il manifesto 30.1.16
Gillo Dorfles, quel gusto smaliziato di attraversare il tempo
Mostra. "Essere nel tempo" al Macro di Roma fino al 30 marzo
di Fabio Francione
Per
Gillo Dorfles non sembra valere il tragico e mendace adagio di
Ceronetti sulla vecchiaia come il peggiore dei mali che possa capitare
all’uomo. E, infatti, a dispetto dei suoi 105 anni, fresco di nomina a
«Cavaliere di Gran Croce» al merito della Repubblica Italiana e con
ancora una grande retrospettiva, Essere nel tempo, aperta al Macro di
Roma fino al 30 marzo prossimo, Dorfles sembra non perdere né la
curiosità che da sempre l’ha contraddistinto nei suoi studi, né la verve
ironica e sottilmente polemica: entrambe sostenute per costruire e non
distruggere questioni filosofiche ed estetiche che non a caso, nel corso
dei decenni, sono passate da una modernità, spesso in anticipo sui
tempi, a una contemporaneità – nostra — ormai cruciale nel voler
assolutamente avere non più interrogativi, ma risposte. Dunque, la
carriera intellettuale di Gillo Dorfles si snoda nell’apparente
contraddizione dei ruoli assunti nel corso della sua esistenza
centenaria, essendo nato a Trieste nel 1910 da padre d’origine goriziana
e madre genovese. Quando, al contrario, l’essere a più riprese e in
tempi diversi, artista critico filosofo e studioso del gusto, gli hanno
fatto comprendere più di altri le difformità estetiche e culturali che
hanno reso il ’900 e oltre, un secolo unico. In questa unicità risiede,
in modo quasi circolare, l’originalità e l’eclettismo di Dorfles che si
riverbera in una scrittura critica che tiene conto di come ci si pone
«di fronte all’opera d’arte e non solo di fronte alla stessa, ma anche
di fronte a tutto quello che fa parte della nostra vita». Infatti,
aggiunge il critico-artista: «Soltanto partendo dal piccolo possiamo
arrivare ad attuare delle trasformazioni fisiche». Da questi assunti
sono nati libri di riferimento per generazioni di studiosi come Discorso
tecnico delle arti del 1952, qualche anno fa riapparso per i tipi della
Marinotti e importante per la messa in discussione del metodo estetico
crociano o Il Kitsch del 1968 (data discrimine per azzerare l’alto dal
basso e tutti i valori ad essi collegati), o ancora a fare il paio con
la propria duplicità intellettuale Il divenire delle arti del 1959 e Il
divenire della critica del 1976. Mentre l’attività pittorica (e di
incisore e ceramista) che ha subito per lungo tempo quella che con
divertimento e a suo onor reale condizione, è definita di clandestinità,
lo consacra come uno degli artisti più avanzati del ’900 per capacità
di sintonizzare il proprio credo artistico sui movimenti d’avanguardia
internazionali e nazionali della seconda parte del secolo. Peraltro
partecipati da Dorfles, anche da protagonista come quando fondò nel
lontano 1948 – altra data fondamentale della storia italiana – il Mac
(Movimento Arte Concreta) con artisti del calibro di Bruno Munari,
Atanasio Soldati e Gianni Monnet. Ma, anche registrata sull’onda lunga
picassiana e letteraria dei grandi scrittori del primo novecento (in
particolare Kafka, subendo il fascino per Joyce e solidarizzando con
Svevo, incontrato giovinetto a Trieste, e Montale. Qui basterebbe
andarsi a rileggere la sua rapida prefazione alla doppia ristampa del
2012 di Ossi di seppia / Le occasioni) e non mancano nelle macchie, nei
grovigli, nelle campiture colorate della sua idea di astrazione
riferimenti alla scienza e alla psichiatria, suoi primi e mai
dimenticati amori. Come suoi «amori» e non manca di riaffermarlo, sono e
sono stati tutti «gli artisti che ho incontrato», diventato il titolo
di un amplissimo volume antologico, più di 850 pagine, curato dal fido
Luigi Sansone per i tipi della Skira sul finire dello scorso anno.
Ottantacinque esatti separano il primo scritto antologizzato da Sansone,
dedicato all’aeropittura tardo-futurista dall’ultimo, uno dei tanti
estremi cadeau occasionati dal desiderio di scoprire nuovi artisti. Ma è
interessante, più della disparità d’importanza dei pezzi inseriti,
delle sedi di pubblicazione, della loro non sistematicità – durante la
presentazione a Book City, Dorfles che ebbe l’onore di aprire la
kermesse libraria milanese lo scorso autunno ci tenne a ribadire che
«gli artisti che ho incontrato» non era un suo libro — Il discorso
tecnico, che così inquadrato, viene a collocarsi in uno spazio teorico
che è andato sviluppandosi nel tempo, sottoponendo in tal modo la stessa
concezione estetica di Dorfles in un’ininterrotta aura d’originalità: e
di pensiero. L’importanza del libro, infine, tende a risiedere nella
capacità e consapevolezza dello studioso triestino di affrontare tutte
le arti. Dunque, un motivo, come detto, d’interesse in più per sfrondare
la critica d’arte, presa in toto, da inutili settarismi e vicissitudini
storiche.