sabato 30 gennaio 2016

Repubblica 30.1.16
Aristotele e Machiavelli
di Andrea Bonanni

È PRESTO per capire quante delle vertenze aperte tra l’Italia e la Commissione europea abbiano trovato una soluzione a Berlino. La Cancelliera è troppo aristotelica per ignorare che la forma è sostanza, e dunque pregiudicare scelte che formalmente spettano a Bruxelles. Il nostro premier è troppo machiavellico per lasciar trasparire la vera partita doppia che si è giocata nella colazione di ieri. Una cosa però appare certa: ciò che Matteo Renzi porterà a casa dall’incontro con Angela Merkel, avrebbe probabilmente potuto ottenerlo anche seguendo più consuete vie diplomatiche. Battendo, magari, i pugni sul tavolo. Ma a porte chiuse, come si usa in famiglia e tra amici.
La vera questione che vale la pena porsi è allora perché il capo del governo italiano, che certo non è uno sprovveduto, abbia scelto di tenere così alti, pubblici e “ideologici” i toni di un conflitto che in sé non è molto diverso dai tanti che spesso contrappongono la Commissione alle capitali nazionali.
LA RISPOSTA ha due facce: una italiana e l’altra europea. Sul fronte interno, Renzi ha evidentemente lo scopo di evitare che le eventuali concessioni che ci verranno dai palazzi bruxellesi appaiano, appunto, quali concessioni. Benevolenze elargite ad un Paese che ha fatto indubbi progressi ma resta comunque a metà del guado, sia sul fronte del risanamento economico sia su quello delle riforme di sistema. Dopo una battaglia tanto mediatizzata, l’approvazione della nostra legge di bilancio o la sterilizzazione dei finanziamenti alla Turchia dai calcoli del Patto di stabilità potranno rientrare a pieno titolo nella narrativa di una vittoria diplomatica sofferta ma perseguita con determinazione. Dal punto di vista degli effetti concreti, il risultato è il medesimo. Ma dal punto di vista degli effetti politici la distanza è tra il giorno e la notte. E, in un Paese come l’Italia dove dilaga l’eurodelusione, l’idea di una Bruxelles che non detta condizioni, ma anzi ne accetta da Roma può, paradossalmente, giovare non solo a Renzi ma addirittura all’immagine dell’Europa presso larghi strati dell’opinione pubblica.
La partita che Renzi si gioca sul fronte europeo è invece assai più complessa. Al di là dei dossier specifici, la cui soluzione è ancora tutta da verificare, il premier ha infatti posto una più generale questione di status dell’Italia, soprattutto nei confronti dell’asse franco-tedesco. Lo ha detto chiaramente nell’intervista rilasciata alla
Frankfurter Allgemeine Zeitung prima dell’incontro con Merkel. Ed è questo il messaggio che è stato recepito dalla stragrande maggioranza dei commentatori tedeschi e internazionali.
Ma porre in modo così aperto una questione di status, soprattutto in un club come quello europeo, dove gli stereotipi sono più duri a morire delle buone abitudini, può essere un gioco pericoloso. Di certo non basta un anno di buone riforme per cambiare l’immagine di un Paese a cui queste ed altre riforme vengono richieste da vent’anni senza successo. Né basta il timido miglioramento di alcuni indicatori economici per fare dell’Italia l’enfant
prodige della famiglia europea in grado di catalizzare l’ammirazione e il rispetto dei partner. Tutte queste cose, in Europa, sono certo benvenute, ma non possono cambiare lo status dell’Italia che è, sì, un Paese fondatore, ma in sessant’anni non è mai stata leader in Europa. Né mai, a parte i vaneggiamenti berlusconiani, ha cercato di esserlo a scapito del binomio franco-tedesco.
Matteo Renzi questi limiti li conosce benissimo. Non ignora che il ruolo dell’Italia, al netto dei molti pregiudizi che la affliggono in modo più o meno giustificato, è dettato dalla realtà oggettiva della sua dimensione economica, geografica e culturale. E infatti il progetto che lo spinge non è quello di uno sterile revanscismo nazionale. La sua è una battaglia politica che si muove lungo le direttrici, sempre più politiche, che ormai condizionano i destini europei. Lo si è capito anche ieri quando, al termine dell’incontro con Merkel, ha più volte sottolineato la sostanziale alterità politica tra lui e la Cancelliera.
Se la Merkel, Hollande, Cameron si fanno forti del prestigio e della potenza dei rispettivi Paesi, Renzi reclama un posto al tavolo dei grandi perché si presenta come l’unico interprete di una sinistra europea in cerca di autore. Una sinistra di cui Hollande non riesce, e forse non vuole, assumere la leadership, pago del suo ruolo statuale alla guida della République. La strategia che Renzi non dice apertamente, ma che traspare chiaramente da tutte le sue scelte, in primis quella di ideologizzare lo scontro Italia-Ue, è da questo punto di vista abbastanza lineare. L’Europa a guida conservatrice degli ultimi vent’anni è ormai presa d’assalto dall’ondata populista, che in parte ha essa stessa alimentato con le sue scelte di austerità e di grettezza contabile. L’unica via di salvezza, per il Continente, è una larga coalizione tra conservatori e progressisti, come già sperimentato al Parlamento europeo e nella nomina della Commissione. E se la Merkel è il leader incontrastato e incontestato della destra illuminata e democratica, Matteo Renzi, a capo del partito socialista più votato d’Europa, deve essere riconosciuto come il suo unico, vero e legittimo interlocutore nel nome di una sinistra riformista e riformata.
Progetto ambizioso, non c’è dubbio. E che non sarà facile far digerire al formalismo merkeliano, ancora legato ad un equilibrio europeo fatto di Paesi e non di partiti. Ma si può star certi che Renzi continuerà ad alzare la voce, e i toni del confronto, fino a che non si decideranno ad ascoltarne le ragioni.