giovedì 28 gennaio 2016

Repubblica 28.1.16
Ma al mercato delle scoperte rimane cliente
di Giampaolo Visetti

PECHINO Cinque anni fa l’istituto Thomson Reuters scoprì un fenomeno singolare: più rallentava l’export delle merci cinesi e più accelerava l’import di sapere in Cina, più frenava la crescita del Pil di Pechino e più aumentava la sua percentuale riservata alla ricerca. I media Usa lanciarono l’allarme, prevedendo che «lo scienziato di Shanghai» entro il 2020 avrebbe «sorpassato quello di Harvard». La prospettiva di una Cina super-potenza anche del progresso, resta fondata su condizioni empiriche: il trend delle ricerche apparse sulle pubblicazioni internazionali, le classifiche delle eccellenze universitarie, il boom dei brevetti, o il ritorno dei «cervelli».
Attenendosi a tali parametri, espressione di forza economica e influenza culturale, è innegabile che la Cina stia lasciando la dimensione di «potenza scientifica in via di sviluppo», in cui l’aveva relegata il maoismo. Ma se alla quantità degli indicatori si sostituisce la loro qualità, le previsioni impongono una certa prudenza. Il dato certo è che il partito-Stato ha compreso che la scienza è l’investimento più remunerativo del presente e che un paese che si candida a guidare il mondo non può essere assente dall’avanguardia della ricerca. L’elemento ancora mancante è il reale e diffuso primato dell’innovazione «made in China». Cresce l’esercito dei ricercatori cinesi, per trovare conferma basta entrare nella South China University of Technology, oppure andare a Zhongguancun, la Silicon Valley di Pechino. Nella classifica selettiva delle scoperte che stanno cambiando il destino dell’umanità, o degli uomini che plasmano il futuro, i nomi cinesi invece continuano a latitare. Il 2015 è stato illuminante. Per la prima volta la Cina ha ottenuto il premio Nobel per la medicina. La ricercatrice Youyou Tu, 86 anni, l’ha conquistato grazie agli studi anti-malaria ispirati dall’erboristeria tradizionale di 1.600 anni fa. Youyou Tu è una scienziata di primo livello: l’immagine che il mondo ha colto della Cina è stata però quella di un laboratorio immenso e pieno di potenzialità, ma ancora sospeso tra civiltà imperiale e propaganda autoritaria. Anche la seconda star mondiale della ricerca cinese ha 86 anni. Si chiama Yuan Longping, l’Unesco l’ha premiato quale «padre del riso ibrido». Ha riscattato dalla fame centinaia di milioni di persone, ma può essere il faro di un contemporaneo primato della scienza? La risposta è no e se ne rende conto lo stesso presidente Xi Jinping, convinto che «la dimensione di ogni nazione viene definita oggi dai suoi giacimenti di conoscenza».
Il «nuovo Mao» ha raddoppiato la quota del Pil investita nella ricerca, pareggiando il 2,5% degli Usa. In termini assoluti significa che oggi nessuno spende per istruzione e scienza quanto la Cina. Tra i primi 20 enti mondiali di ricerca 5 sono cinesi, tra i migliori 30 atenei 10 si trovano a Pechino e Shanghai. In 10 anni 200mila «tartarughe di mare», ovvero i «cervelli» che tornano a «deporre in patria le uova del sapere», hanno accettato le maxi borse di studio della leadership rossa. La Cina è un impressionante incubatore di ricerca e di sviluppo: il limite evidente è che si è allineata al progresso, ma non è ancora un passo più avanti, come Giappone, Corea del Sud e India. Due imputati, nella non conclusa rincorsa cinese: l’ossessione del «ritorno economico» immediato e una pressione politica pervasiva, come se il mix tra capitalismo e autoritarismo soffocasse la libertà intima della scienza, rinviandone all’infinito grandezza ed energia innovativa. Nel «mercato delle scoperte» Pechino rimane così un cliente: la strada per trasformarsi davvero in «venditore di progresso», nonostante l’ebbrezza delle statistiche, resta ingombra di ostacoli.