Repubblica 28.1.16
La scatola del ridicolo
di Silvia Ronchey
NÉ
il fatto che in alcune vetrine di Teheran i manichini femminili siano
senza testa o che alcune donne girino velate dal niqab (molte altre no),
né tanto meno l’idea erronea che l’antica tradizione islamica professi
una teologia dell’immagine tout court ostile alla rappresentazione della
figura umana (che proprio nella miniatura persiana ha avuto il suo
massimo fulgore ed è peraltro ben presente nell’urbanistica odierna di
Teheran, ad esempio nei grandi murales degli eroi della guerra
antirachena) giustificano in alcun modo la risibile operazione di
velatura, o copertura tramite pudichi separés, delle statue classiche
dei musei Capitolini.
Il provvedimento, presentato come forma di
attenzione alla sensibilità religiosa e artistica del presidente
iraniano Hassan Rouhani in visita a Roma e giustificato, sia pure
cautamente, da alcuni archeologi come «modo di dialogare, di venire
incontro a culture diverse» (Carandini), o come diplomatico gesto «di
opportunità politica» (La Regina), peraltro non risulta da Rouhani
ufficialmente richiesto. Che sia stato o no sollecitato da Palazzo
Chigi, come invocato dalla Sovrintendenza Capitolina, la piena
responsabilità culturale della scelta, in ultima e onesta analisi, può
andare solo a chi, innalzato a dirigere quegli importanti musei e a
garantirne l’integrità, li ha degradati e mutilati in effigie,
trasformando la visita di stato del leader di un Paese dalla tradizione
artistica ancora più antica, ricca di esibite e non velate figurazioni
archeologiche come le statue e i bassorilievi di Persepoli, in una
simbolica e indimenticabile excusatio non petita della tradizione
occidentale.
I viaggiatori islamici hanno ammirato per secoli le
statue dell’antichità grecoromana. A Bisanzio, come previsto e descritto
nel Libro delle cerimonie di Costantino Porfirogenito, i ludi in onore
degli ambasciatori arabi si tenevano nell’Ippodromo, dove spiccavano,
fra le altre, sculture classiche come l’Eracle di Lisippo. Le enumerò
affascinato, intorno al 900 d. C., Harun ibn Yahya. Né certo le autorità
bizantine si preoccuparono di coprire le statue bronzee dell’Anfitrite o
dell’Atena Promachos, attribuita a Fidia, «dai seni ritti e dal corpo
morbidamente flessuoso» secondo l’ekphrasis di Niceta Coniata. La sua
presenza nel Foro di Costantino non fu messa in discussione dalla
presunta iconoclastia di nessun illustre ospite islamico, ma dal
fanatismo dei crociati latini, che la distrussero nel 1204. Ancora a
metà del XVII secolo un ottomano religioso come Evliya Celebi, nel pieno
fiorire dell’islam turco, esaltava la magia delle sculture di
Costantinopoli e segnalava ai viaggiatori la bellezza della «figura
femminile dalle graziose guance» che sovrastava la colonna di Arcadio.
La
verità è che non mai esistita nell’Islam, in termini strettamente
scritturali o teologici, ma neppure in termini pratici, una questione
dell’immagine. La figuratività islamica, bene attestata anche per le
immagini sacre, come dimostra la lunga e meravigliosa consuetudine di
raffigurazione del viaggio notturno di Maometto verso Gerusalemme, della
sua ascesa ai cieli e della sua visita al paradiso e all’inferno, è
passata, dall’Ottocento ai giorni nostri, «dalla rarità alla
profusione», per citare il libro di Silvia Naef su La questione
dell’immagine nell’Islam (ObarraO Edizioni).
Ad avercela con
l’immagine è solo l’esigenza di immagine che si è data l’Is, che ammanta
di panni religiosi la violenza terrorista contro l’Occidente.
Nascondere le nostre antichità significa sfregiare di nuovo quelle di
Ninive, denigrare la millenaria tradizione che rappresentano e che per
secoli e secoli l’islam ha preservato, oltraggiare il sacrificio di
archeologi come Khaled Muhammad al-Asaad, il conservatore delle
antichità della città di Palmira, che l’ha tutelata fino alla morte
dalla furia di un esercito di vandali. Velare le statue capitoline di
Roma, nasconderle come vergognose o timorose, è una gaffe anche verso
l’antica cultura persiana e dunque verso Rohani stesso, se per una
sfumatura minima può accomunare alla barbarie della sanguinaria ala
estremista dell’Islam contemporaneo la grande e complessa tradizione che
il suo Paese e la sua religione rappresentano.