mercoledì 27 gennaio 2016

Repubblica 27.1.16
Lo sguardo giusto su Teheran
di Roberto Toscano

COME già dimostrano i primi risultati degli incontri sia a livello governativo che imprenditoriale, la visita di Hassan Rouhani a Roma riveste un consistente interesse economico. Con i suoi quasi 80 milioni di abitanti, l’Iran è un Paese interessante per l’economia italiana.
HA una popolazione giovane, una classe media estesa e molto “occidentale” nei gusti e nelle aspirazioni. Dal settore energetico alla meccanica ai prodotti di alta gamma (nei
mall di Teheran primeggiano le grandi firme italiane) l’Italia è già molto presente in Iran, e potrà esserlo ancora di più ora che l’ostacolo delle sanzioni si avvia ad essere gradualmente rimosso.
Con Rouhani e il suo ministro degli Esteri Zarif, tuttavia, gli interlocutori italiani non hanno parlato solo di economia, ma anche di politica. In un momento in cui Medio Oriente e Nord Africa sono devastati da un processo di destabilizzazione generalizzata — di cui l’Is è ad un tempo conseguenza e causa — è giusto che l’Italia, che non può certo considerarsi al riparo dagli effetti di quella destabilizzazione, cerchi di verificare in che misura l’Iran possa contribuire, a partire dalla Siria, alla ricerca di soluzioni diverse da quella dello scontro violento. Lo ha detto molto chiaramente, dopo l’incontro con Rouhani, il presidente del Consiglio Renzi: «Con l’Iran al tavolo internazionale sarà più facile vincere questa sfida al terrorismo e allo Stato Islamico ». È lo stesso concetto espresso nel breve comunicato emesso al termine dell’incontro fra Rouhani e papa Francesco, dove si sottolinea «il ruolo importante dell’Iran, insieme ad altri Paesi della regione, per promuovere adeguate soluzioni politiche alle problematiche che affliggono il Medio Oriente ». Valutazioni che si contrappongono in modo radicale alla clamorosa opinione espressa in questi giorni dal ministro della Difesa israeliano Yaalon secondo cui, dovendo scegliere tra Is e Iran, sarebbe meglio preferire l’Is.
Non si tratta di attribuire all’Iran finalità necessariamente coincidenti con le nostre, ma di vedere se e come raggiungere le necessarie convergenze in un momento in cui il governo presieduto da Rouhani sta puntando tutto, sia dal punto di vista degli equilibri interni che dell’economia, su un rapporto con il mondo esterno in cui la collaborazione possa prevalere sulla contrapposizione.
L’Italia non da oggi crede nella possibilità di sviluppare i rapporti con l’Iran puntando fra l’altro sulla grande simpatia che, come può verificare chiunque abbia occasione di visitare il Paese, gli iraniani nutrono nei confronti dell’Italia, un vero e proprio pregiudizio favorevole che è particolarmente accentuato negli ambienti riformisti, dove non si dimentica che l’Italia fu il primo Paese occidentale a tendere la mano al presidente Khatami, e anche in quelli del centro moderato del regime, convinti che l’Italia più di altri Paesi possa accompagnare l’Iran nel suo processo di modernizzazione economica e integrazione nel sistema internazionale su una base di mutuo interesse e senza secondi fini. Al riguardo è interessante che le teorie cospirative tanto diffuse nell’opinione pubblica iraniana non riguardino mai l’Italia. Fra l’altro questa assenza di sospetto nei nostri confronti permette a noi meglio che ad altri di sollevare — come risulta sia avvenuto nel corso dei colloqui — temi politicamente delicati come i diritti umani e in particolare la pena di morte, su cui l’Iran, assieme a Cina e Arabia Saudita, detiene un inaccettabile primato. In un momento in cui si celebra la Giornata della Memoria in ricordo della Shoah è comprensibile che si torni a condannare con fermezza ogni forma di negazionismo e antisemitismo. Appare però ingiustificato ignorare le non superficiali distinzioni che su questo come su altri temi esistono fra il presidente Ahmadinejad, tristemente famoso per la vergognosa “Conferenza sull’Olocausto” del 2006, e il presidente Rouhani. A fine 2014, dopo oltre un anno di presidenza Rouhani, il quotidiano israeliano Haaretz pubblicava un’inchiesta molto positiva sulla politica di Rouhani nei confronti della comunità ebraica in Iran (circa 20 mila persone), sottolineando l’importanza di segnali come l’autorizzazione alle scuole ebraiche di chiudere il Sabato nonché la concessione di consistenti aiuti statali all’ospedale ebraico di Teheran.
È giusto restare vigili e legare l’apertura nei confronti di Teheran, come del resto è avvenuto nel caso nucleare, a concreti comportamenti dell’Iran, cui non si deve smettere, in particolare, di ricordare che non è accettabile oltrepassare il confine fra opposizione alle politiche di Israele e rifiuto di riconoscere il suo diritto ad esistere. Andrebbe però evitata un’analisi piatta e dogmatica di un Paese dinamico, politicamente variegato anche all’interno dello stesso regime e socialmente in trasformazione che è sbagliato rappresentare come monolitico ed immutabile. Chi manifesta oggi un aprioristico scetticismo nei confronti della possibilità di un dialogo sostiene che la Repubblica Islamica non è e non può essere uno Stato normale che valuta pragmaticamente i propri interessi nazionali. L’accoglienza di Rouhani a Roma dimostra che l’Italia è convinta che non sia così. In questo non è lontana, sarebbe bene ricordarlo, dalla valutazione di fondo su cui si è basata, con il presidente Obama, la svolta della politica iraniana degli Stati Uniti. Una svolta che ha permesso l’accordo nucleare di Vienna grazie a un metodo negoziale che potrebbe oggi essere esteso, come ha accennato a Roma il presidente Rouhani, ad altri temi critici.