Repubblica 25.1.16
Così il ritorno delle frontiere spezza il sogno dell’Europa
di Paolo Rumiz
NE
so qualcosa di frontiere che si fanno e si disfano. Sono nato a
Trieste, a uno sputo dalla Jugoslavia, e non basta. Come I figli della
mezzanotte di Salman Rushdie, son venuto al mondo la stessa notte in cui
la frontiera veniva tracciata attorno alla città. Era il 20 dicembre
del 1947, e i militari angloamericani con le truppe di Tito, tra una
long size e una slivovica, piantavano allegramente i paletti di
demarcazione mentre mia madre perdeva le acque. La nonna materna ci
aveva fatto il callo, e me ne raccontava di storie. Aveva imparato a
convivere con la tragicommedia proprio lì, sul confine più mobile
d’Europa. Senza mai muoversi da Trieste aveva cambiato sei bandiere:
austriaca, italiana, germanica, jugoslava, del Governo militare alleato e
dell’Italia democratica.
Da adulto mi sono tenuto in allenamento.
Di confini ne ho conosciuti abbastanza, quelli veri intendo, con la
polizia che ti guarda in cagnesco e ti porta via per ore il passaporto.
Con la vecchia “Jugo” inizialmente fu un affar serio. Ti perquisivano da
capo a piedi, e le Drugarice, le donne in divisa, mi mettevano paura.
Nel 1985 presi il Lubiana-Mosca e al confine con l’Ucraina, sotto un
nubifragio, l’intero treno venne sollevato su martinetti per
l’adattamento dei carrelli allo scartamento sovietico. Fu un’attesa di
sei ore, in mezzo a un mare di binari, con cani lupo e fasci di
fotoelettriche tipo Auschwitz. In compenso, nel dicembre del 1989, vidi
spalancarsi uno dei confini più duri del mondo, quelle rumeno, con le
facce di bronzo dei poliziotti lì a sorridere dopo avermi brutalmente
respinto 24 ore prima.
Una notte di primavera del 1991, con la
Jugoslavia in agonia, mentre dormicchiavo sul wagonlit per Belgrado,
miliziani croati salirono a bordo e passarono al setaccio il mio
bagaglio, facendo scendere alcuni serbi sgraditi a suon di bestemmie.
Era l’inizio della guerra dei Balcani. Ma l’Europa intera non aveva
pace, sulle frontiere era tutto un balletto di apri e chiudi. Due anni
prima, in Ungheria, avevo visto cadere il primo pezzo di Cortina di
Ferro, e a tutto avrei pensato allora, tranne che l’Ungheria, nel 2015,
sarebbe stata la prima a rimettere fili spinati sul suo confine. Nel
2001, il mitico Kyber Pass fra Pakistan e Afghanistan, sbarrato per via
della guerra con i Taliban, si sciolse un mattino come neve al sole
davanti a un interminabile convoglio di allegri mujahiddin armati fino
ai denti provenienti da Peshawar, che mi aprirono la strada per
Jalalabad.
Ho combattuto tutta la vita perché il confine attorno a
Trieste cadesse e, quando nel 2007 è stato abolito, ho fatto festa
grande. Siccome s’era pensato bene di abbatterlo la notte del suo
60esimo anniversario, e siccome quella data coincideva col mio
compleanno tondo, si fece baldoria fino all’alba assieme agli sloveni in
un’osteria per l’appunto di frontiera. Era un appartato passaggio
pedonale, e la gloriosa transenna bianco-rosso-blu fu tagliata a fette
in mezzo ai brindisi e distribuita come souvenir. Con che gioia noi
italiani, e ancora di più gli sloveni, new entry dell’Unione,
pronunciammo la parola «Europa»!
Il mattino dopo andai in soffitta
a rivedere il pezzo di filo spinato sovietico che la polizia ungherese
mi aveva consentito di portarmi a casa 18 anni prima e pensai che era
finita un’epoca.
Ora che le transenne tornano di moda e la
macchina dei reticolati si rimette in moto nel cuore d’Europa tagliando
perfino — in Istria — sentieri che avevo sempre percorso in libertà, ora
che l’euroscetticismo dilaga, non posso evitare rabbia e malinconia. Ma
come? Ci siamo dimenticati dei timbri, dei visti, dei tignosi
cambiavalute, delle dogane e dei treni fermi in mezzo alla campagna? Io
quella memoria non l’ho persa, e ricordo come piansi di felicità una
sera a Berlino, quando — sbarcato dall’aereo per la prima volta senza
esibire i documenti — mi sentii chiedere dal tassista “ Vier und zwanzig
euro, bitte”, come niente fosse, lì nel Paese del marco onnipotente. E
ancora mi commuovo, quando metto le mani in tasca e trovo spiccioli di
euro coniati da Paesi che fino al 1945 si erano combattuti.
Ma
dopo la rabbia, vengono le domande. Perché quelle linee ostinatamente si
riformano? Può essere spiegato solo col populismo o l’ondata migratoria
degli Esiliati?
Forse c’è qualcosa che non abbiamo capito di
quelle tracce divisorie spesso ereditate dall’antichità o dal medio evo.
Ripenso al confine di casa mia e ricordo che quando cadde, poco più di
sette anni fa, dietro la gioia si fece strada un senso di perdita, che
tentai di ricacciare perché inammissibile, indegno di essere
manifestato. Solo più tardi capii: con quella frontiera “porosa”, non
certo paragonabile con quelle sovietiche, se ne andava un elemento di
ordine del mio mondo. Qualcosa che, cadendo, mi faceva sentire più
esposto al peggio del Globale, ai rovesci di borsa, alle pandemie e alla
scomparsa dei luoghi.
Non volevo ammettere a me stesso che a
quella linea mi ero un po’ affezionato. Nell’inconscio, essa era la
garanzia che “quelli dell’altra parte” restassero diversi da me, e io
come viaggiatore mi nutrivo di quella diversità. Non so che farmene di
un mondo-minestrone in cui tutti si somigliano e, specialmente oggi che
l’Europa scricchiola, mi rendo conto che ci manca una profonda
riflessione sui confini e sul loro valore anche simbolico, una
riflessione che vada oltre la retorica del Pianeta necessariamente privo
di asperità e di conflitti.
E qui, nel turbine dei pensieri, ce
n’è uno cui non posso sottrarmi. Se non ci sentiamo più protetti dai
muri esterni della casa comune, forse è anche perché una patria europea
non è mai nata. Né dentro né fuori di noi.