domenica 31 gennaio 2016

Il Sole 31.1.16
Per il bene della «res publica»
Scommettere sulla famiglia
di Bruno Forte
Arcivercovo di Chieti-Vasto


Qual è la posta in gioco nell’attuale dibattito parlamentare sulle unioni civili riguardo al bene comune? La risposta a questa domanda richiede che si rifletta sui valori di fondo implicati nelle decisioni da prendere.
Mi sembra che essi siano fondamentalmente tre: i diritti del cittadino, i suoi doveri verso la “res publica” e i doveri della stessa nel promuovere il bene di tutti, per tutti. Tra i diritti del cittadino rientra certamente quello di essere rispettato nella sua dignità di persona e nella libertà e autonomia delle sue scelte nel gestire la propria vita e nello stabilire e coltivare le relazioni stabili e durature, nell’ambito delle quali intenda viverla: da questo punto di vista, chi sceglie di costruire un patto di vita stabile con una persona di sesso diverso o dello stesso sesso, può avanzare la richiesta che i diritti connessi a un tale rapporto siano pubblicamente riconosciuti e garantiti. Si tratta di diritti personali che hanno una ricaduta sociale e pubblica e che come tali possono essere regolamentati dal legislatore.
A questa domanda di tutela dei diritti va però connessa quella - da essa inseparabile - del rispetto dei diritti altrui e della “res publica” e dell’osservanza dei doveri che ciò naturalmente comporta. Fra questi c’è il rispetto del dettato costituzionale, che all’articolo 29 esplicitamente afferma: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». La tutela dei diritti connessi alle cosiddette “unioni civili” non potrà pertanto essere attuata a scapito della famiglia, riconosciuta dalla Costituzione quale «società naturale fondata sul matrimonio» (l’uso del verbo «riconoscere» mostra chiaramente come il valore e il diritto della famiglia preesista a ogni arbitraria decisione contingente). La pari dignità dei coniugi esige non solo che i loro diritti siano tutelati, ma anche che il bene dell’unità familiare sia misura decisiva per il riconoscimento e la realizzazione dei diritti personali.
In particolare, l’articolo 30 della Costituzione afferma il «dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio», in tal modo affermando anche il diritto dei figli a ricevere da chi ha dato loro la vita tutto il necessario per la sussistenza, la crescita, l’istruzione e l’educazione. Vengono così messi in luce accanto ai diritti dei coniugi quelli dei figli, da promuovere e tutelare fino al punto che se i genitori risultassero incapaci a farlo lo Stato deve provvedere adeguatamente: «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti». La promozione e tutela della famiglia, riconosciuta come bene fondante, esige dunque l'attenzione ad essa in tutte le sue componenti, sì che i diritti e doveri dei coniugi siano contemperati con quelli dei figli e della loro crescita armonica e integrale.
Questa riflessione aiuta a comprendere le riserve da esprimere in particolare circa la cosiddetta “stepchild adoption”, l’adozione da parte del partner di una coppia omosessuale unita civilmente del figlio o dei figli dell’altro. Dal punto di vista dei minori quest’adozione dovrà misurarsi col diritto naturale di essi ad avere una relazione educativa che implichi la reciprocità dei sessi, necessariamente richiesta nell’atto riproduttivo che ha dato loro la vita: come la nascita è frutto dell’azione congiunta di un padre e di una madre, così la crescita dei figli non può ignorare il loro naturale bisogno di relazionarsi a genitori legati dalla reciprocità maschile - femminile. All’obiezione che tutto questo in tanti casi della vita non viene a realizzarsi, si deve rispondere che ciò non può essere ragione sufficiente a che la legge codifichi come diritto una tale possibilità. Detto con parole diverse, il diritto naturale dei figli ad avere un padre e una madre non solo nell’atto generativo, ma nell’intero processo della loro crescita ed educazione, va rispettato e tutelato in tutti i modi in cui la legge possa farlo. L’adozione del figlio del partner da parte di una coppia dello stesso sesso implicherebbe il venir meno di uno dei ruoli fondamentali nella crescita della persona, quello paterno o quello materno, a favore di una genitorialità sessualmente univoca e perciò non equiparabile a quella naturale, senza contare la complessità dei rapporti affettivi in cui il minore verrebbe a trovarsi in relazione da una parte ai genitori naturali, dall’altra al genitore aggiunto dello stesso sesso del partner.
Queste riflessioni sono dettate da una cura per l’umano nella sua integralità, che non ha alcun intento polemico o discriminatorio: come ha affermato in maniera chiara Papa Francesco nel suo discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione della recente inaugurazione dell'Anno Giudiziario (22.01.2016), «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione... La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità».
Citando il grande Papa del dialogo, Paolo VI, Francesco ha poi aggiunto: «Per mezzo del matrimonio e della famiglia Iddio ha sapientemente unite due tra le maggiori realtà umane: la missione di trasmettere la vita e l’amore vicendevole e legittimo dell’uomo e della donna, per il quale essi sono chiamati a completarsi vicendevolmente in una donazione reciproca non soltanto fisica, ma soprattutto spirituale». In tal modo, Dio «ha voluto rendere partecipi gli sposi dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna» (12 febbraio 1966).
Allo stesso tempo, Papa Francesco ha voluto riaffermare che questa chiara scelta della Chiesa a sostegno della famiglia naturale non implica alcuna esclusione verso altri che vivano situazioni diverse, in contrasto col disegno divino sull’umanità e il suo sviluppo, e che comunque «continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
Scommettere sulla famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna non è contro nessuno, ma a favore di tutti perché l’unione matrimoniale di un uomo e di una donna, vissuta nella fedeltà e aperta alla procreazione, è garanzia della crescita autentica dell’umanità e della socialità di ciascuno. Nel sostenere la famiglia «società naturale fondata sul matrimonio» sarà, insomma, la “res publica” tutta intera a trarne vantaggio per il suo presente e il suo futuro.

Il Sole Domenica 31.1.16
Il mondo islamico
Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini


Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale. Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità. Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati. Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità. Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo. Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente. Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più. L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati. Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata. L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.

Il Sole Domenica 31.1.16
Un libro, una vita
Alessandro Pansa
Io, capo della Polizia, leggo Marcuse
di Stefano Brusadelli


«Marcuse aveva previsto tutto. Basta rileggere quello che scriveva cinquant’anni fa nell’Uomo a una dimensione. Secondo lui i soggetti rivoluzionari non sarebbero stati più gli appartenenti alla classe operaia, ormai integrati nel sistema, ma, cito testualmente “il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono fuori dal processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e situazioni intollerabili. La loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza...“». Se una rivisitazione del filosofo-simbolo della contestazione sessantottina (e della lotta a qualsiasi potere costituito) è ormai doverosa, la circostanza che a incaricarsene sia Alessandro Pansa, il capo della Polizia, ma anche uomo di buone e vaste letture, dimostra quanto i libri siano il terreno più propizio per la contaminazione tra storie, esperienze e sensibilità diverse.
Pansa lesse per la prima volta L’uomo a una dimensione a 17 anni, all’immediata vigilia del ’68. E racconta che ne fu conquistato per due motivi. «Il primo è che sollevava il tema del cambiamento, avvertito fortemente da tutta la mia generazione. Il secondo era che indicava tale prospettiva fuori dal marxismo, che veniva anzi criticato. Una sorta di riscatto per chi, come me, era tra i pochi non marxisti fra i suoi coetanei. Rilessi il libro molti anni più tardi, nel 2003, quando divenni capo della Direzione per l’Immigrazione, e mi stupì non solo l’esattezza della sua previsione sulla potenzialità eversiva dell’immigrazione, ma anche la diagnosi sulla non neutralità delle tecnologie, sul loro ruolo di strumento di dominio sugli esseri umani. E tutto questo, scritto a metà degli anni ’60, quando i profughi non arrivavano in Occidente a milioni e internet ancora non esisteva!».
Nella mente del capo della Polizia, l’antica suggestione del cambiamento, da lui inteso come costruzione di un sistema in cui il maggior numero possibile di esigenze individuali riescano ad essere soddisfatte, non ha mai cessato di operare. Ed è a causa di quella fascinazione, del resto, che ha deciso di parlare dell’Uomo a una dimensione come del libro della sua vita. Ma da questo punto di vista il pensiero di Marcuse, sia pure così acuto per altri versi, gli è sempre apparso monco, se non contraddittorio. «La trasformazione sociale e politica non può verificarsi nel modo da lui prospettato, perché la liberazione di ogni tipo di istanze individuali non produce mai un interesse collettivo, bensì anarchia. Dunque deve essere sempre un’autorità ad assicurare questo riequilibrio tra esigenze singole e collettive. E tale operazione, tutt’altro che facile, può avvenire solo per l’azione di un personaggio capace di cambiare la storia stando però con i piedi dentro la storia».
A questo proposito Pansa cita un’altra lettura giovanile che è stata per lui molto importante. Si tratta de Gli eroi, pubblicato al filosofo scozzese Thomas Carlyle nel 1841. Una galleria di grandi figure (da Odino a Napoleone passando per Dante, Rousseau, Cromwell) che hanno saputo cambiare il loro tempo. «In quei ritratti ho sempre scorto l’identikit ideale dei leader. Non superuomini alla Nietzsche, collocati sopra il resto del genere umano e sprezzanti verso di esso, ma figli del loro tempo capaci di agire con la forza delle idee e dell’esempio. Una categoria nella quale oggi potremmo annoverare personaggi come Gorbaciov, Bill Gates, Papa Francesco. Capaci di rompere un ordine e passare a un altro, più soddisfacente per un maggiore numero di esseri umani, e senza fare uso della violenza. Sono in fin dei conti sempre gli uomini il vero motore della storia».
Domando se tale aspirazione al mutamento non finisca coll’essere in contraddizione con il suo ruolo di tutore dell’ordine costituito. «No, non lo credo, perchè il mio compito è quello di garantire a tutti di esprimere liberamente le proprie esigenze, e di consentire a quelle che poi risulteranno più condivise di potere prevalere».
Pansa, che tiene sul comodino i Pensieri di Pascal, ha fatto ricorso a un metodo innovativo per rintracciare i libri disposti anche su tre file sugli scaffali. Li ha catalogati in modo tale che aprendo su uno schermo la foto della sua biblioteca si ottiene un’immediata localizzazione di ciascun volume.

Il Sole Domenica 31.1.16
Mario Andrea Rigoni
Il Leopardi antiprogressivo
di Raffaele Liucci

Per noi leopardisti amatoriali, il libro di Mario Andrea Rigoni è una doccia ghiacciata. Reputavamo il poeta di Recanati quasi un Odifreddi ante litteram, capace di sbarazzarsi delle superstizioni paterne (quel gran reazionario di Monaldo) per abbracciare un sano materialismo, progressista e politicamente corretto. Invece Rigoni demolisce queste reminiscenze più o meno scolastiche, svelandoci un Leopardi «negativo» e antimoderno, e a tratti persino tenebroso nelle sue consonanze con il «divin marchese» de Sade.
Di primo acchito, potremmo pensare che il professore padovano si sia lasciato irretire dal suo carissimo amico E.M. Cioran, non certo un apostolo del Sole dell’Avvenire. Ma questo volume, che raccoglie in un’edizione definitiva gli studi di una vita, è talmente ricco di riscontri e suggestioni da suffragare quanto lo stesso Cioran puntualizzava in una lettera a Rigoni, lamentando lo snaturamento di Leopardi perpetrato dai critici italiani: «È a malapena concepibile che se ne sia potuto fare un “progressista”. È un’onta e una provocazione». Tanto più che, aggiunge Rigoni, nell’intero corpus del recanatese «non vi è una sola citazione da un pensatore illuminista che non abbia un significato negativo».
Leopardi rimarrà infatti un ateo impolitico, refrattario alle sirene della Ragione e della Storia, nostalgico di un’età dell’oro esistita solo nella sua mente. Forse anche per questo Mazzini lo snobbò, confinando i Canti tra gli «sforzi di un periodo di transizione che il futuro cancellerà». Mazzini – chioserà Aleksandr Herzen – non sopportava Leopardi «perché non poteva utilizzarlo per la propaganda». Anche lo storico delle idee Antonello Gerbi, nel suo classico libro sulla Disputa del Nuovo Mondo (uscito per la prima volta nel 1955 e tuttora nel catalogo Adelphi), ricorderà i «tanti scritti leopardiani, tutti concordi nel sostener la degenerazione della specie umana e nell’irrider al Progresso». Per non parlare, riguardo ai «selvaggi» amerindi, della sintonia tra il poeta e il conte Joseph de Maistre. Il lungimirante Gerbi scherniva l’interpretazione di Cesare Luporini, autore di un saggio, Leopardi progressivo, che tanta influenza ha esercitato sulla cultura nostrana.
Cosa resta, allora, del Leopardi ’ideologo’ messo a nudo da Rigoni? Resta la «potenza dello sguardo filosofico». Perché dal «caos scritto» delle sue opere emerge la figura di un sommo pensatore. Un pensatore che, lottando contro le evidenze del proprio secolo, ne coglie impietosamente contraddizioni e tare storiche. Per questo le sue incursioni sono ancor oggi «indispensabili più di ogni Censis per capire l’Italia e gli italiani». Leopardi era un «gufo», diremmo oggi, ma nel senso opposto a quello inteso da Renzi. Era cioè un rapace dall’occhio lungo, in grado di squarciare la fuliggine delle nostre chimere. Del resto anche Isaiah Berlin, un liberal-democratico interamente calato nel Novecento, venerava la lucidità dei pensatori antimoderni e «against the current».
Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi , Nuova edizione accresciuta e rivista, prefazione di E.M. Cioran, nota di Raoul Bruni, Aragno, Torino,
pagg. 356, € 20,00.

Il Sole Domenica 31.1.16
Sincronizzazioni
Quanto è lungo un secondo
di Patrizia Caraveo


La rotazione della Terra, che ci fa vedere il Sole che sorge e tramonta, è stato il primo orologio degli esseri umani. Adesso abbiamo modi molto più sofisticati di misurare lo scorrere del tempo che ci mostrano, tra l’altro, che il periodo di rotazione della terra, che è un pianeta vivo, con un interno fluido, non è proprio precisissimo. Un grande terremoto oppure uno tsunami fanno fare dei piccoli sussulti alla Terra. Così, se vogliamo mantenere la sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time, misurato dagli orologi atomici, e la rotazione della terra, una volta ogni due, tre anni è necessario aggiungere un secondo extra. Quanto è lungo un secondo? Poco per i nostri standard di percezione del tempo ma abbastanza per avere bisogno di una decisione internazionale perché la misura del tempo deve essere unica per tutte le nazioni della Terra.
Si chiama leap second, letteralmente il secondo salterino, e la decisione di quando sia il caso di aggiungerlo è in mano di un’apposita commissione internazionale che si è riunita recentemente e ha deliberato di non decidere, perché i paesi membri non sono riusciti a trovare un accordo. Già perché quando si decide di inserire il secondo intercalare tutti i sistemi di misura del tempo (che sono tantissimi perché tutte le nostre azioni, specialmente quelle digitali, hanno un’etichetta temporale) devono essere corretti a mano. Una procedura che ha dei costi. Nasce quindi la domanda se valga la pena di preoccuparsi del secondo ballerino. Dimentichiamoci della sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time e la rotazione della terra e interveniamo tra 100 anni quando la differenza sarà arrivata ad un minuto, dicono Stati Uniti, China e parte dell’Europa. A loro si contrappone di posizione di Russia e Inghilterra che invece vogliono mantenere la sincronizzazione, una perché la usa per i satelliti Glonass, l’altra per rispetto della tradizione. In mezzo ci sono gli astronomi che guardano il cielo con telescopi ancorati a terra. Per loro perdere la sincronizzazione tra rotazione della terra e il tempo celeste è un problema perché l’astronomia misura la posizione degli oggetti in base al momento nel quale culminano sulla volta celeste. Per mantenere la sincronizzazione tra terra e cielo gli astronomi dovranno adattare il loro software alla mancanza del secondo ballerino. È bene che lo facciano al più presto, dal momento che dovranno trascorre otto anni prima che il problema venga ridiscusso, magari per allora il secondi da aggiungere saranno due o tre.

Il Sole Domenica 31.1.16
45mila anni fa al polo nord
L’«homo sapiens» venuto dal freddo
di Gilberto Corbellini


Se la scoperta dei paleontologi, pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Science, ovvero che individui della specie Homo sapiens andavano a caccia ben oltre il Circolo Polare artico già 45mila anni fa, forse sarà il caso di tornare a prendere sul serio alcune teorie che collocavano l’origine delle mitiche popolazioni cosiddette ariane al Polo Nord. In particolare, il suggestivo saggio del matematico, astronomo e fondatore del movimento indipendentista indiano Bal Gangadhar Tilak, La dimora artica nei Veda (1903). Tilak, chiamato dai connazionali Lokamanya («colui che è onorato dal suo popolo come guida») avanzava l’ipotesi, basata sulla lettura di alcuni inni vedici, della cronologia e dei calendari vedici, nonché di passaggi dell’Avesta, che gli ariani abitassero il Polo Nord prima dell’inizio dell’ultimo periodo post-glaciale. Una teoria sostenuta anche nel libro del primo presidente della Boston University, William F. Warren, Paradise Found or the Crandle of the Human Race at the North Pole (1885). Libro che Tilak saccheggiò.
Al di là delle inverosimili speculazioni tendenzialmente razziste tardo ottocentesche fondate su tracce immaginabili a partire dalla letteratura mitologico-religiosa, la recente scoperta è di rilevantissima importanza, perché sposta di ben 15mila anni indietro la presenza dell’uomo moderno nella regione artica, e questo significa che 45mila anni fa i nostri antenati dovevano avere un’organizzazione sociale complessa e molto efficiente per abitare in territori ostili e cacciare mammut o i rinoceronti lanosi che brucavano le steppe-tundre erbose. Sono stati proprio i resti di un mammut a fornire elementi per giungere a un conclusione abbastanza sorprendente. Infatti, per lungo tempo si era pensato che i nostri antenati cacciatori adattati ai climi freddi e in grado di cacciare la megafauna avessero raggiunto l’artico intorno a 15-12 mila anni fa, attraversando lo stretto di Bering per entrare nelle Americhe circa 15mila anni fa. Nuovi ritrovamenti agli inizi di questo millennio aveva portato a ipotizzare che già 35mila anni fa degli uomini cacciassero sui Monti Urali del nord e nella Siberia nordorientale. Ossa umane erano però finora state trovate non più a nord di Mosca, circa (57° nord). Mentre il mammut di cui parliamo è stato rivenuto casualmente da un bambino a 72° nord, cioè ben oltre il Circolo Polare Artico.
L’animale presenta una serie di ferite che sono chiaramente risultato di un’azione di caccia che ha portato alla sua uccisione, a cui sono seguite interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle zanne. Per arrivare a quelle latitudini e cacciare un mammut dell’età di circa 15 anni e in piena salute, quegli uomini dovevano essere particolarmente abili nella costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e temporanei rifugi per sopravvivere a climi decisamente rigidi e in ambienti inospitali. Tutte queste capacità applicate alla vita in ambienti rigidi si pensava che avessero richiesto diverse migliaia di anni in più per essere acquisite. E sono proprio queste caratteristiche a far ritenere che si trattasse di uomini moderni e non di neandertal. Alcuni colleghi dei russi, negli Stati Uniti, stanno aspettando più informazioni. Prima di tutto sui metodi usati per la datazione. Ma anche una datazione effettuata su quei resti da qualche laboratorio diverso da quello dell’Accademia Russa delle Science di San Pietroburgo: una contaminazione è sempre possibile.
Naturalmente non tutti sono disposti a dare un significato così pregnante alla scoperta. Infatti, qualcuno sostiene, sulla base delle foto pubblicate, che l’animale non è stato completamente sfruttato per le risorse che offriva, soprattutto il grasso. E questa sarebbe un’anomalia, in quando dei cacciatori moderni, in quelle condizioni, avrebbero usato completamente l’animale, data l’importanza di accumulare e scambiare cibo per la sopravvivenza e il rafforzamento dei legami sociali.

Il Sole Domenica 31.1.16
Tra spirito e pensiero
La religione di Gentile
di Giuseppe Bedeschi


Nel 1935 Giovanni Gentile tenne una conferenza all’Università di Praga, che poi pubblicò sul «Leonardo» col titolo«Il carattere religioso dell’idealismo italiano» (con questa espressione, “idealismo italiano”, egli intendeva la propria filosofia, il cosiddetto “attualismo”, data la rottura drammatica e insanabile intervenuta fra lui e Croce). In tale conferenza Gentile sosteneva che la forza del proprio idealismo stava nel suo carattere religioso, che tante avversioni, ma anche tanti entusiasmi, aveva suscitato. Carattere religioso perché? Perché, spiegava il filosofo siciliano, la religione entra in tutti i pensieri degli uomini, laddove ogni arte o scienza particolare si contenta di una sfera determinata di interessi; allo stesso modo «la filosofia [idealistica] partecipa di questo carattere totalitario e perciò vitale o etico della religione». È vero, diceva Gentile, che la filosofia accentua il motivo della ragione e della libertà, ossia dell’infinità dell’umana natura in quanto realtà pensante, autocoscienza e persona; ma non perciò nega il limite e la necessità in cui questa personalità si trova, di superare se stessa; anzi fa consistere in ciò l’essenza della realtà spirituale, nel trascendere se stessa e attingere nella realtà trascendente – nella sua realtà trascendente – la realtà. Perciò, aggiungeva Gentile, l’idealismo italiano contemporaneo non solo non credeva di lasciare inappagata nessuna reale esigenza religiosa dello spirito, ma riconosceva nel Cristianesimo la concezione filosofica più alta e più adeguata tra le forme storiche della religiosità. E non solo. In una celebre conferenza del 1943 («La mia religione») Gentile affermerà di essere non soltanto cristiano, ma anche cattolico. «Ripeto dunque la mia professione di fede, piaccia o dispiaccia a chi mi sta a sentire: io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico». Cristiano, perché per la religione cristiana Dio è spirito, ma è spirito in quanto l’uomo è spirito, e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno, sicché l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio. Cattolico, perché la religione, come ogni attività spirituale, è universale, propria di un soggetto che si espande all’infinito: comunità illimitata, nella quale il mio Dio è Dio se è Dio di tutti.
A questa concezione, Paolo Bettineschi (che ha curato una bella edizione dei Discorsi di religione di Gentile, con un ampio saggio introduttivo, per i tipi di Orthotes) obietta che, «piuttosto che avvicinare i due poli del divino e dell’umano – stringendoli in buona unità e rendendoli solidali – l’attualismo abbatte la verità della distinzione che passa tra uomo e Dio, e quando parla di unità dei due, intende in effetti la loro identità, il loro essere una sola realtà, non già il loro stare insieme che sarebbe il loro vero abbracciarsi». Obiezione fondata, mi pare, da un punto di vista logico. E tuttavia non si dovrebbe dimenticare, da un punto di vista storico, che – come osservò un eminente studioso cattolico, Adriano Bausola – la carica di religiosità dell’attualismo fu un fattore di attrazione per molti, e preparò la strada ad alcuni giovani pensatori, destinati a diventare tra i maggiori esponenti dello “spiritualismo cristiano”, per approdare poi al cattolicesimo.
Ed è proprio in riferimento a questi temi che si misura tutta la distanza fra Gentile e Croce, e si colgono i motivi profondi della loro rottura. Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1918 Croce definì l’attualismo come un «nuovo irrazionalismo», «un misto di vecchia speculazione teologica e di decadentismo, tra lo stil dei moderni e il sermon prisco». Perciò, affermava Croce, egli ne prese subito le distanze, nonostante il rapporto di stretta collaborazione che lo aveva unito precedentemente a Gentile, il cui “idealismo attuale” si sarebbe sempre più apertamente svelato (sono parole del filosofo napoletano) «come un complesso di equivoche generalità e un non limpido consigliere pratico».
Giovanni Gentile, Discorsi di religione, a cura di Paolo Bettineschi, Orthotes Editrice, Nocera, pagg. 176, ?€ 16,00

il manifesto 31.1.16
Referendum, il No si organizza


Si sono ormai costituiti in quasi tutte le principali città italiane i comitati per il No al referendum costituzionale, e ieri si sono incontrati a Roma nella prima assemblea nazionale — nell’aula Calasso di giurisprudenza alla Sapienza. Se anche i sondaggi offrono quasi ogni giorno motivi di speranza — tra giovedì e venerdì prima l’Eurispes poi l’Ipsos hanno descritto una partita aperta, tutta da giocare — gli avversari della riforma costituzionale non si fanno illusioni: sanno che il governo deve ancora mettere sul piatto della campagna elettorale tutto il suo peso. Renzi ha garantito che farà campagna elettorale per il Sì in prima persona, pare abbia ingaggiato uno spin doctor americano allo scopo, il Pd ha deciso di investire una cifra considerevole nella propaganda.
Il Comitato per il No presieduto dai costituzionalisti Alessandro Pace e Gustavo Zagrebelsky, nato per iniziativa del Coordinamento per la democrazia costituzionale, ha deciso comunque di condurre una campagna all’insegna del merito della riforma. Per spiegare agli italiani le ragioni del No al disegno di legge Renzi-Boschi di là della battaglia politica sul destino del presidente del Consiglio e della legislatura. Non disturba che anche a destra abbiano annunciato la nascita di un comitato per il No, il cosiddetto «comitato Brunetta». «È un bene che ci siano in campo anche loro, distinti da noi — spiegano — sarebbe stato difficile coordinare iniziative comuni e così potranno rivolgersi alla loro parte di elettorato».
Nella riunione di ieri, alla quale sono intervenuti rappresentanti di varie formazioni della sinistra — lista Tsipras, Sinistra italiana — sindacalisti di base, una rappresentante del comitato No Triv, si è fatto il punto sull’impegno per la raccolta delle firme. Duplice. All’indomani dell’approvazione della legge di revisione costituzionale (prevedibilmente, metà aprile) è ormai deciso che un gruppo di cittadini chiederà di raccogliere le firme per il referendum, malgrado la stessa richiesta verrà sicuramente avanzata dai parlamentari di opposizione e anche dai parlamentari di maggioranza. In questo modo si conta di bloccare un’eventuale tentazione ad anticipare il referendum, che così si terrà invece in ottobre. Ma bisognerà anche raccogliere le firme per il referendum abrogativo della legge elettorale, anche questa è una decisione sostanzialmente presa che dovrebbe essere ufficializzata il 12 febbraio.
Sono ancora un passo indietro i referendum contro il Jobs act e la riforma della scuola, mentre un altro se ne annuncia, contro la nuova legge sulla Rai.

il manifesto 31.1.16
Cresce appoggio ad appello accademici italiani per boicottaggio Technion
Italia/Israele. Secondo i firmatari l'Istituto di Haifa riveste con le sue ricerche un ruolo importante nel riprodurre le politiche israeliane a danno della popolazione palestinese. Intanto il governo francese avverte che se non ci saranno progressi nelle trattative israelo-palestinesi, riconoscerà comunque lo Stato di Palestina
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Aumentano le adesioni all’appello lanciato venerdì da 168 docenti di università di tutta Italia a boicottare le istituzioni accademiche israeliane, in particolare il Technion di Haifa per via del ruolo che, spiegano i firmatari, questo istituto «riveste nel supportare e riprodurre le politiche israeliane di espropriazione e di violenza militare ai danni della popolazione palestinese». In poche ore il numero delle adesioni è salito a quasi 200 e altri accademici hanno chiesto informazioni segnalando di poter firmare anche loro il documento. L’iniziativa italiana, che arriva dopo quelle prese negli ultimi due-tre anni da colleghi britannici e di altri Paesi occidentali, è di particolare rilievo se si tiene conto dei legami che rendono l’Italia, uno dei principali partner militari e accademici di Israele in Europa. Non sorprende perciò che alcuni giornali e siti israeliani abbiano riferito dell’appello con particolare evidenza nonostante non siano ancora giunte reazioni ufficiali del governo Netanyahu e del mondo accademico israeliano.
L’Italia, dove agiscono gruppi che promuovono attivamente il Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) — la campagna globale di boicottaggio di Israele per la fine dell’occupazione e della colonizzazione dei Territori, per la piena uguaglianza in Israele dei cittadini palestinesi e per il rispetto per il diritto al ritorno dei profughi del 1948 e del 1967 — non aveva mai visto un’azione tanto diretta nei confronti degli atenei dello Stato ebraico. «Le università israeliane — si legge nella petizione italiana — collaborano alla ricerca e allo sviluppo di armi usate dall’esercito israeliano contro la popolazione palestinese, fornendo supporto innegabile per l’occupazione militare e la colonizzazione della Palestina». Il Technion, spiega il documento, «è coinvolto più di tutti nel complesso militare-industriale israeliano e un certo numero di atenei italiani ha stretto accordi di cooperazione» con l’istituto di Haifa.
«Questo appello, anche se non dovesse produrre effetti concreti, comunque dovrà circolare e raccogliere tante adesioni perchè occorre far riemergere la questione palestinese», dice al manifesto il professor Angelo D’Orsi, ordinario di storia del pensiero politico all’Università di Torino e uno dei firmatari più noti e impegnati nelle vicende mediorientali. «Si è abbassata la soglia di attenzione del mondo verso la questione palestinese», aggiunge D’Orsi «tutto viene dato per scontato, molti pensano che non si possa fare nulla (per i palestinesi, ndr) come non si può fare nulla per la pioggia che cade. C’è un generale venir meno del ruolo degli intellettuali. Il silenzio denunciato qualche anno fa da Asor Rosa è pienamente vigente. Gli intellettuali che parlano sono pochissimi e in più quando lo fanno si uniscono al coro dei potenti». Su una maggiore partecipazione di intellettuali ed accademici alla difesa dei diritti dei palestinesi e della legalità internazionale batte anche Angelo Stefanini, medico e docente dell’università di Bologna. «Tra i colleghi percepisco ancora indifferenza», ci dice «o forse timore di essere coinvolti nel solito ricatto di equiparare una legittima opposizione alle politiche israeliane (versi i palestinesi, ndr) con l’antisemitismo. Della ventina di colleghi amici a cui ho girato l’appello, soltanto un paio hanno sottoscritto».
Si attendono le reazioni dei vertici di Israele, impegnati in queste ore a fare i conti con un’altra sfida che arriva dall’Europa. La Francia due giorni fa ha fatto appello alla convocazione di una conferenza internazionale sulla questione palestinese, fondata sulla applicazione delle risoluzioni dell’Onu, che riunisca attorno alle due parti i loro partner — americani, europei, arabi — allo scopo di realizzare la soluzione dei due Stati.Allo stesso tempo il ministro degli esteri Laurent Fabius ha avvertito che «Se ci sarà un blocco (nelle trattative,ndr) ci assumeremo le nostre responsabilità con il riconoscimento dello Stato palestinese…E’ davvero ora per la comunità internazionale andare avanti e stavolta in modo decisivo, verso una soluzione definitiva». Fabius ha ricordato che la sicurezza di Israele rappresenta «un’esigenza assoluta sulla quale la Francia non transige» ma, ha aggiunto, «non c’è pace senza giustizia e la situazione attuale dei palestinesi, che non hanno uno Stato, è fondamentalmente ingiusta». Per Israele invece la posizione francese «Incoraggerà i palestinesi a non negoziare». Secondo una fonte governativa «Non c’è alcuna logica nel porre una scadenza per il riconoscimento della Palestina». Soddisfazione ai vertici palestinesi. Il Segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ha applaudito all’iniziativa francese assicurando piena collaborazione.