Repubblica 26.1.16
Libia
Una giungla di bande e tribù serve un’alleanza con i libici per sconfiggere i jihadisti
Non è più tanto in discussione se intervenire o meno in Libia. Il problema che si pone è quando e come
Un
intervento militare straniero potrebbe aumentare il caos ed è temuto
dalle grandi società petrolifere Ma ormai il problema che si pone è solo
il “quando” e il “come”
di Bernardo Valli
NON è
più tanto in discussione se intervenire o meno in Libia. Il problema che
si pone è quando e come. I militari della coalizione impegnata contro
lo Stato islamico in Iraq e in Iran ormai da tempo ispezionano il
terreno e valutano le forze da affrontare. Il generale Joseph F.
Dunford, capo di stato maggiore americano, è stato esplicito: Barack
Obama gli ha dato l’ autorizzazione ad agire. E la concertazione con gli
alleati inglesi, francesi e italiani ha occupato l’intera scorsa
settimana nelle varie capitali. Le ricognizioni clandestine, compiute da
tempo, hanno consentito di stimare la presenza jihadista di Daesh
(acronimo di Stato islamico) una minaccia crescente e senz’altro la più
grave a ridosso dell’Europa. I terroristi sarebbero circa tremila e
sarebbero in aumento da quando la Turchia rende più difficile il
passaggio del confine ai volontari diretti in Siria e in Iraq, e quindi
la Libia è diventata una spiaggia più raggiungibile. L’accesso
dall’Africa subsahariana non presenta seri ostacoli. Lo Stato islamico
ha già il controllo su quasi duemila chilometri di costa mediterranea,
con Sirte, la città di Gheddafi, come capitale.
Uno dei comandanti
è Abu Ali al-Anbari, un iracheno un tempo ufficiale dell’esercito di
Saddam Hussein. Anbari è arrivato dal Mediterraneo con una nave da
crociera. Un altro capo conosciuto per le sue imprese in Medio Oriente,
il siriano Abu Omar, occupa un posto di rilievo nella gerarchia militare
della Sirte. Sempre secondo la Cia, Abu Nabil, un altro capo arrivato
in Libia dalla Valle dell’Eufrate è stato ucciso durante un
bombardamento americano. L’organizzazione militare jihadista si sta
estendendo rapidamente. La conclusione del generale Dunford, venerdì
scorso di passaggio a Parigi, è che non c’ è tempo da perdere.
Ma
l’azione militare deve avere l’autorizzazione del nuovo governo libico
di unione nazionale, formato in dicembre in Marocco con l’accordo
dell’Onu. E quel governo è stato bocciato ieri dal Parlamento di Tobruk
che lo ha giudicato troppo numeroso (32 membri; quindi il primo
ministro, Fayez el Sarraj, ha adesso una settimana di tempo per
presentarne un altro più smilzo. Ma oltre al carattere pletorico del
nuovo governo non andrebbe a genio ai deputati di Tobruk l’articolo
dell’accordo raggiunto in Marocco secondo il quale sarebbero affidate a
Serraj le funzioni di capo supremo dell’esercito libico. Il generale
Khalifa Haftar che ha le sue milizie non è d’ accordo. E Haftar è
potente. È uno degli avversari più efficaci dello Stato islamico.
L’operazione
libica si presenta complessa perché il paese è una giungla di tribù e
di gruppi autonomi armati. Un intervento militare straniero potrebbe
aumentare il caos. Invece di raccogliere, di unire le forze contro lo
Stato islamico potrebbe provocare un rigetto dell’invasore straniero e
infedele, e favorire gli islamici. O frantumare ancora di più il mosaico
tribale o dei clan intensificando le rivalità. Non a caso le società
petrolifere occidentali, che operano grazie ad alleanze con i vari
gruppi armati, ai quali versano gli “affitti” dei pozzi di estrazione e
delle pipelines dirette al mare, sono scettiche o contrarie a un
intervento militare occidentale. Sono invece in favore di un’azione
diplomatica paziente che cerchi di ricucire il paese lacerato.
Nessun
paese della coalizione pare comunque disposto a inviare corpi di
spedizione. La tattica da adottare resta ovviamente segreta. Ma le
guerre asimmetriche hanno insegnato che un esercito tradizionale riesce a
spuntarla raramente nel confronto con bande armate che alimentano una
guerriglia, che attaccano e fuggono, favorite dal terreno e dalla
popolazione. La coalizione che si prepara punta quindi sulle incursioni
aeree e su rapide operazioni di commando. Le quali avranno difficilmente
risultati positivi in tempi rapidi senza un’ azione politica parallela.
Il
panorama politico libico è frastagliato. Oggi esistono di fatto tre
principali autorità, se si escludono lo Stato islamico e i piccoli o
medi gruppi armati che agiscono spesso autonomamente. C’è un governo di
salvezza nazionale, un governo libico provvisorio e un governo di unione
nazionale. Quest’ultimo, formato il 19 gennaio, e appena bocciato dal
Parlamento di Tobruk, opera da Tunisi ed è presieduto da Fayez
el-Serray, uomo d’affari tripolitano. Esso dovrebbe rappresentare un
certo numero di regioni del paese in frantumi. Col tempo dovrebbe
insediarsi a Tripoli. Dove però c’ è il governo di salvezza nazionale,
appoggiato da milizie spesso islamiste poco disposte a cedere il posto.
Il terzo governo, quello provvisorio di Baida, quando il parlamento di
Tobruk avrà legittimato il governo di unione nazionale, potrà rinunciare
al suo ruolo.
Gli avvenimenti del 2011, che portarono alla fine
del regime di Gheddafi, hanno sollevato polemiche. Molti rimpiangono il
defunto, folle raìs, sostenendo che lui sapeva tenere unito il paese. In
realtà quando l’aviazione anglofrancese aiutò i ribelli la secessione
della Cirenaica era già un fatto compiuto e il regime si stava
sfaldando, sotto l’influenza delle “primavere” d’Egitto e di Tunisia. L’
errore fu nel non guidare la transizione. Per la storia e la geografia
l’Italia potrà difficilmente sottrarsi all’impegno che sembra
profilarsi. Se non si presenteranno altre scelte, il solo suggerimento è
quello di agire insieme ai libici alleati, e il più possibile
attraverso un’azione politica. Ma i rischi restano inevitabili.
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Il vero errore fu non guidare la transizione del dopo Gheddafi