che «il futuro della Chiesa è l’Asia» e la Cina ne è il centro, «se ci andrei? Domani!».
Non è stato facile arrivare fino a questo punto, come dimostrano le vicende degli ultimi sessant’anni, ed ora è il momento più delicato. Le persecuzioni e l’espulsione di vescovi e missionari risalgono agli anni Cinquanta, sotto il regime di Mao: la nascita dell’Ufficio per gli Affari Religiosi e della «Associazione patriottica » controllata dal Partito, nel ‘58 le prime due ordinazioni senza mandato episcopale, vescovi e sacerdoti arrestati. Eppure «la Santa sede non ha mai usato la parola “scisma”», ricordava poche settimane fa l’arcivescovo Claudio Maria Celli, uno dei massimo esperti di Cina in Vaticano. La diplomazia della Santa Sede non chiude mai la porta. Già allora vescovi «di regime» scrivevano in segreto al Papa. Le cose hanno iniziato a cambiare negli anni Ottanta, con le riforme di Deng Xiaoping. Riaprirono chiese, seminari e case religiose. E cominciarono pure le prime resistenze, sia nella burocrazia cinese sia in quella ecclesiastica. Anche nella Chiesa si sono confrontate un’anima più «agonistica», guidata dall’anziano cardinale Joseph Zen, ed una più dialogante. Chi proseguiva la polemica contro il regime e marcava la differenza con la «Chiesa ufficiale» e chi, come osserva l’arcivescovo Celli, insisteva sul fatto che «in Cina esiste una sola Chiesa cattolica con una comunità ufficiale ed una clandestina». Oggi i confini sono sfumati, e la Radio Vaticana diffonde ogni giorno in cinese le parole del Papa, senza censure.
Un punto di svolta è stata la lettera del 2007 nella quale Benedetto XVI si rivolgeva «a tutta la Chiesa che è in Cina» auspicando «un accordo con il governo» sulla nomina dei vescovi. Pietro Parolin, che con Francesco sarebbe divenuto Segretario di Stato, ebbe già allora un ruolo fondamentale e per due volte guidò trattative riservate a Pechino. Poi nel 2009 fu trasferito come nunzio in Venezuela. Allora i vescovi in comunione con Roma erano arrivati a 110 su 115. Dal 2010 ricominciarono le ordinazioni illegittime, quattro in tutto. Nel 2013 Francesco ha nominato il cardinale Parolin alla guida della diplomazia vaticana e le trattative sono riprese. Il resto è la telefonata del Papa al presidente cinese XI appena eletto, il permesso di attraversare lo spazio aereo della Cina nel volo di Francesco verso Seul, nel 2104, con relativo scambio di telegrammi, gli incontri tra delegazioni ed il consenso della Santa Sede ad una nomina episcopale, in autunno. La storia dirà se a Bergoglio toccherà la sorte di Francesco Saverio o di Ricci, ma l’accordo non è mai stato così vicino.

Repubblica 31.1.16
Gerusalemme.
Israele, la campagna dell’estrema destra contro gli intellettuali da Grossman a Oz
Manifesti contro le icone della cultura
Finanziamenti negati a chi non esprime “lealtà” allo Stato
di Steven Erlanger


GERUSALEMME BATTAGLIE per libri, musica, commedie, finanziamenti e onorificenze accademiche: quando avvengono in Israele, queste lotte diventano di natura esplosiva perché generano accanite e feroci discussioni su democrazia, fascismo e fanatismo, identità, destino degli ebrei. Qui, quasi ogni settimana si apre un nuovo fronte nei conflitti culturali e la società intera ne è profondamente scossa. L’ultima battaglia è di mercoledì scorso, con un attacco sferrato da un gruppo di estrema destra alle amate icone letterarie della sinistra.
TRA questi Amos Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman, scrittori considerati da anni la voce e la coscienza dello Stato israeliano. Il gruppo “Im Tirtzu” ha dato il via a una campagna a colpi di cartelloni nei quali definisce gli scrittori «talpe nella cultura», innescando accuse di maccartismo.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu e numerosi membri della sua coalizione conservatrice si sono uniti al coro di condanna nei confronti di chi denigra questi pilastri della culturali israeliana. Eppure, alcuni di questi stessi ministri hanno preso parte a molte altre battaglie di questo tipo: in particolare Miri Regev, ministra della Cultura e dello Sport, di negare gli aiuti statali alle istituzioni che non esprimono “lealtà” a Israele. Secondo un poeta molto noto, Meir Wieseltier, questa legge «ci avvicina all’ascesa del fascismo». Ma sul Jerusalem Post Isi Leibler ha detto che il governo «non è obbligato a offrire sussidi a chi demonizza la nazione».
L’incessante susseguirsi di conflitti di questo tipo è parte di una battaglia politica per cui i politici di nuova generazione vogliono conquistare la posizione di leader del campo nazionalista. Fra loro Miri Regev, 50 anni, potenza nascente nel Likud; Ayelet Shaked, 39 anni, donna senza peli sulla lingua di Jewish Home e Naftali Bennet, 43 anni, ministro dell’Istruzione e capo di Jewish Home.
L’Israele che tutti loro rappresentano è più religioso, meno ossequiente verso i valori e l’eredità della vecchia élite europeizzata, e soprattutto è sempre meno a sinistra. «Non siamo in presenza di un semplice conflitto culturale: qui sono in gioco l’aspetto politico, demografico e sociale di Israele» dice Nahum Barnera, uno dei giornalisti più influenti di Israele. Per Yossi Klein Halevi, esperto dello Shalom Harman Institute, le guerre culturali riflettono «la crescente sensazione di assedio » che Israele avverte. «Si sono innescati profondi timori nella psiche degli ebrei, paure da cui il sionismo aveva cercato di affrancarci» spiega. Secondo lui, invece di sentirsi come se vivessero «in una nazione normale tra altre nazioni», molti israeliani si starebbero dirigendo di nuovo verso «una versione statalista del vecchio ghetto ebraico, e sempre più spesso Israele reagisce considerando quanti tra i nostri concittadini sono ritenuti in combutta con questo processo di assedio, o di incoraggiarlo, alla stregua di collaboratori ». A gennaio il quotidiano di sinistra Haaretz ha portato alla ribalta i dibattiti interni al ministero su quali opere debbano essere considerate «indesiderate per motivi politici» e quindi proibite agli studenti delle superiori. Tra i vari criteri presi in considerazione, ha spiegato il quotidiano, c’è il fatto di capire se gli artisti si esibiscono negli insediamenti in Cisgiordania e se dichiarano lealtà allo »tato e all’inno nazionale, atteggiamenti particolarmente complicati per i cittadini arabi di Israele. La ministra della Cultura è sistematicamente derisa dalla sinistra per aver raccontato al quotidiano Israel Hayom di «non aver mai letto Céchov, e di non aver mai assistito da giovane alle sue commedie», ma di aver ascoltato «canzoni sefardite ».
Dal canto suo Bennett ha imposto agli esperti del ministero dell’Istruzione di togliere dall’elenco delle letture per i licei, e proibirne la diffusione, un romanzo che narra la storia d’amore tra una donna israeliana e un giovane palestinese. A quanto sembra, lo ha fatto nel timore che il libro possa promuovere l’assimilazione. La storia d’amore, in verità, si svolge all’estero: la coppia infatti si divide quanto torna a casa, lei in Israele e lui in Cisgiordania. Secondo Bennett, il romanzo Borderlife di Dorit Rabinyan infama l’esercito israeliano, e il capo della commissione ministeriale dice che «potrebbe istigare all’odio e scatenare tempeste sentimentali nelle classi».
(Copyright New York Times News Service - Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere 31.1.16
Ruini: un’intesa è possibile
«Ora un accordo sulla legge è possibile — dice al Corriere il cardinale Camillo Ruini —. Non è detto che noi cattolici siamo sempre sconfitti».
intervista di Aldo Cazzullo


ROMA Eminenza, vediamo il Family Day su Sky o su Rainews24? «Le dispiace se mettiamo Tv2000, la tv dei vescovi? Sembrava non dovessero trasmetterlo, invece...». Lo speaker annuncia: «Siamo due milioni!». Il cardinale Camillo Ruini, 84 anni, per 17 vicario di Giovanni Paolo II, sorride: «Due milioni mi sembrano un po’ tanti...». Prende la parola il portavoce, Massimo Gandolfini, neurochirurgo. «Un personaggio interessante, lo vorrei conoscere. Due neurologi mi hanno spiegato che le adozioni sono dannose non solo per il bambino ma anche per le persone omosessuali, che ne soffrono molto». Poi d’un tratto, davanti alle immagini dall’alto del Circo Massimo, i suoi occhi si arrossano e si riempiono di lacrime: «Una folla immensa. Come quella che si radunò per Cofferati, contro l’articolo 18. Però questi non avevano un soldo da spendere. Persone semplici...». Ruini è commosso. Ma subito riprende a parlare con la lucidità chirurgica con cui ha guidato i vescovi italiani.
Cardinale, come mai non va al Circo Massimo?
«Anzitutto per motivi fisici. Sono molto anziano e fatico a stare in piedi a lungo, come vede. E poi penso di aver già dato al Family Day tutto il sostegno che potevo con i miei interventi pubblici».
Il primo fu quando disse al «Corriere» che, se si fosse andati avanti con la legge, ci sarebbero state grandi manifestazioni. Come mai ne era così certo?
«C’era già stata quella del 20 giugno. Soprattutto, c’è nel Paese una diffusa contrarietà al matrimonio, o simil matrimonio, tra persone dello stesso sesso; in particolare all’adozione da parte di questo tipo di coppie, e alla pratica dell’utero in affitto».
L’utero in affitto resta vietato.
«Ci si nasconde dietro l’espressione inglese “stepchild adoption” per negare la realtà. Come fanno altrimenti due uomini ad avere un figlio?».
Una legge sulle unioni civili esiste in tutta Europa. Perché proprio l’Italia dovrebbe fare eccezione?
«Una legge sulle unioni civili si può senz’altro fare. In Parlamento praticamente tutti si dichiarano favorevoli, e di fatto gran parte di questi diritti anche in Italia esiste già, a seguito di decisioni della magistratura. Ma è importante che i diritti siano attribuiti alle persone che formano le coppie, non alla coppia come tale, per evitare equiparazioni al matrimonio».
Anche l’Europa denuncia il ritardo italiano.
«L’Europa tende purtroppo ormai da parecchi anni a trascurare il principio di sussidiarietà. Cerca di rendere uniformi norme e situazioni che sono legittimamente diverse nei singoli Paesi. E fa troppo poco in quelle materie come la politica estera, la difesa, ora in particolare la questione degli immigrati, in cui solo l’Ue può agire con efficacia».
È sicuro che la situazione in Italia sia diversa rispetto al resto d’Europa?
«La pressione c’è anche da noi. Qui però si è riusciti a resistere».
La Chiesa ha perso molte battaglie, dal divorzio all’aborto. Lei vinse quella sulla fecondazione assistita, ma la Consulta ha smontato la legge che lei difese. Non è che contro la modernità non si può fare nulla?
«Non c’è una sola modernità. C’è quella cui lei si riferisce, e che nei Paesi occidentali gode di una vera egemonia culturale. Ma c’è anche un’altra modernità, nel vasto mondo e pure nei nostri Paesi. È la modernità che vediamo oggi al Family Day. Una modernità che fa nascere figli, contrastando la crisi demografica che si sta mangiando l’Europa. Una modernità che ha fiducia nel futuro e crede nei legami sociali. Senza di essa, anche la modernità oggi egemone avrebbe poche speranze».
Che cosa intende dire?
«Che la folla del Family è una risorsa da non disperdere, per il bene del Paese».
Ma i vescovi all’inizio hanno esitato; poi la mobilitazione delle parrocchie li ha indotti a muoversi. O no?
«Mi pare una lettura un po’ semplicistica. I vescovi sono preoccupati di lasciare l’iniziativa ai laici, com’è giusto; ma nella sostanza non hanno fatto mancare il loro consenso. E non poteva essere diversamente».
Ora cosa accadrà in Parlamento? È più difficile per un parlamentare cattolico votare la legge?
«Questo non sono in grado di prevederlo. Credo però che tutti i parlamentari, non solo quelli cattolici, farebbero bene ad ascoltare questa manifestazione; che non è il frutto di una forte organizzazione, ma del sentire di gran parte del nostro popolo».
È ancora possibile un compromesso?
«Direi che è possibile, o almeno sarebbe possibile, un vero accordo, se oltre a stralciare le adozioni si togliessero i tanti riferimenti al diritto matrimoniale e al diritto di famiglia. Altrimenti si apre la strada all’equiparazione, attraverso le decisioni della magistratura».
È deluso da Renzi?
«Lei sa che non esprimo mai giudizi sulle personalità politiche».
È un premier cattolico. Come lo era Prodi, di cui lei celebrò il matrimonio e battezzò i figli, prima dello scontro sui Dico.
«Romano Prodi rimane per me un amico come, ne sono sicuro, io per lui. Le divergenze su alcune questioni non significano la fine di un’amicizia che tra Romano e me ha radici molto profonde».
E Renzi?
«Rispondo solo che da Renzi come da altri politici continuo ad aspettarmi scelte positive, per le quali non è mai tardi».
Ci sono quindi i margini per un accordo.
«Se si vuole, ci sono eccome. Bisogna avere la volontà di essere disposti a fare modifiche profonde».
Se invece la legge dovesse passare, si farà un referendum per abrogarla?
«Mi pare un po’ presto per parlare di referendum. Adesso l’impegno e la speranza sono di evitare che sia fatta una cattiva legge, e che sia invece approvata una legge equilibrata e largamente condivisa dai parlamentari e dalla sensibilità comune».
Sta dicendo che non si può fare come se non ci fosse stato il Family Day?
«Questo si vedrà. Certo sarebbe strano che non se ne tenesse conto».
Ma non era meglio tenersi i Dico?
«È vero che non contenevano certe forzature dell’attuale disegno di legge. Ma se fossero stati approvati non sarebbero stati il punto d’arrivo, come non lo sarebbe nemmeno l’attuale disegno di legge. Il vero traguardo è la totale parificazioni delle coppie omosessuali a quelle eterosessuali; come riconoscono apertamente i promotori più decisi di queste rivendicazioni, e com’è già accaduto in molti altri Paesi».
È sempre convinto che «l’ondata libertaria defluirà come è defluita quella marxista degli anni 70»?
«Lo penso sempre, e questa giornata lo conferma. L’omosessualità è sempre esistita, ma il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una novità assoluta rispetto a ogni epoca e a ogni cultura».
Il Papa ha ribadito che non si deve confondere la famiglia tradizionale con le altre, però la sua non è parsa una chiamata alle armi, un modo per indurre i cattolici a fare opposizione. O no?
«In parte sono d’accordo con lei. È sbagliato estrapolare le parole dei Papi — adesso Francesco, prima Benedetto, Giovanni Paolo II, Paolo VI — dal loro contesto e applicarle direttamente ai problemi italiani del momento. Questo non significa che i Papi ciascuno con il suo stile non abbiano molto a cuore questi problemi, e non chiedano a tutti, in particolare ai cattolici, una posizione chiara».
Ma Francesco mette l’accento sui temi sociali più che su quelli etici, non trova?
«Certo, il Papa ha la sua sensibilità, ha l’esperienza da cui viene, che lo induce a privilegiare le situazioni di povertà estrema: le periferie del mondo. Questo non vuol dire che non sia sensibile all’“ecologia umana”, come la chiama lui. Infatti si è espresso più volte in difesa del matrimonio e dei figli».
Però non guida questo movimento. Paolo VI contro il divorzio l’aveva fatto.
«Non vuole guidarlo, né vuole che sia guidato dai vescovi, ma dai laici. Paolo VI era un Papa italiano, aveva una forte percezione delle cose italiane; si impegnò, e dopo la sconfitta rimproverò i cattolici del dissenso. Ma anche lui preferiva che a guidare fossero dei laici».
Agli omosessuali cosa si sente di dire?
«Che non soltanto non sono ostile alle persone omosessuali, ma ho avuto fin da giovane autentiche amicizie con qualcuno di loro. E chiaramente tutte le persone hanno integralmente i diritti che competono alla persona come tale, a partire dal rispetto che è loro dovuto».
Cosa le resta di questa giornata?
«Una conferma: non è detto che siamo sconfitti. Le partite sono sempre aperte. Ha anche ragione lei: c’è un’altra modernità; ma ci siamo anche noi. E tanta gente in chiesa va poco, ma su queste cose la pensa come noi» .

Corriere 31.1.16
Monsignor Semeraro: non ho obiezioni a dare consistenza giuridica a queste unioni
«Abbiamo il dovere di tenere aperti i ponti. Ma no alle adozioni»
intervista di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO  E adesso?
«E adesso, come cattolici, abbiamo il dovere di tenere sempre aperti i ponti, il dialogo, l’approfondimento…». Monsignor Marcello Semeraro, vescovo di Albano, è una delle persone più vicine a Francesco. Il Papa lo ha nominato segretario del suo «Consiglio» di cardinali e lo ha voluto nella commissione per la relazione finale del Sinodo sulla famiglia. Non era in piazza, «del resto ho visto che c’erano alcuni ecclesiastici, ma il punto non è questo».
E qual è, eccellenza?
«È giusto che l’organizzazione fosse dei laici, non dei vescovi. Io seguo le indicazioni del Santo Padre. Francesco ha detto alla Chiesa italiana di prendersi le sue responsabilità, senza aspettarsi ogni volta la benedizione del Papa. Lo stesso vale per i laici: hanno la loro responsabilità, non devono aspettare che siano i vescovi ad organizzarli».
La piazza divide?
«Direi che aiuta ad avere consapevolezza del problema, l’importanza della famiglia, soprattutto in un momento in cui la politica sembra aver perduto ogni contatto con la realtà. Dipende da come si va in piazza, del resto. Il rischio è sempre quello di contrapporsi anziché proporre. Ma mi pare che le cose non siano andate così. Ho notato che negli interventi si è molto insistito sul problema delle adozioni, più che sulle unioni civili, semmai sul fatto che sia inaccettabile equipararle al matrimonio tra uomo e donna».
E le unioni civili in sé?
«Ritengo legittimo, per una società, trovare forme di garanzia. In linea di principio, non ho obiezioni al fatto che sotto il profilo pubblico si dia consistenza giuridica a queste unioni. Mi sembra che la reazione riguardi il tema della generatività, le adozioni, non il riconoscimento pubblico delle unioni. L’importante è che non vengano assimilate alla realtà del matrimonio».
È stato un errore, per i vescovi, fare le barricate contro i Dico, nel 2007?
«Eh, la storia non si fa con i se. È probabile che allora ci fosse bisogno di un discernimento differente. Ora ci ritroviamo allo stesso punto, con in più le istanze sull’adozione...».
Si dice: è doveroso che, se muore il genitore biologico, il partner adotti il figlio...
«Una norma non può comprendere tutti i casi possibili, si può risolvere caso per caso a livello di giurisprudenza. Ma le preoccupazioni per la stepchild adoption sono legittime, come i timori che si finisca per aprire a pratiche inaccettabili come l’utero in affitto. Mi meraviglio non emerga la voce di persone competenti, il valore fondamentale della differenza sessuale nella crescita dei bambini».
Cosa preoccupa nella «equiparazione»?
«Che le famiglie siano oscurate e si confonda la loro identità in una marmellata dove tutto è uguale. Mi sconcerta chi accusa di “omofobia” l’affermazione dei valori della famiglia, così come ogni discriminazione verso le persone omosessuali. C’è un problema antropologico, ha spiegato il cardinale Bagnasco. Credo sia il momento di affrontarlo: di approfondire senza liti, ma portando ragioni».

Corriere 31.1.16
Il governo si affida alla conta in Senato
Il ministro Costa: passione civile, ma niente forzature. E il pd Guerini: dibattito ampio poi sulla legge si vota
di Alessandra Arachi


ROMA Dalla piazza del Family Day è arrivato un «no» secco alla legge Cirinnà. Ma dal governo il primo a rispondere è il neo ministro con delega alla Famiglia, Enrico Costa, Ncd: «Ho grande rispetto per le persone che hanno manifestato in piazza, tanta passione civile. Ma questa è una materia parlamentare e in Parlamento niente forzature. Sulle unioni civili ci vuole pazienza, dobbiamo partire dai punti condivisi».
Già, i punti condivisi. Il meno condiviso è la “stepchild adoption”, cioè la possibilità di adottare il figlio biologico del partner. Nel Pd lo contestano una trentina di senatori cattolici e hanno presentato un emendamento per trasformare l’adozione in un «affido rafforzato». Su questo è ancora in piedi un tentativo di mediazione, grazie ad un emendamento firmato dai senatori Andrea Marcucci e Giorgio Pagliari: tra affido e adozione puntano ad un pre-affido di due anni. Ma la verità è che all’interno del Pd si spera che i trenta senatori cattolici siano disponibili a votare la legge, anche se la mediazione non funzionerà.
«Compito della politica è ascoltare tutti, confrontarsi con tutti», ha detto Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd, commentando il Family Day. E ha aggiunto: «Sulle unioni civili ci sarà un dibattito largo e approfondito e poi il parlamento voterà». Ma il punto è che su questa legge delle unioni civili le possibilità di modifica sono davvero poche, visto che la coperta è davvero molto corta, da qualunque parte la si tiri: se si cambia (o si stralcia) la “stepchild adoption”, vengono a mancare i voti di Cinque Stelle e di Sel e di contro non si è affatto sicuri di acquistare i voti dell’Ncd che di diritti alle coppie omosessuali non ne vuole sentire parlare, limitandosi a riconoscere i diritti individuali del codice civile.
Oltre al «pre affido», margini per limare e modificare ci sono ancora con gli emendamenti del cosidetto «pacchetto Lumia», ovvero di Giuseppe Lumia capogruppo del Pd in commissione Giustizia: tolgono i rinvii agli articoli del codice civile sul matrimonio e riscrivono, elencandoli, i diritti.
Vale la pena di ascoltare quello che Andrea Marcucci, il più renziano dei senatori pd, ha detto: «Rispetto assoluto del Family Day, ma il Parlamento non farà un passo indietro sulle Unioni civili». E il capogruppo alla Camera Ettore Rosato, secondo il quale «la piazza non cambia l’iter della legge ma non è mai successo che un provvedimento uscisse dal Parlamento identico a come è entrato».

Repubblica 31.1.16
Il Pd insiste sulla legge ma nel voto segreto adozioni a rischio
Guerini: la piazza va rispettata ma noi dobbiamo decidere. Le preoccupazioni dei dem. Il ruolo del M5S
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA. Nel governo e nel Pd le voci sono univoche: la piazza del Circo Massimo non cambia il cammino fatto fin qui sulle unioni civili. Chi fa il confronto con il 2007, con quel Family Day che riempì piazza San Giovanni e affossò il cammino dei Dico (le unioni civili del tempo), nota più di una differenza: allora il fronte era più largo e l’intervento della Chiesa ancora più deciso. Quel giorno c’erano Silvio Berlusconi, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella. Beppe Fioroni e Mara Carfagna. Daniela Santanchè e Giulio Andreotti. C’era perfino il giovane presidente di provincia Matteo Renzi, che ieri ha preferito parlare di Europa nel posto in cui il sogno europeo è nato - a Ventotene - piuttosto che soffermarsi a commentare migliaia di persone che gli dicono #renziciricorderemo usando un hashtag che vorrebbero fosse virale.
Così, prima delle sei di sera, è una nota di Lorenzo Guerini a spiegare come la maggioranza di governo intenda muoversi. «Quando tante persone scendono in piazza per esprimere con civiltà le proprie opinioni - dice il vicesegretario del Pd - è segno che la democrazia è viva». Ma «è successo oggi come è successo la scorsa settimana. Compito della politica è ascoltare tutti, confrontarsi con tutti e poi assumersi la responsabilità della decisione». Dice Guerini che sulle unioni civili «ci sarà un dibattito largo e approfondito e poi il Parlamento voterà ». Ricorda le misure prese dal governo a sostegno della famiglia. E insomma, annuncia che la direzione non cambia di un millimetro.
Il disegno di legge arriva in aula al Senato domani, quando si voteranno le pregiudiziali di costituzionalità. Nei giorni successivi ci saranno la discussione generale e le votazioni su tutti gli articoli. Quelli che non dovrebbero rischiare nulla, dopo la mediazione portata avanti negli ultimi giorni, sono il 2 e il 3. Gli emendamenti a prima firma Lumia rispondono ai timori fatti pervenire dal presidente della Repubblica, quindi separano bene l’unione civile dal matrimonio eliminando ogni rimando automatico all’articolo 143 del codice civile. Sono stati scritti in modo da tenere compatto tutto il Pd. Dovrebbero avere l’avallo anche di Sel e Movimento 5 Stelle (che - a sentire chi se ne sta occupando – rifiuta ogni modifica sostanziale, ma non intende attaccarsi alla forma). Col voto segreto - secondo i democratici - potrebbero essere appoggiati perfino da parte dell’Ncd e di Forza Italia. «Quelle modifiche non cambiano il testo, lo precisano», dice il sottosegretario alle Riforme (tra pochi giorni allo Sviluppo Economico) Ivan Scalfarotto. «Si fa un’operazione di tecnica legislativa che non contiene nessuna modifica nel merito. Ogni ulteriore cambiamento però mette a rischio la legge, che è già prudente perché abbiamo tenuto conto fin dall’inizio della specificità italiana». Il rischio - a detta di coloro che hanno lavorato per giorni ad aggiustamenti e mediazioni - è tutto nell’articolo cinque. Quello che contiene la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner. Col voto segreto, un emendamento soppressivo potrebbe passare. E in quel caso sarebbe difficile per il Pd riproporre l’articolo cinque alla Camera, per poi rischiare un nuovo affondo a palazzo Madama. Chi ha in mano il pallottoliere racconta: «A oggi - con o senza la mediazione dei due anni di affido precedenti all’adozione - la stepchild dovrebbe passare anche a scrutinio segreto. A meno che non si esca dal merito e non si facciano giochini politici». Ma più di un parlamentare pd racconta: «Siamo inondati di messaggi che ci chiedono di dire no alla stepchild. Sulle unioni civili il consenso nel Paese c’è, ma quello è un punto che non è stato digerito». Il pericolo è che nel voto segreto quella pressione si faccia sentire.

Repubblica 31.1.16
Ora il Parlamento sia trasparente
di Stefano Folli


COSÌ ora le piazze hanno fatto sentire la loro voce. Tutte le piazze: ieri quella cattolica del Circo Massimo; sabato scorso quelle frammentate, ma unite in una rete ideale, dei sostenitori delle unioni omosessuali.
L’INEVITABILE battaglia dei numeri appassiona fino a un certo punto, considerando che le valutazioni di parte sono sempre esagerate e quelle ufficiali, cioè realistiche, sono oggetto di inevitabili, aspre polemiche.
Conta di più capire quale sarà l’esito del confronto nelle strade. Dal punto di vista pratico, non dovrebbe cambiare molto. Il testo Cirinnà andrà al voto delle Camere e sotto questo aspetto le piazze hanno semplicemente fotografato le divisioni che esistono in Parlamento. Ormai escluse rilevanti mediazioni, che non convengono a nessuno, la legge sarà valutata per quello che è, compreso il punto controverso delle adozioni. Le incognite non mancano, ma sulla carta il governo dovrebbe avere i consensi necessari. Purché, è chiaro, arrivi l’appoggio dei Cinque Stelle e magari di qualche esponente del centrodestra berlusconiano a compensare i vuoti che si apriranno nella maggioranza.
Al riguardo le diverse piazze hanno detto qualcosa. In primo luogo ci hanno ricordato che quando le strade si riempiono non per ragioni sindacali o politiche, bensì per motivi etico-religiosi, l’integralismo è sempre una minaccia incombente. E quando qualcuno si sforza di strumentalizzare l’integralismo per farne uno strumento di agitazione politica, la miscela è ancora più pericolosa. La Prima Repubblica, pur vituperata sotto numerosi profili, ebbe anche dei meriti. Forse il più importante fu quello di garantire un sostanziale equilibrio fra cattolici e laici nella cornice della Repubblica: equilibrio che dette frutti positivi nella società politica non meno che nella società civile, accompagnando la naturale evoluzione del costume e della morale. Allorché si volle compromettere tale assetto, con il referendum sul divorzio del 1974, lo strappo fu doloroso e non portò fortuna al partito egemone, la Dc, che da quel momento cominciò il suo lento declino.
Ieri al Circo Massimo si sono sentiti nell’aria toni intolleranti e persino confessionali che non hanno offerto una dimostrazione di forza: al contrario, hanno trasmesso una certa idea di fragilità. Del resto il mondo cattolico è diviso e non potrebbe essere altrimenti. Rispecchia i dubbi e le lacerazioni della Chiesa nell’era di Francesco, come dimostra il fatto che solo una parte del cattolicesimo affollava l’area ai piedi dell’Aventino. Qualche parlamentare avrà pensato di rafforzare la sua base elettorale, ma i più, anche fra i cattolici non favorevoli alla Cirinnà, sono rimasti a casa. Il rischio di alimentare la contrapposizione fra piazza e Parlamento è reale e molti ne sono consapevoli.
A tale proposito, c’è un altro punto da segnalare. Qualcosa ha unito le varie piazze dei due sabati. Da un lato, abbiamo visto il sito gay che segnalava alcuni parlamentari contrari alla legge e comunque chiedeva di conoscere nomi e cognomi di tutti. Dall’altro, il messaggio venuto da Roma è stato: ci ricorderemo di chi non si opporrà alla legge. Anche qui, nomi e cognomi: il desiderio di sapere chi vota cosa. Si dirà che si tratta di questioni di coscienza per le quali il voto segreto è ammesso. In realtà il problema è più complicato e il fatto che a porlo siano due piazze contrapposte lo rende meritevole di attenzione. Nei Paesi di forte e radicata democrazia, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e non solo, è normale che i cittadini sappiano come votano i loro rappresentanti. Nei collegi si attende di conoscere la scelta del parlamentare per valutarla e nel caso contestarla. In tal modo si forma un giudizio che poi troverà espressione al momento delle elezioni.
Sarebbe importante che anche in Italia accadesse qualcosa di analogo. La stessa trasparenza, lo stesso franco rapporto dell’eletto con l’elettorato, in particolare quello del proprio collegio. Sarebbe un modo non retorico di avvicinare il cittadino all’istituzione. Ma forse occorrerebbe un’altra mentalità, un’altra idea del servizio alla comunità, specie sui temi che coinvolgono i diritti. E servirebbe anche un diverso sistema elettorale, capace di valorizzare la relazione diretta fra il parlamentare e gli iscritti alla sua circoscrizione uninominale. Proprio quello che con l’Italicum non accade.

Corriere 31.1.16
Statue coperte, azioni disciplinari contro 5 lavoratori
Avevano criticato la scelta con la stampa

Contestazioni disciplinari sono state avviate nei confronti di cinque dipendenti di Ze’tema, la società del comune di Roma che gestisce anche parte dei musei della Capitale, ai quali vengono contestate dichiarazioni rilasciate alla stampa dopo le polemiche per la copertura delle statue ai Musei Capitolini in occasione della visita del presidente dell’Iran Hassan Rouhani. A rivelarlo è la Cgil-Fp di Roma e Lazio che parla di «vicenda paradossale». Avrebbero criticato la scelta di coprire le statue ritenute offensive per il capo di Stato iraniano.

Corriere 31.1.16
La sentenza
Il segreto di Mafia Capitale
«Quel patto criminale tra Buzzi e Carminati che va oltre la corruzione»
di Giovanni Bianconi


ROMA «Relegare i fatti in una cornice di corruzione sistemica ed endemica è prospettazione riduttiva», scrive la giudice Anna Criscuolo nella sua sentenza. Perché «se la corruzione è metodo di lavoro abituale di Salvatore Buzzi sul fronte politico e amministrativo, è l’alleanza e la sinergia tra il Buzzi e Massimo Carminati a rivelare la potenza e la forza di penetrazione dell’associazione, che assicura il dominio negli appalti pubblici che il metodo corruttivo, da solo, non avrebbe assicurato».
Ecco dunque che nel primo verdetto di merito su Mafia capitale (quella del giudizio abbreviato in cui è stato condannato Emilio Gammuto, ex collaboratore di Buzzi, per il reato di corruzione aggravata dal favoreggiamento all’associazione mafiosa) si riconosce che quell’organizzazione aveva tutte le caratteristiche previste dall’articolo 416 bis del codice penale. Con una motivazione che rovescia la prospettiva delle difese, a cominciare da quelle degli imputati principali, presunti promotori e capi della banda, che puntano le loro carte sul ricondurre tutto a una vicenda di corruzione semplice. Un «processetto», come ebbe a dire fin dalla prima udienza l’avvocato di Carminati, Bruno Naso; seguito a ruota da Buzzi e dal suo legale, che ammettono le bustarelle allungate a funzionari e politici per far lavorare le cooperative sociali, rigettando l’idea dell’associazione mafiosa.
Tuttavia, sostiene la giudice per argomentare la propria decisione, «se Buzzi con le sue sole forze, i suoi appoggi politici e l’abituale metodica corruttiva aveva già raggiunto un notevole livello economico-operativo, conquistandosi ampi spazi e margini di fiducia dell’amministrazione comunque nel corso delle stagioni precedenti, alleandosi con Carminati raggiunge l’apice e si espande senza rischi di intralcio, tant’è che il fatturato del gruppo lievita incredibilmente da 16 a 60 milioni di euro nell’arco di soli tre anni».
Il salto di qualità evidenziato dalla sentenza — che è solo di primo grado, ci sarà l’appello e altre ne verranno, compresa quella del maxiprocesso in corso nell’aula bunker di Rebibbia — è proprio lì: l’unione tra Buzzi con Carminati che «immette capitali illeciti nelle cooperative del socio» e contemporaneamente diventa «capo indiscusso» e porta con sé il «potere intimidatorio»; derivante, fra l’altro, dalla propria «caratura e prestigio criminale». In questo modo il «vincolo associativo», con Buzzi e altri complici, si realizza e utilizza la corruzione come uno degli strumenti per imporre «assoggettamento e omertà».
Secondo la giudice «il binomio è perfetto e destinato a durare in eterno perché insospettabile alleanza trasversale: ciascun socio apporta nella società il proprio capitale, non solo economico, ma il proprio passato, la propria storia, il proprio peso e le proprie relazioni consolidate (favorito da congiunture propizie e da un panorama politico-amministrativo permeabilissimo, disponibile e complice) assalta la pubblica amministrazione, condizionandone le decisioni, decidendo le nomine politiche e dei vertici amministrativi nei settori di interesse». Da una parte c’è «Buzzi che continua a offrire servizi e partecipa alle gare con il suo gruppo di cooperative»; dall’altro Carminati che, muovendosi in modo occulto, «garantisce l’intervento dei suoi amici e sodali per risolvere problemi e rimuovere ostacoli». Anche nei «ruoli chiave dell’apparato comunale e delle principali municipalizzate».
Da questo groviglio emerge l’associazione mafiosa contestata dall’accusa, negata dagli imputati e ora confermata da un giudice di merito. Ma al di là degli aspetti giuridici, la vicenda di Mafia capitale pone altre questioni, messe in luce all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi. Per il quale «l’elemento più caratteristico dell’organizzazione è costituito da soggetti provenienti da trascorsi politici opposti», cioè estrema destra (Carminati) e sinistra (Buzzi). Insieme alla capacità di condizionare entrambe le ultime due Giunte capitoline, sia pure con forme e gradi differenti. Sempre grazie alla corruzione. Incrinando così «la tenuta del tessuto amministrativo, prima ancora che politico della città».
Si chiede il procuratore generale: «Quali anticorpi non hanno funzionato se è stata possibile una così pervasiva influenza sull’amministrazione locale, continuata anche dopo il mutamento di compagine politica?». La risposta spetta, aggiunge Salvi, chi ha governato la città e chi intende governarla; cioè quanti si candideranno alle prossime elezioni comunali.

Corriere 31.1.16
Patologie
Padri che uccidono i figli come Medea
Non passa giorno che non arrivino notizie di bambini morti per l’irresponsabilità o la violenza degli adulti. Morti e violenze registrate pigramente come fossero una contabilità sociale, triste e quasi inevitabile
di Paolo Di Stefano


I bambini sono sempre i più fragili. E lo sono sempre più. Bisognerebbe avviare forti campagne pubbliche per la loro difesa, come si fa giustamente, da qualche tempo, per le donne, esposte al femminicidio dei maschi. Non passa giorno che non si diano notizie di bambini morti per l’irresponsabilità o la violenza degli adulti. Morti e violenze registrate pigramente come fossero una contabilità sociale, triste certo, ma quasi inevitabile. I bambini morti in mare sono poco più che numeri nei titoli dei telegiornali (lo si voglia o no, ne siamo ormai assuefatti). Quelli morti ammazzati dai genitori sono l’indicibile di cui si dice in genere con ipocrita compunzione: diventa il prezzo pagato all’instabilità della famiglia e alle nuove psicopatologie domestiche. Il caso del padre di Vaiano (Perugia) che, prima di suicidarsi gettandosi in un pozzo, ha accoltellato i due figli di 13 e 8 anni è «solo» l’ultimo di una serie crescente di figlicidi: ed è già significativa la difficoltà di reperire dati certi che distinguano tra l’infanticidio vero e proprio (vittime i piccoli appena nati) e i più frequenti omicidi subiti da bambini e adolescenti per mano dei genitori «impazziti».
Fatto sta che se il «bambinicidio» si iscrive tradizionalmente, per eredità mitologica (dalla tragedia di Euripide), sotto il nome di Medea che consuma l’assassinio dei propri pargoli per vendicarsi dell’amato, la contemporaneità ha aggiunto al desiderio di «possesso totale» materno quello paterno. La depressione, la frustrazione, il fallimento sentimentale e sociale, in casa e nel lavoro, trovano nei figli il bersaglio più facile anche da parte di quelli che la vulgata non solo giornalistica definisce «mammi»: padri che pretendono di sostituirsi alle madri. E lo fanno nel bene e nel male, con i conflitti, le sofferenze e le ambivalenze emotive che ne conseguono. Un bel libro della psicanalista Marina Valcarenghi uscito qualche anno fa si intitolava Mamma non farmi male. Si concludeva con la figura della madre figlicida. Urge, purtroppo, un nuovo capitolo sul padre.

Repubblica 31.1.16
La strage dei bambini naufragio nell’Egeo Allarme dell’Unicef
“Genocidio dell’infanzia”. Europol: 10 mila minori arrivati e scomparsi. “Germania, 400 mila espulsioni”
di Pietro Del Re


Un ennesimo naufragio nel braccio di mare tra Grecia e Turchia ha provocato un’altra strage di migranti. I morti di quest’ultima tragedia dell’Egeo sarebbero almeno 39, di cui almeno 5 bambini. Ma secondo le autorità di Ankara il bilancio potrebbe aggravarsi ulteriormente, perché in serata non era ancora stato recuperato il relitto del barcone di 17 metri, affondato poco dopo esser salpato dalle coste di Canakkale, diretto verso l’isola di Lesbo. L’imbarcazione s’è infranta andando a sbattere contro gli scogli e si teme che diverse persone siano rimaste intrappolate nella stiva. La guardia costiera ha potuto soccorrere 75 persone e sta cercando di ripescare una donna con il suo bimbo di tre mesi, trascinati dalla corrente verso il largo.
Secondo la stampa turca sul barcone viaggiavano migranti provenienti da Siria, Afghanistan e Birmania. Un portavoce della polizia ha invece dichiarato che un cittadino turco è stato arrestato con l’accusa di aver organizzato la traversata verso la Grecia. Tre giorni fa, in un altro naufragio avevano perso la vita 10 bambini.
Tutte vittime che vanno ad aggiungersi alle tremila persone che nel 2015 hanno perso la vita tentando di raggiungere le isole di Kos e Lesbos partendo dalle coste turche. In questa strage senza fine nel solo mese di gennaio sono annegati nell’Egeo oltre 50 bambini. Più di 80mila sono i migranti salvati in mare dalla guardia costiera dei due Paesi. Ma l’emergenza non finisce con il viaggio: Europol lancia l’allarme dei bimbi scomparsi. «Ne stiamo cercando più di 10mila, 5mila solo in Italia: sono migranti minorenni non accompagnati». Molti potrebbero essersi ricongiunti con le famiglie, ma su tanti si stende l’ombra dei trafficanti.
Sempre ieri, le due motovedette della Guardia costiera italiana impegnate in quel tratto di mare hanno soccorso 3 gommoni salvando 31 migranti e hanno recuperati 15 persone abbandonate all’addiaccio su una scogliera. Tra loro c’erano quattro donne e cinque bambini di meno di quattro anni.
Dopo la strage di ieri, il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, è tornato a chiedere corridoi umanitari sicuri: «Davanti al genocidio in mare di bambini l’Italia si sta colpevolmente assuefacendo. La Ue batta un colpo, è una questione che riguarda tutti. Affondano come su Titanic di carta».
Dalla Germania è arrivata la notizia pubblicata da Die Welt secondo cui - stando a un documento interno della Cdu - Berlino si preparerebbe a espellere 400 mila richiedenti asilo nel 2016.

Repubblica 31.1.16
Che fine hanno fatto i diritti umani
Questa nostra perdita di sensibilità ha una causa precisa: la paura
di Roberto Toscano


È un fatto. I diritti umani non sono più al centro dell’attenzione internazionale, e soprattutto la loro tutela non è più sentita come una priorità.
NÉ da parte dei responsabili politici né da parte dei cittadini. Non è sempre stato così. Pensiamo agli anni Settanta del secolo scorso, quando le sorti dei dissidenti sovietici o dei cileni vittime della repressione di Pinochet ispiravano forti prese di posizione morali capaci di determinare anche risposte politiche.
Vale la pena cercare di comprendere le ragioni di questo profondo cambiamento, e il perché si è venuta a determinare un’innegabile caduta di sensibilità e solidarietà umana.
Una risposta pseudo-realista, ma in realtà parziale e superficiale, tende ad attribuire la causa principale di questa caduta alla fine della Guerra Fredda, nel cui contesto la difesa dei diritti umani era, per l’Occidente, uno dei terreni su cui condurre — e alla fine vincere — la grande sfida con il sistema comunista. Finita la sfida, calato l’interesse.
È vero che la lotta per i diritti umani era anche condotta con finalità strumentali, ma nello stesso tempo nel momento in cui la usava strumentalmente nel quadro di un’offensiva ideologica contro l’avversario, l’Occidente non poteva poi sottrarsi alla necessità di rispondere sullo stesso terreno in relazione alle proprie azioni, dal Cile al Vietnam. In altri termini, il risultato, quale che fosse l’intenzione di chi sollevava il tema, era positivo per la causa dei diritti umani ovunque nel mondo.
La fine del comunismo ha dimostrato che la violazione dei diritti umani costituisce una ragione di debolezza di sistemi politici che non possono indefinitamente sostituire la repressione al consenso. Questo avrebbe dovuto confermare i diritti umani al centro del discorso politico. Se non è avvenuto, è dovuto a una serie di fattori. Primo fra tutti, la sostituzione, nel campo dei diritti umani, del confronto Est-Ovest con quello Nord-Sud. Paradossalmente, la polemica con l’Unione Sovietica non verteva sui principi, ma sul loro concreto rispetto, dato che i sovietici (persino nella Costituzione staliniana del 1936) non mancavano di rendere omaggio sul piano teorico agli stessi principi su cui si basavano i sistemi occidentali nel momento stesso in cui li violavano in modo massiccio. Scomparsa l’Urss, la polemica sui diritti umani si spostò dal terreno delle prassi concrete a quello dei principi, con una forte offensiva dei Paesi asiatici, decisi a contestare un universalismo che a loro avviso non era che l’imposizione di valori occidentali. Vi fu, nell’ultimo periodo del XX secolo, un forte dibattito sui “valori asiatici” e sullo “scontro di civiltà” — un discorso che introduceva dubbi e contestazioni in un terreno che fino ad allora non era stato esplicitamente contestato da chi pure lo contraddiceva sul piano dell’uso del potere in chiave repressiva.
All’inizio del XXI secolo la sfida di maggiore radicalità e virulenza è diventata quella dell’islamismo, le cui espressioni politiche, anche le più moderate, contestano la possibilità di un discorso sui diritti umani (pensiamo a temi come la condizione della donna, l’omosessualità o il diritto ad abbandonare la religione islamica) che possa prescindere dai dettami della Sharia.
Ma come mai la gravità della sfida non produce oggi, come sarebbe logico, una riconferma di valori che sembravano un tempo costitutivi non solo dei nostri sistemi politici ma anche del nostro profilo etico?
Una risposta la fornisce, nell’introduzione al Rapporto 2016, Kenneth Roth, il Direttore esecutivo di Human Rights Watch — l’organizzazione non governativa che, in parallelo ad Amnesty, porta avanti la causa dei diritti umani a livello globale. Roth non ha dubbi, e non dovremmo averne neanche noi. La spiegazione di questa caduta di disponibilità e sensibilità nei confronti della causa dei diritti umani ha un nome preciso: la paura. Paura per la nostra sicurezza, sia socio-economica che fisica. In un certo senso siamo passati dal terreno delle ideologie a quello, primario ed ottuso, della biopolitica. L’insicurezza, e la paura che essa genera — soprattutto per il terrorismo che colpisce anche nelle nostre città — producono un egoismo sordo ai richiami dell’etica e alla considerazione della dignità e dei diritti dell’Altro.
Se era facile essere solidali con i dissidenti rinchiusi nel Gulag siberiano, oggi le vittime delle violazioni dei diritti umani sbarcano sulle nostre coste, si accampano nelle nostre strade. È obiettivamente una situazione difficile, sia dal punto di vista organizzativo ed economico che da quello sociale, e persino da quello politico, visto che gli “imprenditori della paura” stanno raccogliendo praticamente in tutti i Paesi europei consensi sulla base della xenofobia e del razzismo.
Siamo messi collettivamente alla prova, e una risposta dovrà arrivare di certo da una rinnovata presa di coscienza sul piano dell’etica, ma anche su quello del realismo e della razionalità. Se non riusciremo infatti ad affrontare questo colossale problema senza tradire quella centralità dei diritti umani che ci ha fin qui definiti come europei, ne risulterà una perdita di identità molto maggiore di quella che la paura ci dice che deriverebbe dall’inserimento dei migranti nella nostra società. Questo è vero anche per la sicurezza, che vediamo oggi minacciata dal terrorismo islamista e dall’instabilità dell’intera regione medio-orientale, dove uno dopo l’altro gli Stati si avvicinano alla disgregazione come conseguenza di spinte settarie e tribali. È vero che alla radice di questo processo, caratterizzato da una parossistica conflittualità endemica, esiste una serie di cause, dalle carenze di sviluppo socio-economico alla crescita dei movimenti jihadisti di ispirazione wahabita, ma quello che è indiscutibile è che alla base sia della minaccia terroristica sia dell’esodo di intere popolazioni troviamo sempre un potere esercitato con la violenza nel totale dispregio dei diritti umani e generatore quindi di frustrazione, risentimento, divisioni, violenze — un potere nei cui confronti siamo stati troppo spesso, e spesso continuiamo ad essere, conniventi per opportunismo o vigliaccheria.
Torniamo quindi a mettere fra le nostre priorità la difesa dei diritti umani. Ce lo suggeriscono sia i nostri principi che i nostri interessi, a partire da quello essenziale della sicurezza. Le minacce presenti vanno confrontate con tutti i mezzi necessari, compreso quello militare, ma senza affrontarne le tutt’altro che misteriose radici politiche continueremo indefinitamente a dover fare i conti con nuove e probabilmente sempre più gravi sfide.

Corriere 31.1.16
Xenofobia
Svezia, uomini mascherati a caccia di nordafricani
Impennata di arrivi, strutture sovraffollate, incidenti all’ordine del giorno, come l’accoltellamento di un’impiegata di un centro per minori: tutti elementi che stanno spingendo l’accogliente Svezia a respingere gli immigrati
di Alessandra Coppola


Una missione punitiva di «uomini neri» contro bambini stranieri nel centro di Stoccolma. Hooligan, dice la polizia, estremisti di destra vestiti di scuro coi cappucci delle felpe tirati sugli occhi e le sciarpe a coprire la bocca, dichiaratamente a caccia «di bambini nordafricani che vagano in strada». Radunati nel buio di venerdì sera in una sorta di flash mob del terrore con lo slogan: «Adesso basta!». Qualcuno è stato fermato, qualcun altro segnalato. Ma è evidente che la Svezia sta vivendo una stagione di paure. Non nuove, ma mai così esasperate.
L’esperienza di accoglienza si è consolidata negli anni. Ma la più grande migrazione euromediterranea che la Storia recente ricordi contiene due elementi di destabilizzazione: i numeri e i tempi. La Svezia ha ricevuto, solo nel 2015, 163.000 richieste d’asilo, con un’impennata da giugno, a un ritmo di 4-5.000 arrivi al mese. Le strutture sono sovraffollate, e gli incidenti all’ordine del giorno. Il grave episodio di lunedì, quando un’impiegata di un centro per minori stranieri vicino a Göteborg è stata accoltellata a morte da un ragazzino somalo, era drammaticamente nell’aria. Ugualmente, gli episodi di xenofobia si sono moltiplicati, allungandosi fino in Grecia. Sulle spiagge di Lesbo da mesi si raccolgono volantini firmati dalla destra estrema degli Svedesi democratici: «Non ci sono soldi, né lavoro, né case. Non venite, possiamo offrirvi solo tende, e rimandarvi indietro».
Con parole diverse, l’ha annunciato anche il governo socialdemocratico: in 80 mila dovranno essere rimpatriati. Perché lungo questo canale che si è spalancato all’improvviso sono passati rifugiati, ma non solo. A molti sarà negata la protezione internazionale. E che ne sarà dei 35 mila minori non accompagnati che si trovano nel Paese e non possono essere espulsi? «La gente teme nuove violenze — ha ammesso il premier, Stefan Löfven —. Molti di quei giovanissimi hanno avuto esperienze traumatiche e per loro non ci sono risposte facili».

Corriere 31.1.16
Applausi alla Spagna (ma non invidiamola)
Applausi sì, perché i risultati a breve si vedono e il Pil spagnolo ha fatto un balzo del 3,2%. Invidia no, perché Madrid sceglie la via «bassa» della competitività. (Già sperimentata in Italia, oggi alle prese con altro).
di Dario Di Vico


Dobbiamo dunque riprendere a invidiare gli spagnoli? Come facevamo nei primi anni 2000 quando, grazie a quella che si sarebbe rivelata una gigantesca bolla immobiliare, Madrid cresceva a ritmi frenetici? È di ieri la notizia che il Pil spagnolo ha chiuso il 2015 alla quota (che ci appare stratosferica) del 3,2% e le previsioni per l’anno in corso oscillano tra il 2,6 e il 3%. Noi usciamo da un 2015 che ha fatto segnare +0,8 e le stime governative di +1,5% per il 2016 incontrano lo scetticismo della comunità scientifica (venerdì Ref ha pubblicato una previsione all’1%). Il segreto della veloce ripartenza iberica sta nei consumi interni e in una ripresa degli investimenti delle imprese, a loro volta effetti delle drastiche riforme del governo Rajoy che ha adottato per il mercato del lavoro una legislazione decisamente pro imprese e orientata alla deregulation. Così il tasso di disoccupazione è sceso di quasi 3 punti e sono entrati al lavoro moltissimi giovani che, pur con salari bassi, hanno comunque contribuito a ridare fiato ai consumi. Inoltre un costo del lavoro decisamente ridotto è servito ad attrarre investimenti esteri e a immettere le Pmi iberiche nelle filiere di fornitura tedesche. È chiaro che tutto ciò visto dall’Italia ha del paradossale: mentre noi spingiamo per riposizionare in alto la nostra offerta e troviamo difficoltà, la Spagna invece sceglie la via «bassa» della competitività e incontra grande successo. Come se ne esce? Vagliando le differenze di partenza. Per Madrid passare da un modello di sviluppo centrato sull’immobiliare a un mix nel quale acquistano peso le filiere di fornitura a basso costo del lavoro rappresenta comunque un’evoluzione di cui sul breve si colgono i frutti. Nel medio termine non appare però una gran ricetta, tanto meno per noi che da quel modello, almeno in parte (flessibilità delle Pmi, non certo basso costo del lavoro) veniamo. Ergo: applausi sì, invidia no.

La Stampa 31.1.16
Gabriele Finaldi, direttore della National Gallery di Londra
“Così gli Antichi parlano ancora nel XXI secolo”
intervista di Alain Elkan


Gabriele Finaldi, com’è essere tornato alla National Gallery di Londra, e stavolta da direttore?
«Un ritorno emozionante, dopo 13 anni. Amo questa istituzione fin dall’infanzia e sono elettrizzato all’idea di trovarmi qui ora».
Perché?
«Innanzitutto per l’eccezionale bellezza e qualità di questa collezione. In secondo luogo per il notevole legame che c’è fra la National Gallery e il pubblico. La gente sa, sente, che questa è la loro Galleria e ciò crea dinamiche interessanti. Infine, la collezione permette ricerche, progetti e mostre affascinanti».
Che differenza c’è con altri musei di Stato come il Prado a Madrid, dove è direttore incaricato delle collezioni e della ricerca, e il Louvre?
«In Francia e in Spagna si parla di musei e gallerie d’arte statali, qui abbiamo la National Gallery. Che appartiene alla nazione. La collezione fu creata nel 1824 per il pubblico, con un atto del Parlamento. Si cominciò con l’acquisizione di una collezione privata e presto arrivarono altre donazioni. Fu deciso di costruire una nuova sede per la galleria in Trafalgar Square, nel cuore della città. Una parte del successo della Galleria è dovuto alla sua collocazione e al fatto che è a ingresso libero. La gente avverte un senso di possesso».
L’ingresso libero fa molto discutere: chi difende questa libertà ?
«Ha il sostegno di tutti i partiti e rientra nel programma del governo».
Quindi è una situazione simile a quella della National Gallery di Washington?
«Simile, ma nel loro caso il governo degli Usa finanzia completamente i costi. Qui siamo finanziati per due terzi. Il resto lo raccogliamo con i biglietti degli allestimenti temporanei, le sponsorizzazioni, il tesseramento e altre attività commerciali».
Quali sono i suoi compiti in questo nuovo lavoro?
«La Galleria ha una tradizione di eccellenza. Il mio compito è far sì che rimanga una straordinaria risorsa pubblica e contribuisca ad alimentare il dibattito sulla nostra identità e sui valori della nostra società. E a garantire uno spazio per svolgere un importante lavoro di ricerca e sviluppare le relazioni internazionali».
Ha intenzione di apportare dei cambiamenti?
«La Galleria è visitata da 6,5 milioni di persone all’anno ed è il terzo museo più visitato in Europa dopo Louvre e British Museum. Questa è una responsabilità straordinaria ed è una sfida: assicurare un’esperienza di alta qualità della grande arte della collezione a un così gran numero di persone. Noi creiamo le condizioni per rendere straordinaria quest’esperienza. C’è una parte della collezione che piace subito, ma spesso i dipinti sono complessi e occorre una mediazione perché queste opere possano parlare a un pubblico contemporaneo. Non abbiamo solo quadri antichi, ma grandi opere d’arte che raccontano l’esperienza umana, la vita e la morte, il conflitto, la famiglia e l’amicizia, il ruolo dell’individuo, la fede e gli ideali. Sotto molti aspetti i problemi che ci troviamo ad affrontare oggi non sono nuovi e i dipinti ci raccontano come sono stati gestiti in passato».
Quanti sono i capolavori?
«Ce ne sono diversi in ogni stanza, ma non abbiamo il peso di un’icona com’è la Gioconda per il Louvre. Abbiamo diverse opere che attirano l’attenzione, il ritratto degli Arnolfini di Van Eyck, il Battesimo di Piero della Francesca, la Venere Rokeby di Velazquez, la Deposizione di Michelangelo e i Girasoli di Van Gogh».
Nel mercato odierno gli antichi maestri sono un po’ fuori moda e quindi meno costosi rispetto ad alcuni artisti contemporanei: è un buon momento per comprare?
«Sì, un Rembrandt costa meno di un Francis Bacon, ma i grandi maestri sono pur sempre costosi e per questo i musei di rado si precipitano ad acquistarli. Tuttavia la Galleria a volte riesce a fare acquisizioni notevoli, come le due “poesie” di Tiziano che appartenevano al duca di Sutherland o il pannello a fondo d’oro di Giovanni da Rimini, di epoca trecentensca, acquisito grazie a un’elargizione di Ronald Lauder, il filantropo e collezionista americano».
Fa parte del suo lavoro trovare sostenitori e benefattori?
«C’è molta gente che non desidera altro che sostenerci in molti modi, svolgendo programmi formativi, comprando dipinti, ristrutturando l’edificio. Sono figure necessarie e aiutano a riflettere il ruolo della società civile nel funzionamento dell’istituzione».
Quali sono i progetti in calendario?
«In primavera abbiamo una mostra su Eugène Delacroix e la sua influenza sull’arte moderna, fino a Matisse e Kandinsky. In estate un allestimento intitolato “Painters’ Paintings” (I dipinti dei pittori): sono dipinti che i pittori hanno raccolto per se stessi. Ci ha ispirato al lascito di Lucian Freud, che ha donato alla Galleria un suo quadro di Corot. La mostra rivisita Freud, Matisse, Degas, Van Dyk nelle vesti di collezionisti. In autunno avremo una mostra intitolata “Beyond Caravaggio”, che illustra la sua stupefacente influenza sulle successive generazioni di artisti, come Ribera, Vouet, Mattia Preti e i cosiddetti “Caravaggisti” olandesi e fiamminghi».
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 31.1.16
La Cia contro l’Oscar a Don Camillo
Un complotto nel 1953 impedì la corsa alla Statuetta per Gino Cervi e Fernandel I rapporti fra prete e sindaco comunista erano giudicati “troppo amichevoli”
di Franco Giubilei


Che i comunisti italiani detestassero Giovanni Guareschi è cosa arcinota, molto meno conosciuta invece è l’ostilità che suscitò negli Usa l’uscita e il successo del film Il piccolo mondo di Don Camillo, e per motivi diametralmente opposti: se nell’Italia dei primi Anni ‘50 lo scrittore era considerato un reazionario, nell’America del maccartismo la strana storia di un sindaco del Pci in rapporti tutto sommato bonari col parroco di Brescello suscitava il sospetto di quanti vedevano ovunque il pericolo rosso.
E così contro il film, che era ben avviato a vincere l’Oscar come miglior opera straniera nel ’53, si mobilitò la Cia, riuscendo a scongiurare l’assegnazione della statuetta alle avventure di Don Camillo e Peppone. L’Oscar andò a Giochi Proibiti di René Clément e la pellicola tratta da Guareschi, che nella versione americana era doppiata da Orson Welles per le parti della voce narrante e del Cristo parlante, se ne tornò alla base a mani vuote.
Documenti americani desecretati rivelano che un ruolo determinante lo ebbe tal Luigi Luraschi, contatto dell’intelligence Usa all’interno dell’Ufficio censura della Paramount, come racconta Egidio Bandini, studioso di Guareschi e presidente del Club dei Ventitré, l’associazione fondata dai figli dello scrittore: «Siccome si era accorto che la componente “leftist” (di sinistra, ndr) dell’Academy Awards era intenzionata ad assegnare l’Oscar per il miglior film straniero a The little world of Don Camillo, si adoperò per impedirlo e ci riuscì, come dimostra la lettera scritta a Owen, il suo corrispondente all’interno della Cia: gli disse che pensava di essere riuscito a lasciare fuori la pellicola di Duvivier (il regista, ndr), spiegando di aver lavorato contro il film».
Non tanto perché lo ritenesse troppo pericoloso politicamente, quanto per mettere i bastoni fra le ruote ai giurati progressisti che invece spingevano per la nomination. Per Guareschi e la sua opera del resto non si tratta dell’unico episodio di incomprensione ideologica negli Stati Uniti: «Nell’edizione americana del primo volume vennero tagliati interi racconti in cui Peppone ci faceva una bella figura - aggiunge Bandini -. Solo l’anno scorso è uscita negli Usa la versione integrale».

Corriere La Lettura 31.1.16
La felicità in comune
Una nuova edizione del filosofo Plotino, un saggio della psicologa Boniwell ma anche il nostro continuo oscillare tra appagamento e privazione ci portano alla radice del sentimento più desiderato: la condivisione del Bene
La ricerca conduce alla consapevolezza che non c’è nulla di meglio dello stare insieme. Leggere (e vivere) per credere
di Giorgio Montefoschi


«Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece, lo è a modo suo». È l’incipit di Anna Karenina , il romanzo di Lev Tolstoj. Sarà vero? Chi lo sa! Ma perché la famiglia? Perché se è vero che la felicità sta nella condivisione del Bene, nell’incontro, insomma negli altri, è altrettanto vero che la famiglia, comunque essa sia costituita, è un bell’inciampo, con il quale, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti. Se ne parla tanto, in questi giorni di «battaglie» e di raduni.
Ma prima rileggiamo Plotino, di cui esce il 23 febbraio una nuova edizione del trattato Sulla felicità , curato da Mauro Bonazzi (Einaudi). «Vivere bene — scrive il filosofo vissuto ad Alessandria nel III secolo dopo Cristo —, essere felici: se li mettiamo insieme, non ne faremo partecipi anche gli altri esseri viventi? Se infatti anche per questi ultimi si dà la possibilità di condurre senza impedimenti la vita che è loro propria per natura, perché negare che anch’essi si trovano in una buona condizione di vita? In effetti, sia che uno ponga la vita buona in una condizione di benessere, sia che la ponga nella realizzazione compiuta della funzione propria, in entrambi i casi questo vale anche per gli altri esseri viventi».
Nel suo libro, molto scientifico e da un côté strettamente psicologico, soprattutto quando descrive i vari tipi d’amore, Ilona Boniwell ( La scienza della felicità , il Mulino) gli sta da presso. In realtà i Vangeli avevano anticipato tutti.
L’inverno di Tolstoj
Una volta, durante un inverno gelido, talmente gelido che non ci si poteva togliere i guanti (né sopravvivere senza tirar fuori, a intervalli sempre più ravvicinati, dalla tasca della pelliccia, la bottiglia della vodka... sì, indossavo una pelliccia, di lupo, prestatami dal professor Mario Levi), visitai a Mosca la casa di Tolstoj. Una esperienza incredibile. Non tanto per l’emozione, che pure ci fu, di stare in piedi dietro alla scrivania sulla quale lo scrittore lavorava, guardando, attraverso i vetri, il parco avvolto nella neve dell’ospedale psichiatrico che guardava Tolstoj (in quella stanzetta del mezzanino nella quale aveva stabilito il suo studio — per umiliarsi, certo, ultima dopo gli alloggi delle fantesche...); quanto per l’idea folle di famiglia che si respirava in quel palazzotto confortevole, e tuttavia ben diverso dai lussi della famiglia Rostov.
Entravi, e subito a destra dell’ingresso, c’era la sala da pranzo, ancora apparecchiata perfettamente, come se i commensali dovessero entrarvi da un momento all’altro. Poi, confinante con la sala da pranzo, la camera da letto dei coniugi Tolstoj. Qui, oltre alla imponente stufa maiolicata e al letto e al comodino, lo sguardo cadeva su un paravento. Quello era il paravento dietro il quale, quando Sonja riceveva le amiche, Lev si sedeva ad ascoltarle. Eppure, nei Diari , una volta scrisse: «Stanotte ho sognato che mia moglie mi ama». Doveva sognarla la vera felicità, prima di scappare dalla famiglia e andarsene a morire da solo nella stazioncina ferroviaria?
L’appartamento di Scola
Ho amato un bellissimo film del 1987 di Ettore Scola intitolato La famiglia , nel quale si raccontano le vicende di una famiglia della media borghesia romana dal 1906 al 1986: ottanta anni. Il film si svolge interamente in un appartamento tipico del quartiere Prati — identico all’appartamento in cui viveva un mio amico sempre da quelle parti, nel quale io avevo ambientato il mio terzo romanzo, La felicità coniugale (un titolo, rispetto al quale, chi poi leggeva scopriva che il libro raccontava tutto il contrario).
Sono appartamenti costituiti da un lungo corridoio sul quale si aprono le stanze — quelle da letto, quella da pranzo, il bagno, il salotto — in una sorta di democratica equiparazione dei locali: perché le porte sono tutte uguali e abbastanza uguali le dimensioni delle stanze, e questo significa che mangiare, dormire, fare l’amore, parlare, leggere dei libri o il giornale hanno paritaria importanza e diritti, formano un corpo solo ai due lati di quel corridoio che il regista non finisce mai di esplorare con i suoi lenti, dolorosi camera-car.
Carlo, interpretato in maniera superba da Vittorio Gassman, è un professore di lettere appena andato in pensione, ha una moglie adorabile e alla quale vuol bene, interpretata da Stefania Sandrelli, un fratello grullo (interpretato nello scorrere degli anni dai due Dapporto, padre e figlio), la famiglia numerosa e bella. Ma è sull’orlo dell’età difficile che anticipa l’autunno; i suoi occhi neri, inquieti, a tratti si perdono; la felicità costruita con tanta perseveranza dentro quella casa che molti possono riconoscere, sembra sparita. Finché un giorno, dalla Francia, insieme al marito, ritorna la cognata di Carlo: nel film, Fanny Ardant. Era una sua vecchia passione. La passione si riaccende. E così scoppia il dramma. È una sofferenza. Ma come si amano, soffrendo — tutti — ora che la felicità sembra sparita da quella casa.
Le chiacchiere dell’ospedale
Poco più di due anni fa, nel mese di novembre, fui ricoverato in tutta fretta, con l’ambulanza, in un grande ospedale romano. Avevo ripetuto, già sentendomi male, un capitolo dei Promessi sposi con mio nipote Pietro: uno strazio. Poi, prima di entrare al concerto dell’Accademia di Santa Cecilia, avevo vomitato due litri di sangue. Nell’autoambulanza pensavo di morire. Passai al Pronto Soccorso con il codice rosso; mi visitarono; mi misero in una stanzetta nella quale c’era un ragazzo preoccupatissimo per il suo cuore; all’una di notte, visto che le cose non andavano bene per niente, mi portarono in sala operatoria dove mi fecero una gastroscopia e insieme cauterizzarono la ferita che m’ero procurato per uno sconsiderato uso di antinfiammatori senza la protezione dello stomaco. Uscito dalla camera operatoria infilarono il mio letto-barella in una rientranza del corridoio nella quale di continuo entravano e uscivano barelle. Alla mia sinistra avevo un vecchietto mezzo moribondo; alla mia destra una cicciona che assisteva la madre e non stava zitta un minuto («proprio adesso che me so’ comprata le scarpe nove e iscritta a ginnastica...»). Ero vigile. Non avevo più paura di morire.
A un certo punto, non lontano da me, accanto alla parete, venne sistemato il letto di una donna magrissima, con dei lunghi capelli biondi, che un tempo doveva essere stata bella. La accompagnavano due ragazze fra i trenta e i trentacinque anni, entrambe molto carine. Stavano sedute accanto al letto, discrete, e a bassa voce — non tanto bassa perché non potessi udirle — parlavano fra di loro, e con quella che io stabilii subito che fosse la madre, alternando l’italiano a un inglese perfetto.
Solo chi ha trascorso una notte in un Pronto Soccorso sa cos’è quell’inferno: urla, lamenti, imprecazioni. Le due figlie facevano la guardia. Anche a me. Perché in fondo al letto avevo il loden e siccome sono uno che si muove parecchio, ogni tanto scivolava giù. Allora, una delle due ragazze si alzava e me lo rimetteva a posto. Pensavo: italiano, inglese, lei ex bella ora anoressica. Chissà che famiglia. Forse c’è un ex marito inglese che ha fatto le due figlie e se l’è data a gambe. O c’è un secondo marito? Loro vivono sole o con lei? Poi venne l’alba: il momento del sollievo. E spuntò una terza figlia, diversa dalle altre due (infatti avrei voluto scrivere un racconto intitolato Tre figlie ) dicendo che aveva dormito benissimo e ora era il suo turno. Ma proprio mentre lo diceva — e io allargavo la trama — arrivarono degli infermieri e la madre, che intanto fumava una finta sigaretta, e le tre ragazze passarono in un altro reparto. Mi dispiaceva, perché in quella brutta notte interminabile eravamo stati insieme. E la felicità, credo davvero, è stare insieme. Ora. E anche dopo, magari. Ma quello non lo sa nessuno.

Corriere La Lettura 31.1.16
Rimuovi le scorie, risveglia i sensi
di Giancarlo Dimaggio


Osservate noi psicoterapeuti all’opera. Il nostro ingegno al servizio della ricerca della felicità. Il primo mandato: rimuovere i meccanismi che fabbricano dolore. Ansie, ossessioni, rabbie, pensieri molesti. Dotati di cassette degli attrezzi di terza generazione, nella maggior parte dei casi funzioniamo. Non promettiamo di riuscire sempre e completamente, a volte falliamo, a volte rimangono scorie. Ma ce la caviamo abbastanza bene.
Il secondo passo: smuovere i grumi che ostruivano le fonti del benessere, nelle cui acque stagnanti la fermentazione ad alta temperatura produceva tossine. Qual è il segreto della nostra bottega? Se una formula si può svelare è: animare il corpo. La felicità non la trovate nella vittoria, nella conquista, nella quiete. Quelli si chiamano trionfo e relax. Belli, ma lasciano il tempo che trovano. Noi con i nostri pazienti stringiamo accordi. Innanzitutto, accettano di allenarsi all’ascolto del mondo interno. L’oppressione, il vuoto che li attanagliano dove sono collocati? Nel petto? Nell’addome? Una tensione sulle spalle? Bene. Ora: dove risuona la leggerezza? Non lo so. Ci pensi. Concentriamoci. Si chiama: identificare desideri, attitudini, passioni. Piccole gioie che hanno dimenticato quanto valesse la pena perseguire.
Poi: programmare l’azione. Tempo fa la chiamavamo attivazione comportamentale. Faccia qualcosa coerente con la ricerca del benessere. Sembra facile, non lo è. Il corpo si attiva e tutti i demoni sgorgano dal sottosuolo: colpe, paure, punizioni temute, sanzioni decretate da spietati giudici interni. Questa è la parte più impegnativa: riconoscere che il demone altro non è che un fantasma, un prodotto dell’immaginazione, e persistere nell’azione.
Il punto d’arrivo: la riscoperta della sensorialità. La felicità dei pollici mentre affondano nell’impasto di acqua e farina. L’armonia del gesto mentre la racchetta impatta la pallina. Se un fantasma si affaccia, ignoratelo. C’è vostra figlia che sta esibendo la verticale solo per voi.

Corriere La Lettura 31.1.16
Gli islam d’Italia e lo Stato a caccia dell’attimo fuggito
Nel 2006 il ministro Amato e i rappresentanti delle comunità
si sedettero a un tavolo e nel 2008 uscì la Dichiarazione d’intenti Quell’esperienza incompiuta è una lezione per noi, adesso
 L’universo musulmano diviso, l’inerzia delle istituzioni. Il giurista Carlo Cardia rivisita il lavoro fatto e il suo potenziale inespresso
di Goffredo Buccini


Il bene nacque dal male, a volte capita. In quell’estate del 2006 il più tenace tentativo di tenere attorno a un tavolo tutte le voci dell’islam italiano, sintonizzandole con le nostre libertà e le nostre regole, iniziò per reazione a un proclama di odio.
Oggi ci siamo abituati, odio e proclami ci incombono sull’uscio di casa. Allora ci parevano un po’ meno reali, come la cicatrice di Ground Zero distante ormai cinque anni, guai degli americani, in fondo; o le predicazioni in arabo dei primi imam radicali, già pregne di violenza da sottoscala della storia, ma di cui quasi nessuno capiva nulla. Nicolas Sarkozy già chiamava racaille , teppa, i rivoltosi che incendiavano le banlieue parigine, ma al Bataclan mancava ancora una generazione di ferocia. A Nassiriya era esplosa un’altra bomba contro i nostri soldati, ma a qualcuno pareva un’eco lontana della prima strage del 2003: al funerale di Stato due politici erano stati sorpresi persino a ridacchiare. Romano Prodi era tornato premier per un soffio di voti (azzoppato al Senato). Gheddafi ci appariva più alleato che tiranno (nell’attesa del baciamano di Berlusconi). Gli islamici da noi erano poco più della metà di adesso e non sembravano un’orda (persino la Lega era più concentrata a dividere l’Italia che a scacciarne gli «invasori»).
Tuttavia il 19 agosto, l’Ucoii, l’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche italiane, che rivendica spesso una sorta di primato sulle altre associazioni musulmane (ricevendone in risposta ostilità e diffidenza), strappò questa tela con un manifesto dal titolo inequivocabile, pubblicato sul «Quotidiano Nazionale»: Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane . La conclusione era ancora più esplicita e delirante: «Marzabotto = Gaza = Fosse Ardeatine = Libano». Gli altri membri della Consulta islamica, voluta nel 2005 dall’allora ministro Giuseppe Pisanu, si dissociarono, l’Ucoii li accusò di «tradimento». «Naturalmente era una Ucoii molto diversa da adesso», riflette Carlo Cardia, guardando Villa Ada dalle finestre della sua casa romana. Professore di Roma Tre, grande esperto di istituzioni religiose, intellettuale cattolico sedotto in gioventù dal carisma di Enrico Berlinguer, Cardia è stato tessitore della revisione concordataria al tempo di Bettino Craxi, coautore della legislazione ecclesiastica italiana.
Fu anche l’anima della trattativa e dell’elaborazione dottrinaria per provare a dare un ubi consistam all’islam d’Italia, il cervello giuridico cui Giuliano Amato, ministro degli Interni in quel secondo governo Prodi, affidò il coordinamento dell’impresa. E, sì, ha ragione: quell’Ucoii guidata da Mohamed Nour Dachan e assai vicina ai Fratelli musulmani era molto diversa da questa dei nostri giorni, rinnovata dal giovane Izzedin Elzir, sostenitore della predicazione degli imam in italiano («Noi musulmani, da cittadini italiani, abbiamo il dovere di denunciare chiunque metta in pericolo la sicurezza del Paese, il terrorismo verde non vincerà», ci ha detto Izzedin qualche settimana fa: e intendeva verde per islamico).
Allora il suo predecessore Dachan finì indagato per istigazione, fu prosciolto, rifiutò di scusarsi, sostenne un «errore di comunicazione» attorno al manifesto contestato. Le Donne marocchine d’Italia, guidate da Souad Sbai (deputata di An, poi di Lega Nord), l’avevano attaccato duramente: «L’Ucoii vuole la guerra, vive di conflitti, perché finché ci sono i conflitti ci sono gli estremisti». «Souad era una pasionaria, una specie di Dolores Ibarruri musulmana», sorride adesso bonario Cardia. Che però ricorda momenti duri: «La polemica tra Amato e Ucoii fu molto aspra. Come conseguenza il ministro disse: a questo punto facciamo la Carta dei valori». Ne sarebbero nate sette sezioni tematiche, trentuno proposizioni, tra diritti e doveri, base di qualsiasi integrazione, coniugando libertà religiosa e laicità dello Stato. Uguaglianza uomo-donna, no alla poligamia, no al burqa (stando bene attenti ad addurre «ragioni di socializzazione e di sicurezza»): i nodi erano già tutti sul tavolo dal primo giorno ma la strada era lunga e infatti si interruppe. «Il primo problema lo posero i giornali. Perché fare una carta dei valori con l’islam? Forse perché l’islam aveva qualcosa che non andava antropologicamente? Amato aveva intuito politico, finezza intellettuale: colse subito il punto e costituì noi, cinque o sei, come comitato che trattava con il comitato dell’islam, quello del tempo di Pisanu, e con tutte le confessioni».
L’islam era il vero obiettivo. «Ma grandi contributi ci vennero dalla Cei, dalla comunità ebraica, fu un’esperienza straordinaria». Il comitato scientifico coordinato da Cardia tenne nelle stanze del Viminale, fino all’aprile 2007, 42 audizioni di delegazioni e singoli, ascoltando 160 persone originarie di 35 Paesi. Sfilarono pure mormoni e cattoliche filippine, induisti e protestanti, buddhisti e ortodossi. Ma il problema da risolvere era uno, anche se inquadrato per correttezza politica in una cornice così ampia. I cento volti dei musulmani d’Italia (e le rivalità che li dividevano): l’Ucoii di Dachan, il Centro culturale islamico della Grande Moschea di Roma con una voce moderata come Abdellah Redouane, la Co.Re.Is. milanese di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, l’Associazione Donne marocchine, i pakistani di Ejaz Ahmad, gli ismailiti di Gulshan Jivrai Antivalle, e ancora intellettuali come Younis Tawfik, sindacalisti come Mohamed Saady. L’islam avrebbe trovato piena accoglienza nella società italiana, riconoscimento dallo Stato, dentro confini precisi sulla legalità, la parità tra i sessi, la monogamia, il rifiuto d’ogni violenza di radice religiosa, la giurisdizione unica dei tribunali italiani (a differenza del modello inglese che aveva lasciato uno spazio alla sharia ). Un percorso per uscire dall’ombra, dagli scantinati trasformati in moschee, dall’equivoco d’essere il secondo culto praticato in un Paese nel quale tuttavia non si esiste ufficialmente.
Non andò così. E la storia del bene che nasce dal male da qui diventa una grande occasione perduta. Due volte a settimana, per un anno, continuarono gli incontri. Segnati qua e là da «qualche episodio buffo e marginale rispetto al merito. Non le dirò chi fu, ma uno di loro ci chiese... indietro la moschea di Granada. Che c’entra?, dissi io. L’islam ha subìto anche questo torto e dobbiamo metterlo nella relazione, disse lui. Va bene, dissi io, mettiamo nella relazione che voi rivolete Granada e noi Costantinopoli, che voi vi siete presa. La questione finì così...». Ma soprattutto quegli sforzi furono soffocati da tre nodi su cui l’unanimità fu impossibile: il burqa , la poligamia, la libertà religiosa.
Ricorda Cardia: «L’Ucoii non firmò, con motivazioni ambigue: la Carta non è perfetta perché prevede l’uguaglianza della donna ma non il rispetto della donna, ci dissero. Il burqa è condannato dalla Carta, ma loro non volevano fosse proibito. E non esisteva, non esiste, per loro la possibilità di cambiare religione. Allora questo distacco dell’Ucoii ebbe conseguenze fondamentali. Amato ci disse di andare avanti comunque. E tra il 2007 e il 2008 facemmo il tentativo più bello, quello di unire giuridicamente l’islam come confessione: sulla Dichiarazione di intenti convogliammo tutte le componenti tranne l’Ucoii che non aveva firmato».
La Carta dei valori fu presentata al Viminale il 23 aprile 2007. La Dichiarazione di intenti, un testo coraggioso ai limiti del visionario, è del marzo 2008. Auspica la «formazione di una aggregazione islamica moderata e pluralista», la Federazione dell’islam italiano, in sintonia con la Costituzione e la Carta. E porta le firme di Ahmad, Antivalle, Pallavicini, Redouane, Saady, Sbai, Scialoja e Tawfik. «Ci metteva avanti agli altri, in Europa. Ma il governo cadde, ad aprile 2008 si votò. Senza Amato, il progetto perse vigore. Si continuò con incontri informali, anche alla Grande Moschea, da Reoduane, senza però il supporto dello Stato. Quella fu l’ultima volta in cui si provò a tenere tutti assieme, con il sostegno e l’impegno di un ministro degli Interni».
La nostalgia per Amato — e forse per una stagione anche personale di progetti forti — è palpabile. Ma non fa velo all’analisi critica di Cardia. «Vede, già allora il contrasto sulla rappresentatività emerse, ed è ancora centrale, ad esempio, tra Grande Moschea e Ucoii. Chiesi all’Ucoii un elenco di associazioni affiliate, mi risposero: non è come lo immaginate voi, abbiamo lettere di moschee che ci dicono di far parte del nostro panorama... Gli islamici vivono molto il senso di autonomia di moschea, di centro culturale... Non hanno il nostro concetto di personalità giuridica, per loro l’islam è semplicemente lo Stato, ed è dentro questo schema che ciascuno si sente autonomo».
L’atomismo, con l’assenza per noi di un vero interlocutore, resta una spina: «Se lei chiede a Izzedin e a Redouane chi ha più moschee non riuscirà a ottenere una risposta chiara». Ma un certo pessimismo di Cardia riguarda anche noi. L’incapacità dello Stato di favorire l’emersione delle moschee e degli imam da un sottomondo di clandestinità: «Bisogna incentivare questa unione con mezzi giuridici e anche economici». Sapendo che il multiculturalismo peloso non aiuta né noi né i musulmani. «Senza Amato non avremmo combinato nulla, tanti anche a sinistra ci erano contrari». Alcuni, con qualche incarico di governo, ritenevano persino il burqa espressione di una tradizione, dunque intangibile. Tanta intellighenzia nostrana semplicemente non capì: «Andammo a Pisa a presentare la Carta dei valori. E un professore scandalizzato mi disse: ma come, non ci avete messo il diritto al matrimonio omosessuale?». Dieci anni dopo la questione è più aperta che mai: «Quel cammino si potrebbe riprendere, ci fosse la volontà». Già. Per indurre l’islam a unirsi, forse, dovremmo essere un po’ più uniti noi.

Corriere La Lettura 31.1.16
Accelerazionismo
Una nuova corrente intellettuale sostiene che l’unico modo per superare il capitalismo è intensificarne la corsa fino all’esaurimento
Ma si tratta di una tesi con un forte margine di ambiguità: chi l’ha detto che il sistema attuale debba avere una fine?
di Leonardo Caffo


Il 28 febbraio 2014 dalla borsa del neo-premier Matteo Renzi, che si trova in Senato per chiedere la fiducia al suo governo, fuoriesce un libro dallo strano titolo, L’arte di correre (Einaudi). Un romanzo di Haruki Murakami che racconta la metafora della corsa: disciplina, motivazione, ma, soprattutto, accelerazione. Quel libro, (in)volontariamente ospitato in un luogo di potere, racconta un’idea: la politica, come ogni gesto di controllo interno al capitalismo, è una corsa.
Su questa unione tra politica e velocità, nel mondo filosofico anglosassone, si è recentemente aperto un solco paradossale: l’accelerazionismo. L’idea è semplice e paradossale allo stesso tempo, quasi un’antinomia kantiana: se ciò che caratterizza il capitalismo è l’accelerazione continua dei suoi processi, entro uno sviluppo continuo delle sue istanze, le strategie critiche che lo contestano basate sulla «decrescita» (Serge Latouche), sul pensiero anarchico, o su istanze radicali di rallentamento degli stili di vita (pensiamo al trascendentalismo americano di Ralph Waldo Emerson o Henry David Thoreau), compiono un errore logico. L’accelerazione non si può bloccare: se si vuole criticare il capitalismo, o superarlo, bisogna aumentare la corsa e accelerarlo dall’interno, fino al cambiamento sociale che seguirà all’esaurimento definitivo delle risorse.
Assurdo? Forse. Eppure centinaia di economisti e filosofi, che sostanzialmente muovono i loro passi dalla tesi contenuta in Millepiani (Castelvecchi) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, secondo cui velocità e accelerazione sono entità diverse, sostengono che questa sia l’unica strategia operativa possibile contro il capitalismo. Di necessità, virtù: smetterla con la retorica della lentezza, contro il tempo rubato dall’ipercapitalismo contemporaneo, e cominciare a correre fino alla fine, fino al nuovo e incerto scenario che seguirà per l’organizzazione economica delle vite umane.
Benjamin Noys, che sull’accelerazionismo (e in parte anche contro) ha scritto il controverso, ma studiatissimo, saggio Malign Velocities. Accelerationism and Capitalism (Zero Books, 2014), sostiene che, nella visione di questa corrente, il motivo principale per cui la maggior parte delle teorie anticapitaliste hanno fallito risiede nel non aver compreso che proprio ciò che si contesta è anche l’unica risorsa di superamento del problema. Si tratta di capire, secondo gli accelerazionisti, che la politica si fa attraverso la contingenza: le cose che possiamo fare non sono necessariamente le cose che vorremmo fare. O si attende la fine spontanea del capitalismo, o la si accelera: di bloccarlo, semplicemente, non se ne parla.
Non è un caso che l’accelerazionismo sia il correlato politico di un movimento metafisico, il realismo speculativo, che contesta le filosofie correlazioniste post-kantiane (quelle che fanno dipendere il mondo dal soggetto che lo percepisce) e ci costringe a fare i conti con la realtà: ciò che non possiamo cambiare, semplicemente, non si può cambiare. Non che tutti i realisti speculativi, che in italiano hanno un equivalente nei «nuovi realisti» capitanati dal Maurizio Ferraris del Manifesto del nuovo realismo (Laterza), debbano anche essere accelerazionisti: ma le cose, almeno in un verso dell’implicazione, si tengono. Accertata la realtà del capitalismo, alcune cose vanno non tanto accettate, ma comprese: il cambiamento, se lo si desidera, segue una linea retta e non ci resta che accelerarla.
Nota da qualche anno, nonostante la diffusione praticamente inesistente in Italia, la teoria accelerazionista gode già di momenti di approfondimento e analisi dettagliata. Nel 2014, per esempio, Robin Mackay e Armen Avanessian hanno curato per Urbanomic l’antologia #ACCELERATE#. The Accelerationist Reader , in cui diverse prospettive sembrano convergere su un punto che, seppur controverso, apre un gigantesco dibattito: la sinistra di oggi fallisce perché vive intrappolata dentro un ideale irrealizzabile, divisa tra una presunta politica popolare, cultura del localismo e dell’azione diretta, o un orizzontalismo egualitario che niente realizza se non una retorica. Ma se l’obiettivo è più importante dei metodi, allora la sinistra dovrebbe prendere coscienza dell’accelerazionismo come pensiero pratico in grado di interagire con la modernità, la complessità, la globalizzazione e la tecnologia.
Che Renzi si documentasse sul correre per questi motivi, francamente, appare però inverosimile, e senza scherzare potrebbe sembrare eticamente problematico sostenere che, per far cessare la fame nel mondo, bisogna accelerare i processi che generano il problema fino allo sterminio degli affamati. Eppure l’accelerazionismo, ormai argomento di dibattito nel mondo accademico anglosassone al pari del marxismo, pare suggerire che prima o poi gli affamati moriranno: accelerare i tempi, prendendo coscienza dell’errore iniziale, è l’unico modo per anticipare il momento in cui bisognerà ricominciare da zero.
Ciò che non dicono esplicitamente gli accelerazionisti, tuttavia, è che il loro movimento spesso piace più a destra che a sinistra — e già si distinguono le due correnti della teoria. Se la sinistra guarda al processo di accelerazione come unica strategia di messa in scacco del capitale, la destra, come forse era prevedibile, sostiene l’intensificazione indefinita del capitalismo stesso basandosi su un altro assunto plausibile, che intensifica l’antinomia iniziale, secondo cui non è per nulla scontato che il capitalismo debba avere una fine (non a caso questa forma di accelerazionismo si rifà anche al futurismo italiano). Accelerare potrebbe significare migliorare le tecnologie, eludere il rischio della fine delle risorse, creare un mondo ancora più alienato, nel senso di Marx, in cui le macchine sostituiscano definitivamente il lavoro umano, e poi l’umano tout court . E in effetti questo hanno sostenuto nel loro manifesto accelerazionista, pubblicato sulla rivista «Critical Legal Thinking» nel 2013, Nick Srnícek e Alex Williams.
Fantascienza? Follia? Intanto la discussione accademica e sociale s’intensifica e comincia ad affacciarsi anche in Italia: dove forse la prima accelerazione da effettuare, prima di restare troppo indietro, sarebbe quella di stare al passo con il dibattito filosofico internazionale, smettendola di considerare innovativi fenomeni del secondo dopoguerra, come la filosofia analitica anglosassone, dato che proprio il mondo anglosassone, com’era prevedibile, nel frattempo ha virato altrove.

Corriere La Lettura 31.1.16
Una società spensierata
di Carlo Bordoni


La dipendenza ideologica ha molte declinazioni. In forma di ignavia è condannata da Dante nel canto III dell’ Inferno e considerata indegna persino di attenzione. Oggi, che si definisca pensiero unico, asservimento, massificazione, piaggeria o anche, nelle parole di Étienne de la Boétie, servitù volontaria, è sempre accompagnata dall’assenza di pensiero critico. Perduta qualità superiore in grado di scegliere, esprimersi, valutare, opporsi. Il pensiero critico, si dirà, ha fatto il suo tempo — il tempo del dissenso a ogni costo — e si è dileguato con la fine delle ideologie. Secondo Luciano Gallino, nel suo ultimo libro, vero testamento etico ( I l denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti , Einaudi, pp. 200, e 18), è stato sostituito dalla stupidità. Facendo così della società attuale il luogo dell’accettazione passiva. Le cause di questo appiattimento sono rintracciabili nel primato del cosiddetto «politicamente corretto», che evita gli argomenti sgradevoli per non turbare le coscienze (come la teoria darwinista dell’evoluzione negli Usa), ma soprattutto nell’atteggiamento acritico e indifferente di fronte ai problemi politici e sociali. Con le stesse modalità utilizzate per gestire i social, in cui si può entrare e uscire a piacimento, nell’illusione di potersene distaccare quando si vuole, mantenendo la propria integrità. Nessun coinvolgimento. Nessun pensiero.

Corriere La Lettura 31.1.16
Immigrati + caos + disagi
Così nascono (ancora) le superpotenze creative
Cosa unisce Atene, la Silicon Valley, Vienna e la cinese Hangzhou?
Hanno prodotto una genialità collettiva che si basa su quattro D: diversità, disordine, discernimento, difficoltà
È la tesi di Eric Weiner: «I luoghi estranei ispirano di più, lo insegnano Jobs
e Einstein». E vanno evitate sedie comode
di Eric Weiner


The Geography of Genius SIMON & SCHUSTER Pagine 368, $ 26,95

L’opera
Nell’indice vengono riportati i seguenti luoghi geografici: l’Atene di Socrate e Platone, la città di Hangzhou della Dinastia Song (960-1279), la Firenze del Rinascimento, la Londra di Shakespeare, l’Edimburgo di Conan Doyle, la Calcutta del poeta Tagore, la Vienna di Beethoven e quella di Freud e la Silicon Valley da Steve Jobs a oggi

Ci sono fasi della storia che incrociano la perfezione, momenti fertili impossibili da ripetersi: un’idea si insinua, prende corpo, diventa eterna. Quasi sempre è scaturita da necessità estreme, disagi. Esiste un filo che accomuna certi movimenti creativi della storia? E ci sono criteri fissi che spingono il genio alla sua più alta espressione?
Eric Weiner, giornalista americano con base a Washington, è uno scrittore di viaggio e ha lavorato come corrispondente estero per la radio pubblica americana Npr dall’Asia per alcuni decenni. Ha scritto The Geography of Genius (uscito poche settimane fa e già nella classifica dei bestseller del «New York Times») viaggiando nei luoghi che sono diventati terra di idee uniche, passando da Atene alla Firenze del Rinascimento. Fino alla Silicon Valley, patria della genialità del nostro tempo «e anche uno dei più grandi misteri ed eccezioni, considerando che la maggior parte dei movimenti creativi della storia si sono insinuati in contesti urbani e culturalmente vivaci: a Menlo Park quando è iniziata la Silicon Valley c’erano solo campi di prugne», racconta Weiner in una conversazione con «la Lettura».
«Quel che mi interessava capire è la genesi di questo tipo di cultura e perché si sia formata proprio qui e non altrove. C’è una ragione precisa che ha fatto sì che questo movimento si creasse a ovest dell’America e dalla parte opposta degli “snob della East Coast”, non nel luogo più ricco del Paese, non a New York o a Boston». La Silicon Valley è nata in California «perché doveva essere un terreno libero, aperto», continua Weiner. «Quello che accomuna la Firenze di Brunelleschi e di Leonardo da Vinci e quello che sta succedendo oggi in California — spiega — è la creazione di un movimento di idee collettivo, di competitività».
Secondo Weiner ci sono quattro chiavi necessarie che rendono il genio, o meglio la collettività dei geni, una superpotenza. «Le ho definite “le quattro D”: diversità delle idee; il discernimento; il disordine, perché dal caos arrivano sempre flussi positivi di innovazione; e il disagio, la spinta creativa nata dalle necessità».
Weiner è interessato alla connessione tra i luoghi e le idee (nei suoi viaggi in Asia come corrispondente — racconta — ha incontrato Tiziano Terzani). La mappa include la Vienna di Beethoven e la Londra shakespeariana. Viaggia a Firenze in cerca di tracce del Rinascimento, si scandalizza per il numero di turisti, va a tracciare gli indirizzi delle botteghe e si innamora della storia di Andrea del Verrocchio, maestro di Leonardo e di Perugino (ha scritto un articolo per «Harvard Business Review» dal titolo: Il Rinascimento era un modello migliore di innovazione di quel che è ora la Silicon Valley ). Nella sua lista c’è Hangzhou in Cina descritta da Marco Polo come «la più splendida e raffinata città del mondo» e l’Estonia che ha inventato Skype. La vivacità del contesto urbano è, secondo l’autore, una delle forze motrici: «Sono le città aperte, cosmopolite che favoriscono il terreno delle idee. Tracciando la mappa mi sono fatto un’idea chiarissima del perché non esistessero esempi importanti in luoghi come la Corea del Nord: nei territori chiusi, dove non c’è circolazione di realtà culturali, le idee faticano a emergere». O, per dirla con il padre della fisica nucleare Ernest Rutherford, «non abbiamo denaro, siamo costretti a pensare» .
C’è un altro aspetto interessante nell’esplorazione di The Geography of Genius , libro che non arriva mai a una concreta conclusione ma continua, di capitolo in capitolo, ad aggiungere domande, a presentare semplici dati, collegamenti: le personalità più spiccate sono quasi sempre immigrati. Weiner nomina Vladimir Nabokov, Victor Hugo, Marie Curie e Sigmund Freud, fino all’esempio più forte: Einstein. «Il suo “anno miracoloso”, il 1905, quando ha pubblicato ben quattro articoli scientifici innovativi, è arrivato dopo che era emigrato dalla Germania alla Svizzera».
Secondo lo studioso c’è un fatto inequivocabile che si perde nel dibattito di oggi sull’immigrazione: «Molte menti brillanti sbocciano in una terra lontano da casa. Questo è particolarmente vero per gli Stati Uniti, una nazione che è divenuta tale grazie alla forza creativa del “nuovo arrivato”. Oggi i residenti nati all’estero rappresentano solo il 13 per cento della popolazione degli Stati Uniti, e sono un quarto di tutti i premi Nobel assegnati agli americani». Ma che cosa c’è dietro l’atto di trasferirsi verso lidi lontani, volontariamente o no? «Quando veniamo spinti a dare una ragione, di solito ci esprimiamo con una noiosa retorica: l’immigrato lavora sodo». Weiner cita invece la «prospettiva obliqua» dello psicologo Nigel Barber: «Sradicati dal contesto familiare, gli stranieri possono vedere il mondo da un angolo e da una prospettiva che permette loro di andare oltre il puro talento. Lo straniero è un pesce dell’oceano che all’improvviso balza a galla».
Facciamo parte della generazione della cultura digitale, eppure il luogo fisico in cui si vive e si respira può influenzare incredibilmente la mentalità e le fonti delle idee. «Non so se un giorno le generazioni future ringrazieranno la Silicon Valley per invenzioni come i social media, quel che è certo è che qui si è creato un luogo unico nella storia». L’autore viaggia ad Atene e dedica alcune pagine alla sua luce: sarà uno degli elementi unici che hanno reso questo luogo terra di genialità? Si legge in The Geography of Genius : «Questo è il tipo di luce che spinge a prestare attenzione, e prestare attenzione alle cose è il primo passo nella scala verso la genialità».
La bellezza di un luogo non necessariamente è un elemento di ispirazione creativa, lo è al contrario un luogo brutto. «Einstein — racconta Weiner — ha scritto la teoria della relatività su uno sporco tavolo da cucina nel suo appartamento di Berna, mentre Steve Jobs e Steve Wozniak hanno avuto le proprie illuminazioni a Sunnyvale, un quartiere del tutto ordinario». Non sono affatto geniali invece, secondo il giornalista, alcuni cardini della Silicon Valley come i tavoli da ping pong e il cibo gratis nelle aziende, aspetti che Weiner definisce ai limiti del buffo: «Metti insieme un tavolo, due racchette e una pallina in un open space e hai fatto una startup, un luogo vivo di idee. Penso che gli impiegati di un’azienda dovrebbero invece muoversi, andare a comprare il pranzo uscendo dagli uffici». Uno studio recente della Università di Stanford ha mostrato che persino una camminata di cinque minuti produce più idee creative di quello che si produce seduti costantemente. «Più le sedie sono comode e soffici peggio è. Senza limiti siamo perduti. La tensione invece produce invenzioni».

Corriere La Lettura 31.1.16
I colpi dell’uomo sul pachiderma
Caccia grossa nell’Artico. Un mammut ucciso in anticipo di 10.000 anni
Nell’artico siberiano è stata ritrovata la carcassa, vecchia 45 mila anni, di un mammut ucciso da uomini che giunsero nella zona prima di quanto si credesse
di Telmo Pievani


Tre anni fa una spedizione di scienziati russi guidata da Alexei Tikhonov, grande specialista di mammut all’Accademia delle Scienze, si spinse fino alla stazione meteorologica polare di Sopochnaya Karga, a 71 gradi di latitudine nord. Su una scogliera ghiacciata della baia dello Yenisei, sul mare di Kara, porzione siberiana del mar Glaciale Artico, un paio di chilometri a nord della stazione, i ricercatori scoprirono la carcassa ben conservata di un mammut lanoso. Se l’aspettavano, poiché la presenza di questi grossi erbivori era già nota nella penisola di Tajmir, Siberia artica. La stratigrafia e l’analisi al radiocarbonio di una tibia permisero la datazione precisa dell’animale: era morto su quella spiaggia remota tra 44.500 e 45.000 anni fa.
Sappiamo che i mammut hanno vagato per decine di migliaia di anni nell’emisfero settentrionale, seguendo le oscillazioni climatiche. Quando in Europa la calotta ghiacciata di Barents scendeva fino in Germania e in Inghilterra, questi bestioni lanosi si spingevano fin nel cuore della nostra penisola. E sono sopravvissuti fino a tempi più recenti di quanto si pensasse. Un manipolo riuscì a rifugiarsi, dopo la fine dell’ultima era glaciale 11.700 anni fa, nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi sarebbero arrivati soltanto tremila anni fa. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di quattromila anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane.
Dunque il mammut di Sopochnaya Karga è piuttosto antico rispetto ad altri suoi simili, ma è così ben conservato che, oltre allo scheletro completo, il ghiaccio ha preservato alcune parti molli, incluso il grasso della tipica gobba. Era un giovane maschio di 15 anni, in ottima salute. Chi o che cosa ha ucciso dunque un animale così forte e resistente? La soluzione del giallo ha lasciato di stucco la comunità scientifica, tanto da meritarsi la pubblicazione sul numero di «Science» del 15 gennaio. Le ossa sono state esaminate ai raggi X, ma già a occhio nudo mostrano i segni di ferite inusuali, soprattutto sulla testa e nella zona toracica. L’osso zigomatico è forato da un’arma a punta conica, fatta di osso o di avorio. Altri colpi mirarono invece alla base del tronco, per recidere arterie vitali e uccidere l’animale per dissanguamento. Le lance taglienti furono scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi nelle ossa.
Insomma, si tratta di una ben organizzata scena di caccia, cui seguì la paziente macellazione di ogni parte dell’animale, compresa la lingua accuratamente asportata. Del mammut non si buttava via niente, soprattutto le preziose zanne vennero rotte in modo tale da produrre scaglie appuntite di avorio, a loro volta usate come strumenti per la macellazione della carne. Segno che a quel tempo era all’opera un’intelligenza in grado di trasformare potenzialmente qualsiasi oggetto utile in uno strumento, e di produrre uno strumento a partire da un altro strumento. In assenza di pietre adatte, si ricorreva all’avorio.
Si dimostra così, sorprendentemente, che circa diecimila anni prima di quanto ritenuto finora, già 45.000 anni fa, a una latitudine più settentrionale persino di Capo Nord, quando ancora sopravvivevano altre specie umane come l’uomo di Neanderthal in Europa e l’uomo di Denisova in Asia centrale, gruppi di cacciatori sapiens di origine africana erano in grado di inseguire e abbattere un mammut sulle sponde del mar Glaciale Artico. La datazione precede di 20 mila anni l’ultimo massimo glaciale, cioè il periodo proibitivo, che va da 26 a 19 mila anni fa, in cui l’era glaciale raggiunse il picco.
Chi ha compiuto l’impresa nel grande freddo doveva avere capacità di organizzazione sociale e di coordinamento linguistico notevoli, insieme a tecnologie avanzate per cacciare e proteggersi dal gelo. È chiaro che qui l’evoluzione culturale ha prevalso su quella biologica, permettendo ai nostri antenati di adattarsi a qualsiasi ecosistema terrestre. Homo sapiens divenne una specie cosmopolita e invasiva, capace di creare sublimi opere d’arte (a poche migliaia di anni dopo risale l’arte rupestre recentemente scoperta sull’isola di Sulawesi, ai tropici) e al contempo di lasciare un segno distruttivo sugli ambienti, per esempio in Australia e nelle Americhe, dove all’arrivo dei primi cacciatori sapiens decine di specie di mammiferi di grossa taglia, inermi davanti a un predatore così ben organizzato, furono estinte per sempre.
La scoperta russa potrebbe anche gettare nuova luce proprio sull’arrivo dell’ Homo sapiens in Nord America. Se i cacciatori siberiani erano già in circolazione 45.000 anni fa, non è escluso che possano essersi spinti verso oriente, inseguendo le mandrie di caribù e di mammut, ben prima della fine dell’ultima glaciazione, attraversando la Beringia, cioè il vasto ponte di terra che nei periodi freddi univa l’Asia nord-orientale all’Alaska. L’impressione è che molte storie attendano ancora di essere raccontate sugli antichi spostamenti delle popolazioni umane.

Corriere La Lettura 31.1.16
Usa
La grande crescita dietro le spalle
Secondo Robert Gordon il periodo d’oro dello sviluppo Usa è finito nel 1970. E non tornerà nel futuro
di Giuseppe Sarcona


Il meglio è passato. È finito nel 1970, con la chiusura del secolo «speciale» americano, cominciato dopo la Guerra civile, nel 1870, o forse il 10 maggio del 1869, quando i due tronconi delle ferrovie transcontinentali si saldarono sul promontorio Summit, nell’Utah, collegando l’Est dei Padri fondatori con l’ultima frontiera del West. Dal 1970 in avanti, lo sviluppo economico degli Usa è stato tanto «abbagliante» quanto «deludente». La tesi di Robert James Gordon è il titolo del suo libro appena pubblicato negli Stati Uniti: The Rise and Fall of American Growth («L’ascesa e la caduta della crescita americana », Princeton University Press). Gordon, 75 anni, professore alla Northwestern University, è considerato uno dei più influenti intellettuali, ma è anche molto popolare tra gli studenti universitari degli anni Ottanta, compresi gli italiani, per il suo manuale base di macroeconomia.
Il volume ha l’aspetto di un mattone, inavvicinabile per i non esperti. È una lettura impegnativa. L’impianto è indubbiamente ambizioso, simile per molti aspetti al bestseller di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo (Bompiani), perché ripercorre con dati, grafici e citazioni, 145 anni di storia economica americana. Ma il linguaggio è piano e la struttura consente, volendo, di saltare qualche capitolo, senza perdere il ritmo e il contatto con le idee guida, che sono tre. La prima: «La crescita economica non è un processo stabile che crea un avanzamento regolare, secolo dopo secolo. Per millenni, fino al 1770, non c’è stata di fatto alcuna crescita. La nostra tesi centrale è che esistano alcune invenzioni più importanti delle altre: sono quelle del secolo rivoluzionario 1870-1970, che chiamiamo “le grandi invenzioni”». La seconda big idea di Gordon ha già innescato il dibattito negli Stati Uniti, partendo dal «New York Times»: «La crescita economica dal 1970 a oggi è stata nello stesso tempo tanto abbagliante quanto deludente». Anche per il futuro, ecco il terzo assunto, è meglio non avere grandi aspettative. Da qui ai prossimi 25 anni non assisteremo a una nuova rivoluzione.
Le diverse fasi storiche sono messe a confronto sulla base del prodotto interno pro capite, un indicatore che misura, sia pure con qualche approssimazione, il benessere non solo degli Stati, ma anche dei singoli cittadini. Nel periodo tra il 1870 e il 1920 la media annuale di aumento del Pil pro capite risulta pari all’1,84%; tra il 1920 il 1970 sale al 2,41%, mentre scende all’1,77% tra il 1970 e il 2014. Anche l’indice di produttività (produzione diviso ore di lavoro) segue la stessa dinamica: 1,79% nella prima epoca, poi 2,82% e infine giù fino all’1,62%. Le cifre, dunque, mostrano come l’età contemporanea, nonostante «l’abbagliante» velocità, incida in modo più lento sulle condizioni di vita personale e sulla produttività del lavoro.
Verrebbe naturale obiettare che non può che essere così, visto che gli Stati Uniti nel 1870 partivano praticamente da zero, mentre oggi è più difficile aggiungere ogni anno qualcosa in più. È l’argomento classico dell’utilità marginale decrescente. Ma per Gordon, l’obiezione è respinta. L’economista circoscrive la spinta innovativa nata nella Silicon Valley al decennio che va dal 1994 al 2004, con una coda fino al 2007, l’anno in cui Steve Jobs lanciò l’iPhone. La grande onda digitale si è «incanalata in una sfera ristretta dell’attività umana: le comunicazioni, l’intrattenimento, la raccolta e il trattamento delle informazioni». Tutto il resto è stato solo sfiorato: alimentazione, abbigliamento, costruzioni, trasporti, sanità. Stiamo vivendo un’evoluzione continua, ma non la frattura epocale del secolo scorso. La maniera migliore per misurare il ritmo dell’innovazione e del progresso tecnologico è guardare alla «produttività totale dei fattori», che mette in relazione l’aumento del prodotto con l’incremento delle ore lavorate e del capitale investito. Per semplificare: più il numero è alto, più è intenso l’effetto del progresso tecnologico. Sorprese anche qui: la produttività totale dei fattori nel decennio di Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Steve Jobs (Apple) vale l’1,03% di media annua (1994-2004), quasi la metà rispetto all’1,89% all’epoca delle «Grandi Invenzioni», quella di Thomas Edison (lampadina elettrica), di Clarence Birdseye (frigorifero) e di tanti altri.
Dal 2004 a oggi l’economia è entrata in una stagione di crescita «strisciante». La produttività totale dei fattori è crollata allo 0,4% su media annua: un livello inferiore perfino al trentennio 1890-1920. Gordon cita le ricerche del Nobel per l’economia Robert Solow, per concludere con lui che «la rivoluzione digitale si vede dappertutto, tranne che sui grafici della produttività».
A questo punto l’autore va allo scontro diretto con i «tecno-ottimisti», sostenendo che è «possibile prevedere» un «cammino lento» anche per i prossimi 25 anni. Il libro dedica solo gli ultimi capitoli a un tema che avrebbe meritato di più. Certo ci saranno ulteriori progressi in campo medico, nella robotica, nel campo dell’intelligenza artificiale e dei big data , la raccolta sistematica delle informazioni. Le auto potranno circolare senza pilota, sia pure con molte limitazioni. Ma nessuna di queste acquisizioni sarà in grado di migliorare in modo drastico il tenore di vita delle persone. Anzi l’era digitale dovrà fronteggiare pericolosi «venti contrari». Il più forte è la crescente ineguaglianza, la polarizzazione della società tra pochi ricchi e tanti cittadini impoveriti. Qui viene fuori l’ascendenza neo-keynesiana di Gordon, con una serie di proposte sul salario minimo, la riforma sanitaria, l’immigrazione. Sono in arrivo tempi difficili per gli Stati Uniti. Il meglio è alle spalle.

Corriere La Lettura 31.1.16
L’euforia dell’Africa
Con una Peugeot color sabbia nella sabbia dei villaggi dove i bambini e le bambine sono felici di andare a scuola e in moschea può entrare un ateo
Viaggio dalla quiete di un istituto di matematica alla savana dove si pesta il miglio nei mortai
Senegal: un’umanità abituata ad aspettare sempre
La parola «ora» va tradotta con «prima o poi»
di Carlo Rovelli


Oggi ho deciso di lasciare l’ambiente confortevole dell’Istituto di matematica dove sto passando qualche settimana, e andare a vedere un po’ di Africa. Ho fermato un taxi collettivo lungo la strada, mi sono schiacciato accanto a un paio di corpulente signore strette nei loro vestiti sgargianti e sono arrivato nel centro di Mbour, in Senegal (cento franchi africani: 15 centesimi di euro).
Prima di lasciare la costa e lanciarmi verso l’interno, ne approfitto per vedere il mercato. È molto più vasto di quanto mi aspettassi. Una distesa umana, formicolante, puzzolente, colorata e sudicia, che copre un quartiere sterminato e continua sempre più densa fino sulla spiaggia, dove decine di barche di pescatori riversano quintali di pesce che finisce sparso ovunque. Un po’ a fatica mi sono tirato fuori da questa marea umana dolente che non sembra mai sorridere e mi sono fatto portare da un altro taxi fino all’unico incrocio stradale di Mbour: quello dove la Route Nationale numero 1 si biforca dalla strada costiera e si avvia verso il Mali. Prima meta il paese di Sandiara, una ventina di chilometri all’interno.
Qualche contrattazione e trovo un’auto disposta a portarmi fino a Sandiara per tremila franchi, due euro. Il paesaggio è una savana squallida, costellata di baobab. Sandiara è un paesone. Un grosso crocchio di persone si accalca attorno a qualcosa. Mi avvicino discretamente e riesco a vedere anch’io. C’è un uomo seduto per terra. Coperto di polvere e fango fino nei capelli. L’aria stralunata e disperata. Le mani legate dietro la schiena e i piedi legati. Lo sguardo a terra. La folla gli vocia intorno e lo guarda commentando. Un ragazzo mi spiega che è matto. Poi si corregge: è un «assassino». Arrivano altri particolari: ha pugnalato qualcuno. E adesso? Ora lo porteranno al paese vicino.
«Ora» in Africa è un termine vago che si traduce più precisamente in «prima o poi». Non c’è nessuno in divisa, solo la piccola folla che guarda e commenta, non succede nulla. L’uomo mi fa pena. Ha un’aria più che disperata. Piuttosto annientata. Come se avesse ceduto completamente a questa folla e questi sguardi su di lui. Mi rendo conto che, come unico bianco per almeno diverse decine di chilometri intorno, non c’è molto di utile che io possa fare. Giro un po’ per le strade di sabbia del paese, guardando i bambini che giocano, i fabbri, la piccola moschea, la sporcizia che copre ogni cosa, e poi torno alla strada e trovo un bus collettivo che mi porta al paese successivo, Tiadiay. Compero un pane da una delle innumerevoli piccole venditrici che brulicano in ogni strada d’Africa e mi avvio per una laterale che mi dicono essere la direzione di Sao. Sao l’ho scelto per il nome. Mi piaceva. L’ho visto sulla carta. È fuori dalle strade maggiori, non esageratamente lontano, e l’ho preso come meta.
Mentre mi incammino verso l’uscita del paese, un uomo con una tunica gialla e la faccia sudata mi chiede dove vado. In generale diffido da chi mi abborda, e da chi ha la faccia sudata, ma non posso neanche fare troppo il prezioso. Dico che vado a Sao. Mi guarda con l’aria perplessa e mi chiede: «Sao?». «Sì, Sao». Mi offre di portarmi in auto per tremila franchi. Gliene propongo due, e mi fa segno di seguirlo verso un’auto. È una vecchissima Peugeot giallastra ancora più scassata delle scassate auto di Mbour. La portiera non si chiude, e per metà del viaggio Barri (scopro che si chiama Barri) la tiene ferma con un braccio. L’altra metà del viaggio insiste nel cercare di chiuderla aprendola e poi sbattendola forte. Sempre invano.
Dopo diversi chilometri rallenta, accosta, si ferma e dice che bisogna prendere una pista poco visibile sulla sinistra. Non dico niente anche se ho un attimo di preoccupazione. Barri comunica poco e questo non mi piace. Risponde a monosillabi fuori luogo. Per tentare una conversazione avevo indicato le nubi nel cielo, chiedendogli se non siano inusuali nubi in Senegal in gennaio. Risposta: «Il cielo». Non sembra terribilmente sveglio e questo mi rassicura.
E poi arriviamo a Sao. Che è del tutto diverso da quello che mi aspettavo. Mi aspettavo un altro paesone brulicante e nero di sporcizia. Invece è uno sparso villaggio semivuoto, per lo più di capanne, che costellano la sabbia della savana fra i baobab. Appena scesi ovviamente accorrono i bambini con gli occhi spalancati come fosse arrivato un disco volante. Arriva un vecchio, alcune donne. Non capiscono cosa io voglia. Cerco di spiegare che sono curioso, vorrei fare un giro per il villaggio, se a loro non dispiace. La cosa sembra loro molto strana. Si offrono in moltissimi di accompagnarmi, di guidarmi. Il vecchio manda a chiamare una giovane donna molto bella e mi dice che lei mi può accompagnare. Se non fosse per il puritanesimo musulmano, mi sembrerebbe un’offerta ambigua. Alla fine più che di un accompagnatore avrei bisogno di qualcuno che mi tenga lontana la gente. Arriva festante un ometto con un tamburo su cui picchia come un forsennato e tutti ridono e battono le mani. Una ragazza accenna a ballare.
Mi spiegano che stanno battendo il miglio (danno per scontato che io sappia che il villaggio vive grazie al miglio, e che io conosca già tutto sulla coltivazione del miglio, ovviamente). Mi portano a vedere le donne che lo battono con enormi pestelli di legno dentro grossi recipienti di legno. Sono gli stessi pestelli in tutta l’Africa, ma ogni volta che li ho visti pestano qualcosa di diverso. Chiedo quanta gente vive nel villaggio e mi dicono che bisogna chiederlo alla scuola. C’è una scuola! Chiedo di andare alla scuola e Barri, insieme a un ragazzone molto scuro, gentile, che ci segue, mi guida verso la scuola, attraverso la sabbia, le caprette e i baobab.
Non è lontana. Qualche baracca e qualche muro colore della sabbia. Andiamo dal direttore che subito si affanna a spolverare una sedia del suo studio per farmi sedere. È un uomo intelligente, appassionato, dedito alla scuola, vivace e simpatico. Mi racconta dei programmi che gli cascano addosso dall’alto (gli ultimi vengono dal Canada), dell’insegnamento dell’arabo e della religione, delle difficoltà ma anche della voglia di studiare di tutti i bambini e, ci tiene molto a sottolinearlo, di tutte le bambine. L’ambiente è buono, l’Africa — mi dice sorridente — è così: un disastro sempre ma sempre euforica. Solo un cenno di sfuggita ai bambini «che qualche volta non sono attenti perché a casa non hanno abbastanza da mangiare». Parla con umiltà ma con consapevolezza dell’importanza capitale di quello che lui e gli altri quattro insegnanti della scuola fanno e cercano di fare per queste centinaia di bambinelli. Vorrei chiedergli di più sull’insegnamento religioso dell’islam nella scuola primaria ma ho paura che sia un argomento difficile; mi mostra gli orari dell’insegnante di arabo e religione, più o meno un’ora la settimana. E ci sono bambini cristiani? Si qualcuno — è la risposta — durante le ore di islam escono dalla classe. Esattamente come in Italia, al contrario. Ho una stretta al cuore per la stupidità umana, ma preferisco non parlare di questo.
Lo saluto e lo ringrazio molto, lui è felice dell’incontro, visibilmente. Mi congratulo con lui. Poi prima di andarmene, gli accenno che vorrei lasciare qualcosa per il materiale della scuola, i quaderni, le penne eccetera, e gli chiedo se posso dargli degli euro. Gli lascio una cifra cospicua. Lui chiama subito il suo assistente perché il passaggio di denaro sia ben pubblico. Ci salutiamo con molta cordialità: mi sembra quasi con commozione. Anche se non so perché. Barri, più previdente di me, non se n’è andato. Altrimenti non so come sarei ripartito da un villaggio sperso in una savana, dove l’unico mezzo di trasporto che ho visto è un vecchissimo asino. Gli propongo di portarmi verso nord, fino alla Route Nationale numero 2, quella cha va verso la Mauritania. Da lì dovrei poi poter ritornare con trasporti pubblici. Contrattiamo il prezzo a lungo e troviamo un ragionevole accordo.
Ripartiamo, con Barri che tiene sempre la portiera con la mano. È un tragitto lungo, su una strada sterrata polverosa e diseguale. L’auto sembra fatta solo di sabbia incrostata, ruggine e brandelli di antica plastica, eppure, fra distese aride e sparsi desolati villaggi, continua a camminare. Altre auto non ce ne sono. Guardo scorrere dal finestrino spalancato (il vetro non c’è più) questo tratto d’Africa. Penso che la maggior parte di noi umani vive più o meno come questi uomini, queste donne e questi bambini impolverati, non come vivo io. Quelli strani siamo noi, asserragliati e ben difesi nel nostro giardino di ricchezze e pulizia. Alcune ore dopo arriviamo a Khombole e ritrovo il lerciume nero dei paesi lungo le strade africane di passaggio, che però in Senegal raggiunge vette che non ho visto neppure in India. Forse è un effetto di risonanza fra Africa e Francia, il paese che, come dicono qui, «ci ha colonizzato». Mi manca il coraggio di cibarmi di cose preparate e mi accontento di arance, banane e pane. Cerco una via laterale solitaria per mangiare all’ombra e in solitudine ma dura poco, e in breve una ressa di bambini mi è intorno. Gioco con loro, faccio foto e le mostro nello schermo della macchina fotografica. Le bambine sorridono piene di vezzi. I bambini ridono e fanno i gradassi. Faccio l’errore di regalare dei biscotti e poi devo andare via perché si accapigliano per averne altri... Vedo un bus sconquassato e stracarico che parte nella direzione giusta e lo prendo. Arrivo a Thies che è già tardi e capisco che devo affrettarmi per non tornare a notte troppo fonda. Un vecchio gentile, con un lungo pastrano bianco mi accompagna alla gare routière , dove chiedo se c’è un bus per Mbour. C’è. Basta sedersi e aspettare che arrivino altre persone che vogliano andare a Mbour.
I trasporti in Africa funzionano così. Si aspetta. Ore. Seduti sul bus fermo o su una pietra, fra l’immondizia e le mosche della gare routière . Un intero continente passa un numero strepitoso di ore aspettando. Io sono europeo, e ne approfitto per leggere. Mi sono portato un piccolo libro che ho trovato nell’unico negozio della regione in cui c’era del cibo che non avesse l’aria sudicia: non lontano dalla zona più turistica di Mbour. È la storia di un giovane senegalese educato in una scuola coranica prima dell’arrivo dell’istruzione europea, che poi viene mandato alla scuola francese, arriva a Parigi e studia filosofia alla Sorbona. È una storia triste, sull’esitazione fra mondi diversi, sullo straniamento di essere africano in una cultura mondiale occidentale o forse sullo straniamento di essere umani.
Quando finalmente il bus parte, dopo ore di attesa, sono già avanti nella lettura, e l’Africa si è colorata delle inquietudini del libro. Guardo la savana scorrere dal finestrino aperto. Vicino, delle capanne; in lontananza, la sagoma nella bruma di un’industria. Arriviamo a Mbour che è buio. Mbour è la metropoli; dopo una giornata nella vastità dell’interno fa un effetto dantesco. Traffico violento lungo l’unica strada asfaltata. Nuvole di polvere illuminate dai fari. Rumori, buio e luci, confusione, odori, occhi spiritati della gente. Sembra l’anticamera dell’inferno. Il bus arriva nella grande gare routière . Scendo, compero delle arance, mi accorgo che il prezzo è raddoppiato per il colore della mia pelle ma tutto sommato non mi spiace. Poi mi rendo conto che la gare routière è proprio dietro la grande moschea rosa confettino che ho visto di passaggio un paio di volte. Aveva sempre l’aria chiusa, inarrivabile, e quando avevo chiesto al ristorante dove ogni tanto qui vado a mangiare, tenuto dall’unico bianco che ho incontrato nel paese, se potevo visitarla, mi aveva borbottato un mezzo no. Ma ora c’è la gente che ne sta uscendo per la preghiera della sera. Decido di provare a entrare. Male che vada mi diranno che non posso.
C’è una catenella che isola l’area della moschea, e al di là della catenella c’è più calma. Arrivo alla cancellata. Chi esce si rimette le scarpe. Mi levo i sandali zozzi, li prendo in mano e mi incammino nel parco. Per terra c’è un soffice tappeto di finta erba. I fedeli stanno uscendo, a frotte rade, come succede dalle chiese europee. Ma sono tutti uomini. Pressoché tutti di una certa età o anziani. Mi stupisco: hanno un’aria pulita, dignitosa, serena, calma. Mi salutano incrociandomi. In molti mi sorridono. In questo paese si sorride pochissimo ma qui mi sorridono. Mi chiedo che aspetto io abbia. Sono evidentemente in condizioni di pulizia miserevoli dopo una giornata di viaggio, ho le braccia scoperte, tutti hanno maniche lunghe, ho uno zainetto a spalle, ho un cappellaccio di paglia chiaramente fuori etichetta. E ovviamente ho una pelle bianca, bianca da fare luce, da queste parti. Ma mi sorridono, mi fanno un cenno gentile. È chiaro che sono contenti di vedere che sto andando alla moschea. Io temevo di essere cacciato o guardato con astio...
Arrivo alla porta. Cautamente, così a piedi nudi come sono, entro, faccio qualche passo guardandomi intorno. Un giovane si affretta verso di me con l’aria preoccupata. Mi dice qualcosa che non capisco. È chiaro che ho fatto qualcosa di sbagliato. Mi mostra le scarpe che ho in mano e capisco: la regola non è di non entrare nella mosche con le scarpe ai piedi: è di non portare comunque scarpe dentro... Esco subito dalla porta e appoggio le scarpe fuori, dove ce ne sono altre. Faccio per rientrare ma un uomo anziano si avvicina, mi sorride e dice qualcosa al ragazzo che mi ha ripreso. Prende le mie scarpe, le mette in un sacchetto di plastica scuro e le porta lui stesso dentro la moschea, ridandomele in mano sorridendo. Io imbarazzato cerco di dirgli di no, non ho paura che me le rubino, mi va benissimo lasciarle fuori... ma lui sorride e anche il giovane sorride. Allora prendo le scarpe, li ringrazio con lo sguardo e mi riavvio all’interno della grande moschea. Sono senza parole, esistono posti al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza.
Sono oramai usciti quasi tutti. C’è ancora qualcuno ma lo spazio è vasto e dà l’impressione di un grande vuoto. Di una grande calma. Di un grande silenzio. Mi siedo per terra, sui tappeti, e appoggio la schiena a un muro. Il contrasto con l’esterno non potrebbe essere maggiore. Fuori c’è l’inferno, qui c’è il paradiso. Tutto è pulito, impeccabilmente lindo. Sui muri, sulle colonne, c’è uno smalto bianco rilucente, nitido. I tappeti hanno un dignitoso arabesco verde scuro e nero, sono lunghissimi, semplici, eleganti, accoglienti. Distesi paralleli in file regolari. La luce è diffusa ma chiara. Gli archi e le colonne alzano lo sguardo e il cuore verso l’alto. Le poche persone ancora all’interno non parlano sottovoce, come si usa fare nelle chiese: parlano normalmente ma il loro tono di voce è calmo, quasi direi nobile. Non ci sono arredi, sfarzi, ostentazione di ricchezze, immagini di agonizzanti in croce, candele, oscurità, vecchi dipinti di facce stralunate, ori. C’è solo un grande spazio di serenità. Di accoglienza. Qualcosa di umano, terribilmente umano, dove il cuore del fatto di essere umano pare essere il lasciarsi andare all’essenziale, all’assoluto. E d’un tratto mi sembra di intravedere per almeno un momento il cuore a me nascosto di quest’Africa qui. Quest’Africa sporca, povera, affannata, svogliata, rissosa, bellicosa, caotica, maldestra, inelegante, che nasconde dentro di sé, nel luogo che per me sembra il più inaccessibile, la dignità serena di questi uomini, la meraviglia di questo spazio perfetto offerto all’uomo perché possa essere pienamente se stesso, la pace del cuore. Una pace del cuore profonda. E per un momento, a me, ateo convinto e senza esitazione alcuna, sembra di capire cosa possa significare per tanta gente l’abbandonarsi all’onnipotenza totale di un Dio che non è padre ma è vero e completo Assoluto.
Esco con una grande pace nel cuore. Forse sono solo semplici reazioni fisiche a una giornata che fra il caldo, il viaggiare, la sete, gli incontri e lo stress, è stata faticosa. Oppure forse ho imparato qualcosa, una piccola cosa in più, di questa vasta complessità che è l’umanità.

Corriere La Lettura 31.1.16
Johann Jakob Bachofen
Il padre del matriarcato
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario
Tradusse leggi, indagò miti, lesse documenti Così il genio di Bachofen svelò al mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi


Quando pubblicò Il matriarcato , nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato , ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade . Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.

Corriere La Lettura 31.1.16
Elettroni come acque vorticose: un segreto svelato con il grafene
di Stefano Gattei


Il 15 gennaio, sulle pagine della rivista «Science», Marco Polini dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova ha annunciato la scoperta di un nuovo comportamento degli elettroni, che oltre certe temperature diventano simili a un fluido molto viscoso. Il risultato è stato ottenuto in collaborazione con l’Università di Nijmegen, in Olanda, e con due altri centri di eccellenza, la Scuola Normale Superiore di Pisa e il Cnr. Particolarmente importante anche l’apporto di Andrej Gejm e Konstantin Novosëlov, dell’Università di Manchester, vincitori del Premio Nobel per la fisica nel 2010 per la scoperta del grafene.
E proprio questo materiale dalle eccezionali proprietà chimico-fisiche ha giocato un ruolo centrale nella scoperta: il nuovo comportamento degli elettroni è stato infatti osservato incapsulando fogli di grafene ultrapulito tra cristalli di nitruro di boro. A «temperature superiori a quella dell’azoto liquido (–196°C)» gli elettroni sono descritti dalle medesime equazioni usate per il comportamento vorticoso dell’acqua in un corso ricco di ostacoli, o quello dell’aria in zone di turbolenza (vicino alla vela di una barca, per esempio, o all’ala di un aereo).
I risultati sperimentali aprono la strada alla creazione di una nuova generazione di laser a semiconduttore la cui modulazione in frequenza è «controllata» tramite il grafene. Le applicazioni sono innumerevoli: dalla rilevazione di esplosivi o sostanze inquinanti alla sicurezza delle comunicazioni wireless, dal controllo ambientale alle diagnosi mediche (per esempio, con dispositivi miniaturizzati per catturare immagini in modo sicuro e non invasivo).

Repubblica Domenica 31.1.16
Calais
Viaggio al termine dell’Europa
Curdi, iracheni, siriani ammassati in una landa desolata a quaranta chilometri da Calais, in attesa di raggiungere la terra promessa, il Regno Unito: “Non importa quanto sia pericoloso, i rifugiati sono pronti a tutto”. Il nostro racconto da la “Jungle”, il nuovo inferno dei vivi
di Anais Ginori


CALAIS A MENO DI DUE ORE DA PARIGI si nasconde una vergogna per l’Europa. L’accampamento di migranti a Grande-Synthe è un’immensa cloaca in cui galleggiano tende e rifiuti. Il cartello all’ingresso annuncia la costruzione di un nuovo “ecoquartiere”. Immagini di villini a due piani, con viali alberati e parco giochi per bambini, un numero di telefono per comprare le nuove abitazioni. È l’unica traccia di una civiltà che sembra scomparsa, inghiottita nel fango. All’esterno i gendarmi controllano le borse dei profughi curdi, iracheni, siriani ammassati in questa landa desolata a una quarantina di chilometri da Calais. Qualche giorno fa c’è stata una sparatoria nella notte. Soffia un vento gelido misto a pioggia, l’aria è tesa. «Cosa siete venuti a vedere? Non siamo animali in uno zoo» dice un migrante che chiede di spegnere la telecamera. La presenza di giornalisti infastidisce, anche le Ong chiedono discrezione.
Nell’accampamento entrano solo due organizzazioni internazionali, Médecins du Monde e Médecins Sans Frontières. «Di solito ci occupiamo di missioni in zone di guerra o paesi dove non c’è più uno Stato. Non avremmo mai pensato di dover intervenire in Francia, nel 2016». Angélique Muller, sguardo limpido e un viso pieno di lentiggini, è infermiera. Fino a qualche mese fa era in Centrafrica con Msf per organizzare una campagna di vaccinazioni. Ha lavorato in Etiopia, Congo, Liberia, Iraq, ma non ha mai visto niente di simile. Nei cinque ettari di terreno paludoso, a ridosso del mare, cercano di sopravvivere quasi duemila persone. La clinica mobile di Msf propone visite mediche tre volte a settimana dando la priorità ai bambini, che sono circa duecento. «Ci sono stati casi di rosolia, di scabbia. Le patologie più diffuse sono respiratorie e vivendo in queste condizioni è difficile guarire. La notte la temperatura scende anche a meno sei gradi».
Una nuova giungla. Calais è diventata famosa per la “Jungle”, così è stata ribattezzata la bidonville di migranti che sognano di andare nel Regno Unito. Con l’esodo di quest’estate e le misure di sicurezza volute dalle autorità inglesi, l’emergenza si è spostata un po’ più a
nord sulla costa. Grande-Synthe è vicina a Dunkerque, dove i passeurs, i trafficanti, dicono sia ora più facile attraversare la Manica. Nell’ultimo anno venti migranti sono morti cercando di fare gli ultimi chilometri di un lungo viaggio iniziato nel Sud del mondo. Fino a qualche mese fa il tragitto clandestino avveniva soprattutto con i camion. Adesso i tir devono superare una barriera con sonde per rintracciare Co2 e battito cardiaco. Intorno alla zona portuale gli inglesi hanno sovvenzionato la costruzione di una recinzione di filo spinato alta cinque metri. La frontiera è sigillata. Le ultime morti sono avvenute dentro l’Eurotunnel: uomini che hanno tentato di agganciarsi ai convogli dei treni per Londra. L’accesso al traforo è stato circondato da un fossato pieno d’acqua, come nelle antiche cittadelle fortificate.
«Non importa quanto sia pericoloso, molti migranti sono pronti a tutto» racconta Barbara Jurkiewicz, volontaria di Vie Active, associazione che distribuisce quattromila pasti a la Jungle e si occupa di assegnare i nuovi millecinquecento posti dentro ai container appena sistemati all’ingresso del campo. «È un rifugio che offriamo da cui si può entrare e uscire liberamente. Per i profughi è indispensabile sapere che se ne possono andare di notte, quando avvengono i passaggi clandestini nel Regno Unito» dice Jurkiewicz, grandi occhi azzurri e cascata di riccioli biondi. Nata a Calais ventotto anni fa, è cresciuta osservando dalle finestre i migranti accampati nei giardinetti sotto casa. Venivano dall’ex Jugoslavia, erano gli anni Novanta. La città del nord ha imparato allora a convivere con profughi di guerre lontane. A lungo i giovani di Calais continuavano a chiamare gli stranieri “kossovari”, anche se poi sono diventati etiopi, afgani, iracheni, sudanesi, ceceni, eritrei, curdi. All’inizio degli anni Duemila la Croce Rossa aveva costruito un centro di accoglienza che è durato poco. L’allora ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, aveva ordinato di smantellarlo perché “incitava gli immigrati a venire”. I profughi si erano spostati in città, occupando vari palazzi, prima di essere di nuovo evacuati. Dieci anni fa è sorta l’immensa bidonville tra mare e boscaglia nella zona industriale. La “Jungle” è stata inutilmente distrutta più volte dalle autorità.
Con l’emergenza di quest’estate, quando l’Europa ha scoperto il nuovo esodo alle porte, anche il governo socialista si è dovuto rassegnare a occuparsi di questo non luogo della disperazione. La popolazione della giungla è aumentata fino a cinquemila persone. La zona di container inaugurata nella bidonville due settimane fa è una prima concessione dello Stato. I funzionari dell’Office français de l’Immigration et de l’Intégration (Ofii) girano tra le baracche per convin- cere i profughi a spostarsi in centri di accoglienza per i richiedenti asilo. «Ma la maggior parte non vuole restare in Francia, spera ancora di poter andare nel Regno Unito. Cerchiamo di spiegare loro che si trovano in un’impasse» spiega Didier Leschi, direttore dell’Ofii.
Angélique porta cibo, vestiti e coperte ai profughi della Jungle. È una delle tante volontarie di Calais che testimonia ancora solidarietà. «C’è questa leggenda degli immigrati violenti, ma sono una donna e vengo da anni nella giungla senza aver mai avuto problemi». La gente del Nord ha sempre avuto un cuore grande. I famosi “ch’tis”, i terroni della Francia, hanno una tradizione prima comunista e poi socialista. Qualcosa però sta cambiando, e molto velocemente. Marine Le Pen ha rischiato di vincere la presidenza della regione un mese fa. In alcune città, come Grande-Synthe, il Front National ha superato il quaranta per cento. Sono anche nate alcune associazioni anti-immigrati, come “Calaisiens en colère” e “Sauvons Calais” con militanti xenofobi che si fronteggiano con i No Borders, movimento di anarchici soprattutto tedeschi e olandesi insediati nella Jungle che portano aiuto ai profughi e organizzano blitz di rivendicazione spesso violenti.
Il sindaco Natacha Bouchart ha chiesto di mobilitare l’esercito dopo che una manifestazione di migranti è sfociata nell’assalto ai traghetti.
Calais è il capolinea dell’Europa. È anche un viaggio nel futuro di un continente che pensa di risolvere il problema dell’immigrazione alzando nuove barriere. Se e quando finirà Schengen, altre giungle nasceranno alle frontiere. «Per noi il lavoro è molto frustrante » confessa Angélique Muller di Msf. «Sappiamo che la soluzione può arrivare solo dai governi». A fine febbraio sarà inaugurata una tendopoli a un chilometro dalla cloaca di Grande-Synthe. L’organizzazione fondata durante la guerra in Biafra da un gruppo di medici tra cui Bernard Kouchner ha deciso di investire oltre due milioni di euro per dare rifugio a millecinquecento persone. Sarà un campo profughi come quelli che si vedono accanto alle zone di guerra. In quarant’anni di attività, Msf non ha mai dovuto fare niente di simile in Francia. «L’abbiamo concepito come un intervento temporaneo, ma potrebbe durare più a lungo» ammette Muller, capo del progetto. È un crudele gioco dell’ipocrisia: «Continuando a costruire muri in Europa aumenteranno soltanto le vittime». In primavera, Angélique prenderà qualche settimana di riposo. Di solito, quando finisce una missione deve fare un lungo volo. Questa volta, per tornare a casa a Nancy, le basterà prendere un treno.

ONLINE
SU REPUBBLICA.IT IL VIDEORACCONTO DI ANAIS GINORI E MASSIMILIANO CAMAITI DA CALAIS. LE FOTO IN QUESTE PAGINE SONO INVECE DI GIULIO PISCITELLI: IN ALTO, NEGOZI IMPROVVISATI E UN BARBIERE NEL CAMPO PROFUGHI DI CALAIS LA “JUNGLE”; IN BASSO, LE TENDE DEI RIFUGIATI

Repubblica Cult 31.1.16
Genio e regolatezza
Chi ha detto che il tormento sia alla base della creatività? Davvero bisogna soffrire per realizzare capolavori? Una ricerca sostiene il contrario
Kathryn Graddy della Brandeis University del Massachusetts ha analizzato le opere di 48 maestri della pittura da Degas a Rothko
E ha scoperto che nei momenti più sereni della loro vita hanno firmato i dipinti più quotati
Ma vale anche per Kafka e per Virginia Woolf
di Alberto Manguel


L’idea che il tormento sia alla radice della mente creativa ha le sue origini in un frammento attribuito ad Aristotele, o meglio, alla scuola aristotelica. Oggi sarebbe smentita dalla ricerca di Kathryn Graddy della Brandeis University del Massachusetts. Prendendo in considerazione le opere di 48 artisti europei e americani – da Degas a Monet; da Pollock a Rothko – la studiosa ha scoperto che nei periodi più sereni della loro vita – non in quelli tormentati – questi maestri hanno realizzato i dipinti che oggi valgono di più. Ma da Aristotele in poi, filosofi, artisti, psicologi e teologi hanno tentato di trovare nello stato quasi indefinibile della malinconia la fonte dell’impulso creativo e perfino, forse, del pensiero stesso. L’essere malinconico, triste, depresso, infelice (secondo la credenza popolare) è una cosa buona per l’artista. Il tormento, si dice, produce la buona arte.
Questa convinzione ne implica altre due, più pericolose. La prima è che esista una condizione esistenziale in cui non siamo tormentati. Non soddisfatti dalla storia che una volta nell’Eden eravamo felici e ora ci guadagniamo il pane con il sudore della fronte, siamo circondati da pubblicità che ci dicono che possiamo raggiungere l’Eden con l’aiuto dell’American Express e assomigliare alla prima Eva con l’aiuto di Gucci. La seconda convinzione implicita è che l’arte sia in qualche modo da biasimare perché ci rende infelici. Il Controllore, nel romanzo distopico di Aldous Huxley
Il mondo nuovo (1932), giustifica sinteticamente la decisione di eliminare l’arte dalla società umana: «Questo è il prezzo che dobbiamo pagare per la stabilità. Bisognava scegliere tra la felicità e ciò che la gente chiamava arte. Abbiamo sacrificato l’arte». Naturalmente, a parte il fatto che le nostre emozioni sono meravigliosamente caleidoscopiche, sarebbe più giusto dire che è in una condizione di felicità che gli artisti lavorano meglio. Kafka trovava sollievo alla disperazione esistenziale e alla sofferenza fisica solo quando scriveva, ma se improvvisamente si sentiva felice e scriveva, o se cominciando a scrivere si sentiva improvvisamente felice, non lo sapremo mai. Possiamo dire che Dante, nel suo triste esilio, ebbe dei momenti di felicità, quando nel corso del poema incontra Casella sulla spiaggia del Purgatorio o Brunetto Latini sulla sabbia infuocata dell’Inferno, e possiamo supporre che dalla memoria del beato passato sorse il poema, nonostante quanto dice Francesca sul ricordo del tempo felice. Non furono gli attacchi di pazzia a portare Virginia Woolf a scrivere La signora Dalloway: fu piuttosto grazie ai momenti in cui ragionava con intelligenza e al suo orecchio attento alla musica del linguaggio.
Il mito secondo il quale l’artista ha bisogno di soffrire per creare, racconta la storia nel modo sbagliato. Non c’è dubbio che soffrire sia la sorte dell’uomo e, come disse Omero, gli dèi ci mandano le sofferenze perché i poeti abbiano qualcosa da cantare. Sì, ma il canto viene dopo, non nelle contorsioni del tormento, ma nel ricordo di quella sofferenza e nella tregua ad essa fornita dalla scrittura «Senza farsi mancare da bere e con un gran fuoco».
Un secolo fa, Thomas Carlyle descrisse lo scrittore con queste parole: «Con i suoi copy- rights e i suoi copy-wrongs, in una squallida soffitta, nel suo vecchio cappotto; governa (perché questo è quello che fa), dalla sua tomba, dopo la morte, intere nazioni e generazioni che gli dettero, o non gli dettero, del pane quando era vivo». È molto più probabile, come tutti sappiamo, che non gliene abbiano dato.
Quindi lui, o lei, si siede a un tavolino, e fissa una parete nuda, o magari piena di cose e cosette, di cartoline, di foto, di vignette e frasi memorabili, come la parete della cella di una prigione da cui non c’è scampo. Sul tavolo, gli strumenti del mestiere. Una volta erano carta e penna, o una traballante macchina da scrivere, ma oggi ovviamente parliamo di un programma di videoscrittura, di uno schermo che emana un misterioso bagliore verde come la kryptonite, che assorbe le energie di questo superman o di questa superwoman. Che altro c’è sul tavolo? Una collezione di figure totemiche che dovrebbero portare fortuna e allontanare gli spiriti maligni della distrazione, della pigrizia, del rimandare le cose... oggetti magici per proteggersi dalla maledizione dei gelidi spazi in bianco. Una tazza vuota di tè o caffè. Una pila di fatture non pagate. Da dove viene quest’immagine patetica dello scrittore?
In Grecia e a Roma ci furono, a volte, scrittori che apparivano soli e miseri, come il cinico Diogene nel suo barile, o il poeta Ovidio, esiliato nella baraccopoli di Tomis. Ma erano casi specifici, in condizioni di miseria dovute a particolari circostanze, per aver scelto di vivere senza concedersi nessuna comodità, come Diogene, o per punizione, per aver detto la verità, come Ovidio. Fu forse nel Medioevo che si formò l’immagine del povero scriba: contorto dal freddo, rattrappito nel suo scranno, chino sulla sua pergamena, mentre gli occhi si sforzano di cogliere la luce fioca. Ovunque sia nata questa immagine, essa perdura ancora. Lo scrittore è in un angolo, lo scrittore è lontano dalla pazza folla. E, naturalmente, lo scrittore è povero. È inutile controbattere che sono un’infinità gli scrittori che non rispondono a questo lugubre criterio. Ci sono scrittori della strada, come i poeti provenzali o Jack Kerouac. Ci sono scrittori pieni di soldi come J.K. Rowling. Ma l’immagine è stata seminata e ha messo profonde radici nella mente della gente: lo scrittore è una persona solitaria, scontrosa e povera. Perché questa immagine è così attraente? Come tante creazioni letterarie che nascono come colpi di genio e finiscono col diventare noiosi luoghi comuni l’immagine dello scrittore che vive in una soffitta è una mera creazione letteraria, nata, senza dubbio, per descrivere un certo scrittore in un dato momento, in un romanzo o una poesia oramai dimenticati. Solo più tardi diventerà il cliché che oggi ci lascia tutti perplessi. Quando un noto editore francese venne a sapere che Balzac era uno scrittore promettente, decise di offrire al giovane duemila franchi per il prossimo romanzo. Trovò l’indirizzo in un quartiere un po’ decaduto di Parigi e, vedendo che la sua preda era un uomo di pochi mezzi, si propose di ridurre la sua offerta a mille franchi. Quando arrivò sul posto, scoprì che Balzac viveva nel sottotetto in una chambre
de bonne, e così abbassò la sua proposta a cinquecento franchi. Infine, bussò alla porta ed entrò in quella piccola stanza. Vedendo che il pranzo di Balzac si limitava a un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua, l’editore aprì le braccia e disse: «Monsieur Balzac, io sono il suo più fervido ammiratore e vorrei offrirle duecento franchi per il suo prossimo libro!».
Essere malati, essere depressi, essere poveri non si confà al genio creativo; si confà solo all’idea che al ricco mecenate piace avere dell’artista per giustificare la propria spilorceria. Un aneddoto racconta che il magnate Sam Goldwyn voleva acquistare i diritti di una delle commedie di George Bernard Shaw. Goldwyn, per non smentirsi, continuava a mercanteggiare sul prezzo e, alla fine, Shaw si rifiutò di vendere. Goldwyn non riusciva a capire il perché. «Il problema, signor Goldwyn», disse Shaw, «è che a lei interessa solo l’arte... e a me interessa solo il denaro».
Traduzione di Luis E. Moriones

Repubblica Cult 31.1.16
Cattelan: “L’ansia non si addice all’arte di oggi”
intervista di Dario Pappalardo


“Prima c’era chi riusciva ad anticipare sentimenti che sarebbero diventati quelli di tutti. Ma ora la realtà supera ogni cosa. E nessuno detta più l’agenda”
«Il tormento oggi è nella società, riguarda tutti. Nel XXI secolo, associare il tormento agli artisti è qualcosa di ridicolo ». Per Maurizio Cattelan quello del genio artistico tormentato è ormai solo un mito. Per di più grottesco. Lui, che ha lasciato l’arte attiva cinque anni fa con la grande retrospettiva al Guggenheim di New York, si definisce «tranquillo, sempre ossessionato dalle immagini». Le stesse che scova e mette insieme con il fotografo Pierpaolo Ferrari nella rivista Toilet Paper. «Se sono pessimista, e oggi mi appare tutto nero, è per quello che vedo e leggo. L’arte non c’entra niente. L’arte non sta interpretando questo momento storico».
Cattelan, parlare di geni tormentati non ha più senso?
«Quella degli artisti è la categoria che sta meglio. Non c’è più qualcuno che rappresenta l’ansia di domani. Come era accaduto per Van Gogh, per Baudelaire. Prima gli artisti anticipavano un sentire comune. Oggi l’agenda non è nelle loro mani. Nessun artista sta dicendo o facendo qualcosa di più forte di quello che sta accadendo nel mondo ».
Ma l’arte non è l’espressione di un tormento?
«Un artista soffre come può soffrire chi va in fabbrica, o lavora a una scrivania. E poi chi è davvero l’artista oggi? Non vedo contenuti forti. Nell’arte c’è un momento di involuzione mai visto prima. Non riesce a stare al passo con quanto accade nella quotidianità».
Non le è mai capitato di realizzare opere dettate da un particolare stato d’animo?
«Uno stato d’animo non influenza un’opera d’arte. Nel mio caso, i lavori più interessanti sono sempre stati il frutto di grande ansia. Ma l’ansia può essere il veicolo, non la benzina per produrre qualcosa. Se dall’ansia nascessero capolavori, ne saremmo pieni, non sapremmo dove metterli. L’arte rappresenta un’ossessione continua, non è una sorta di interruttore che puoi spegnere o riaccendere. La creazione di un’opera d’arte è una sorta di viaggio personale difficile, solitario, doloroso, rivelatorio. Ma il tormento non ti rende necessariamente creativo ».
Quindi smentiamo categoricamente che il tormento sia un motore per l’arte, si tratta solo di un cliché? Ma, se guardiamo al passato, non si potrebbe affermare il contrario?
«Se guardiamo alla storia, le guerre non hanno mai prodotto niente. Il Rinascimento si è verificato perché un gruppo di banchieri come mecenati hanno finanziato una serie di artisti, garantendo loro, se non la serenità, la tranquillità economica. Insomma, ci sono stati momenti in cui il benessere, e non l’instabilità, ha prodotto grandi cose».
C’è una parte del mondo che vive nel benessere, però… «Oggi chi vive nel benessere rischia di risultare volgare con quello che usa per rappresentarsi».
E gli artisti?
«Nessun tormento, nessuna estasi. Rispetto a ieri, il calendario non è più nelle nostre mani».

Repubblica Cult 31.1.16
La sfida infinita tra l’uomo e il computer
di Piergiorgio Odifreddi


È morto domenica scorsa Marvin Minsky, premio Turing per l’Informatica e uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale. Al congresso di Darmouth dell’estate 1956 fu infatti lui a lanciare, insieme a John McCarty e Herbert Simon, il sogno di imitare attraverso i programmi di un “cervello elettronico” i pensieri di un cervello umano. Un sogno già anticipato da Alan Turing una dozzina d’anni prima, ma formulato più precisamente. In quel congresso fu lanciata la sfida di portare in dieci anni il computer a «battere il campione mondiale di scacchi, dimostrare nuovi teoremi matematici e ispirare le principali teorie psicologiche ». Poteva sembrare una boutade, e ci volle un po’ più del tempo previsto, ma alla fine gli obiettivi sono effettivamente stati raggiunti. Il più sorprendente e conosciuto è stato quello degli scacchi. Le partite giocate e perse da Gary Kasparov fecero storia, ormai più di vent’anni fa. E a tutt’oggi lo scacchista russo continua a pensare che ci siano stati dei trucchi, perché non riesce ad accettare il fatto che un computer abbia potuto fare delle mosse “così umane”. Proprio questa settimana, poi, è stato annunciato un analogo risultato per il più complicato gioco del “go”. Ormai siamo in gara col computer, e Minsky aveva visto giusto quando aveva previsto che non ci sarebbe stata partita.

Repubblica Cult 31.1.16
Elogio del limite nell’era della dismisura
Tra filosofia e stili di vita, Remo Bodei indaga a fondo su un concetto che la nostra contemporaneità ha dimenticato. E che invece risulta più attuale che mai
di Franco Marcoaldi


Nella fortunata collana del Mulino “Parole controtempo”, tesa a disegnare una sorta di lessico necessario che ci aiuti ad affrontare i marosi del presente, compare ora un titolo dedicato al Limite. A firmare il volume è il filosofo Remo Bodei, che ci offre una disamina quanto mai vasta e modulata di questa parola. Sia in termini storici, che disciplinari. Perché la questione del limite, va da sé, riguarda gli ambiti più diversi. Tanto più oggi, a fronte di uno straordinario sviluppo tecnico-scientifico che si riverbera su scelte individuali un tempo impensabili. È vero, non bisogna mai dimenticare i nuovi limiti e confini e muri che per ragioni economiche, religiose, etniche, politiche, vengono eretti quotidianamente. Altrettanto indubbio che l’irresistibile avanzamento di alcune discipline (biotecnologie, farmacologia, neurochirurgia, informatica) finisce per marcare nel profondo le nostre esistenze, spingendoci sempre più avanti. Non si spiegherebbe altrimenti il progressivo passaggio dall’umano al cosiddetto post-umano, con il futuro avvento di uomini bionici, ovvero di «individui composti di carne, silicio, metallo o plastiche».
Bodei opportunamente ci ricorda come sia inscritto nella nostra stessa natura il desiderio di oltrepassare i confini prestabiliti. Cosa altro è la modernità, se non una continua ricerca del “plus ultra”, dell’ignoto? Eppure, come negare che la stagione in cui viviamo ci appaia al contempo «esaltante ed angosciosa»? Perché, certo, inebriano le nuove frontiere che ininterrottamente ci sfidano, ma quanta fatica, e angoscia, nel dovergli stare dietro. Quasi si aprisse una forbice crescente tra l’inevitabile lentezza evolutiva dei convincimenti di ciascuno e l’incredibile rapidità dei cambiamenti. Non è facile, per l’individuo, stabilire da sé il limite oltre cui non avanzare. E ancora meno facile è la condivisione di scelte che riguardano l’intero genere umano. Fermare la folle logica di rapina nei confronti del pianeta, parrebbe un atto di puro buon senso. Eppure siamo ben lontani dall’aver preso tale decisione di autolimitazione collettiva.
La verità è, prosegue Bodei, che tracciare una «linea di demarcazione tra buono e cattivo, lecito e illecito», è sempre più arduo. «In mancanza di regole oggettive o intimamente condivise, gli individui sono pertanto sempre più indotti ad adattarsi a una paradossale morale provvisoria permanente». Non è detto che questo sia, di per sé, un male. Mentre sarebbe buona cosa volgere indietro il nostro sguardo per ripescare dal patrimonio della civiltà certe parole care agli antichi e finite oggi nel dimenticatoio: “misura” ad esempio, suggerisce l’autore. Nell’età della “dismisura”, ci aiuterebbe a ricordare il limite ultimo e ineluttabile della nostra esistenza: la morte.
IL SAGGIO Limite di Remo Bodei ( Il Mulino pagg. 128 euro 12)