giovedì 28 gennaio 2016

Repubblica 28.1.16
Il coraggio dei simboli
di Stefano Folli

NELLA storia delle statue inscatolate l’aspetto peggiore consiste nel mescolare tutto in un frullato mediatico in cui non si coglie più cosa è grave, cosa è ridicolo, cosa è semplicemente stupido. È ridicolo, ad esempio, mettere sullo stesso piano l’auto- censura per le opere d’arte e la mancanza di vino o altri alcolici a tavola. La prima, come si è detto e scritto in queste ore, è un’aberrazione; la seconda è solo un gesto di riguardo verso l’ospite. Lo si è sempre fatto, negli anni della prima come della seconda repubblica: niente bevande o cibi che possono urtare le sensibilità e i precetti religiosi dell’invitato. La laicità non si misura con un bicchiere di vino, né in Italia né altrove in Europa. Accade lo stesso quando in una casa privata viene a cena un vegetariano o un vegano: si evita di infliggergli ciò che non vuole o non può mangiare e bere.
È grave invece tutto ciò che descrive un cedimento morale e culturale all’ospite straniero nel tentativo di compiacerlo, magari in un eccesso di zelo. Quindi le statue coperte, certo: ma soprattutto in quanto simbolo del silenzio su temi imbarazzanti. Le vignette dei giornali ieri dicevano più di un editoriale, come si dice in questi casi. Una di Staino sul’Unità - il giornale del presidente del Consiglio - mostra due funzionari (di Palazzo Chigi, si suppone, visto che la Sovrintendenza si è chiamata fuori) alle prese con un grande pannello. Raffigura un impiccato che penzola dalla forca. E uno dei due personaggi dice all’altro: «Lo mettiamo davanti alle statue nude perché non si imbarazzi».
Forse sarebbe interessante sapere se e come la questione dei diritti umani in Iran - dove i gay vengono spesso giustiziati - è stata posta all’illustre ospite, al di là di qualche frase di circostanza. Anche questo, anzi soprattutto questo, è un modo per difendere l’identità culturale dell’Occidente e il nostro attaccamento ai diritti di libertà, a cominciare dalla libertà d’espressione. Perché se tali valori finiscono inscatolati non appena si profila l’opportunità di qualche buon affare economico, sia pure cospicuo, ecco che il problema non è più solo l’aver messo le mutande alle statue in omaggio a una teocrazia. E ciò vale per l’Iran come per il Qatar o l’Arabia Saudita. Discutere con gli integralisti è sempre pericoloso, se non si ha chiaro fin dove ci si può spingere nelle concessioni. Se poi il governo, nelle persone di Renzi e Franceschini, davvero non sapeva nulla dell’auto-censura, l’episodio finisce per sconfinare nel grottesco. Un pasticcio internazionale a Roma all’insaputa dell’autorità politica.
Laddove invece il Papa, come è ovvio, si è presentato davanti all’ospite iraniano con il crocefisso al collo. Inimmaginabile il contrario: ma quel crocefisso è il simbolo di un’identità, di una cultura, di una storia. Non sappiamo se Francesco abbia parlato a Rouhani di libertà civili: se lo ha fatto, le sue parole possono solo aver tratto forza da questa dichiarata consapevolezza di sé.
«Soprattutto mai troppo zelo» raccomandava Talleyrand, che pure sapeva come far piacere ai potenti. È un consiglio troppo spesso disatteso. Chi non ricorda la tenda beduina allestita per Gheddafi a Villa Pamphili al tempo del governo Berlusconi? Il libico non era un teocrate, tutt’altro: agiva nel solco laico di Nasser, come peraltro Saddam Hussein. Ma era un dittatore feroce a cui tendeva a inchinarsi l’Italia nelle sue varie espressioni politiche, come pure la Francia di Sarkozy che poi lo ha bombardato per sottrarre a Roma, senza riuscirci, i vantaggi economici. Anche Parigi aveva allestito una tenda per il capo libico e le sue amazzoni. A Gheddafi non interessavano le statue velate, ma era pronto a umiliare l’Italia - spesso con successo - proprio perché sapeva, dal pragmatico che era, che poi avrebbe negoziato gli affari. Allora come oggi, con i laici autoritari come con gli integralisti medioevali, il problema è sempre di chi si pone dall’altra parte del tavolo.