Repubblica 30.1.16
Tesori immensi, molti laureati, troppi precari e una riforma contestata: viaggio in una crisi
Perché non siamo un paese per archeologi
di Francesco Erbani
Il
malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del
ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta
tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In
realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il
patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti.
Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento
della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle
nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un
altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i
lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio. La miccia esplosiva è
la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17
soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano
paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno
39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica,
Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta
Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne
altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti
archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate
ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse
potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti,
farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia
l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e
per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani.
Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un
censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia
ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la
Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600
giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana,
«che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il
biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte
del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto
alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a
partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come
collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e
solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una
brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato,
corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì
a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad
affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale
della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una
lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17
soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di
studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al
Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli
amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato
l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo». Per lunedì
prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono
sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una
marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio
dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i
vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede
per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia
italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene
non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario
dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama
archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano
custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali
intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio
di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o
6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze.
Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella
nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme
sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al
sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa —
ammesso che sia onesta — sospende i lavori, segnala il fatto alla
soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione
delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia
(il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni,
altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle
decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di
tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco
superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è
appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un
incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la
cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è
oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte,
architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che
interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel
2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari
supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare
nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti
roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla
soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La
soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del
Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una
cassaforte di ol- tre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli
meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro
direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun
biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei
Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà
impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla
tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove
edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze
laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un
patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare
gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di
gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige
l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela
dell’area.