Repubblica 30.1.16
Mammina cara così fragile e crudele
Di perversioni materne sono pieni romanzi e film Da Némirovsky a Simenon e Joan Crawford
di Benedetta Tobagi
IL
FESTIVAL Benedetta Tobagi è oggi fra le protagoniste di “Writers”, la
rassegna che si svolge fino a domani nel complesso dei Frigoriferi
milanesi Tobagi dialoga con Marina Mander in un incontro intitolato
“Madri in ballo”
Di mamma ce n’è una sola. E per
fortuna: parola di Irène Némirovsky, nume tutelare e angelo vendicatore
dei bambini defraudati della propria infanzia da madri terribili,
capostipite di una genìa di creatori di momsters letterarie che hanno
minato alle radici il mito dell’amore materno. Scordatevi la grandiosità
di Medea: Irène smaschera le crudeltà consumate con leggerezza
colpevole da madri tutt’altro che tragiche, bensì fragili, deboli,
spesso ferite, comunque troppo prese da sé per saper amare. Come era
stata la sua, Anna Margulis, in arte Fanny, bella, capricciosa, civetta,
ossessionata dai soldi
e dalla smania di sedurre. Fanny, per cui
la figlia era un ostacolo ai piaceri della vita mondana e un promemoria
vivente del tempo che passa (dichiarò finché possibile 39 anni), che
sbatté la porta in faccia alle nipotine sopravvissute ai campi di
sterminio in cui morì Irène perché «esistono degli istituti per bambini
bisognosi».
Scrittrice di immenso talento e finezza psicologica,
Irène fece giustizia con la penna in un’ideale trilogia di romanzi: dopo
il folgorante esordio di David Golder (1929), in cui la madre è
adombrata come comprimaria di un sistema intimamente corrotto, nel Ballo
(1930) la sua controfigura è coprotagonista insieme alla figlia
adolescente che, con un piccolo grande gesto di ribellione, riesce a
smascherare la sua miseria morale, mentre diventa protagonista assoluta
in Jezabel (1936). Bella, fragile, egoista, di fatto la bimba viziata
della sua stessa figlia, Gladys-Jezabel uccide come fa l’insospettabile
capofamiglia Roland alias l’Avversario di Carrère: per salvaguardare un’
immagine di sé artefatta che si sta sgretolando a contatto con la
realtà. La madre nemirovskiana ha un’illustre progenitrice nell’Arkadina
del Gabbiano: «Una donna leggera, civetta, vanitosa, a tratti tenera e
triste», la descrive Némirovsky nella sua Vita di Checov. Diva del
teatro assai più presa dall’amore del pubblico che da quello del figlio,
aspirante scrittore suicida nell’ultimo atto. Un’ideale discendente, di
nuovo attrice ma in carne e ossa (e molto più splatter), è la Joan
Crawford ritratta dalla figlia adottiva Christina in Mammina cara, libro
e poi film nel 1981. Un’escalation di angherie e competizione malsana,
fino a quando la diva quasi strangola la figlia che osa contraddirla
davanti a una giornalista (di nuovo, meglio far fuori la figlia
piuttosto che la verità). Ma forse ciò che più sconvolge è
l’attaccamento irragionevole che Christina, come tante vittime,
manifesta fino all’ultimo verso lei. Quanto male sono capace di farsi i
figli abusati, pur di non affrontare l’orribile realtà. Un posto d’onore
nella rappresentazione di madri fatali spetta a Georges Simenon.
L’arte, come in Némirovsky, si nutrì di vita vissuta. La madre Henriette
nel corposo romanzo autobiografico Pedigree (1948) diventa Élise:
testarda, ansiosa, una “palla di nervi” tutta lacrime e rimproveri,
carica il figlio di sensi di colpa che l’affetto del padre, buono ma
debole, non riesce a dissipare. Quasi trent’anni dopo le si rivolge
direttamente in Lettera a mia madre, sofferta riflessione accanto al suo
letto di morte. «Bisognava, era indispensabile che tu ti sentissi
buona», scrive, svelando l’orgoglio luciferino dietro la fragilità
nevrotica. «Che peccato, Georges, che sia stato tuo fratello a morire»,
dice. Eppure Simenon si affanna a ripetere che non giudica, non porta
rancore… vengono i brividi, anche senza conoscere il saggio sulla
Negazione di Freud. C’è l’ombra della nonna paterna (gelida e
giudicante, fu l’incubo di sua madre) dietro la matrona protagonista de
Il grande male: la famiglia è il suo campo di potere e pur di salvare la
rispettabilità borghese di facciata non esita a far fuori il genero
epilettico, provocando il suicidio della figlia. Ma la palma dell’orrore
va a Denise, la seconda moglie, madre dei suoi figli, musa che ispirò
tante figure femminili a cominciare da Tre camere a Manhattan,
semplicemente “D.” nelle fluviali Memorie intime pubblicate poco prima
di morire. Invidiosa, manipolatrice, incontrollabile, prima di finire in
clinica psichiatrica fa in tempo a devastare la figlioletta Marie-Jo,
che, adulta, si toglierà la vita (i dettagli dell’abuso sono
sconvolgenti al punto da essere stati omessi nelle prime edizioni). Così
acuto nel penetrare le psicologie dei personaggi, Simenon fu
tragicamente cieco e distante, rispetto alle tragedie domestiche. Atto
di espiazione, il memoir è uno straordinario documento per comprendere
le dinamiche perverse nelle famiglie. Le “madri di morte”, infatti, non
sono solo le infanticide della cronaca nera. La letteratura getta luce
sugli “omicidi dell’anima” compiuti nel silenzio. Perversioni consumate
da donne mascherate da angeli. Così nella Pianista di Elfride Jelinek,
romanzo d’ispirazione autobiografica reso celebre dal film di Haneke con
una superba Isabelle Huppert. L’algida Erika Kohut, insegnante,
concertista mancata, si rivela masochista, autolesionista, invidiosa
delle giovani allieve, avvinta in un morboso abbraccio mortale con la
madre (il padre è in manicomio, prima vittima della madre-mantide).
La
Jelinek, Nobel nel 2004, gioca sapientemente con la lingua per rendere
la spersonalizzazione vissuta da Erica bambina. Il corpo a corpo con la
madre che invidia o “vampirizza” la figlia è una lotta durissima, ma non
necessariamente fatale. Tra i racconti di salvezza, avvincente come un
giallo, un caposaldo è il romanzo Le parole per dirlo, in cui Marie
Cardinal racconta come attraverso l’analisi è riuscita a riscattarsi da
una madre in apparenza pia e integerrima, votata alla cura dei
derelitti, che in realtà la voleva morta. Tra saggio e racconto,
l’originalissimo Io non amavo mia madre di Enrichetta Buchli intreccia
due voci: la narrazione struggente della figlia di una madre crudele,
guardacaso un’altra pianista mancata, con manie religiose (c’è spesso un
narcisismo che rifiuta il corpo e la vita, dietro una “madre di morte”)
è accompagnata dalla voce empatica dell’autrice, psicanalista, che
chiosa il manoscritto inviatole dall’ex paziente, per fortuna salva.
Perché, parafrasando il bel titolo del libro di una delle figlie di
Irène, si può “sopravvivere e vivere”. E raccontare, perché altri
possano salvarsi dagli inferni del disamore delle madri nere.