Repubblica 25.1.16
Qual è il vero volto dei nostri nemici
Invece di cercare ovunque persone da combattere, occorre impegnarsi a impedire gli atti ostili. È la lezione di Mandela
Nei totalitarismi si individua costantemente un responsabile lontano e collettivo di quel che non va nel mondo
Le riflessioni sul bisogno di avere sempre un avversario da eliminare
di Tzvetan Todorov
Tzvetan
Todorov è nato in Bulgaria, ma vive in Francia dagli anni Sessanta. Si è
occupato di critica letteraria e poi di temi quali il dialogo fra
culture diverse e ha indagato concetti come la civiltà e la barbarie
Durante
la mia infanzia e adolescenza in Bulgaria, paese che apparteneva allora
al «campo comunista», sottoposto quindi a un regime totalitario, la
nozione di «nemico» (vrag) era una delle più indispensabili e
utilizzate. Permetteva di spiegare l’enorme sfasamento fra la società
ideale, dove dovevano regnare prosperità e felicità, e la cupa realtà in
cui eravamo immersi. Se le cose non andavano bene come promesso, la
colpa era dei nemici. I nemici erano principalmente di due specie. C’era
innanzitutto un nemico lontano e collettivo, quello che chiamavamo
«l’imperialismo angloamericano» (una formula fissa), responsabile di
quello che non andava nel vasto mondo. Accanto a questo, c’era un nemico
vicino, fornito di un volto individuale e identificato in seno a
istituzioni che facevano parte della nostra esperienza diretta: la
scuola dove studiavamo, l’impresa dove lavoravamo, le organizzazioni di
cui facevamo parte. La persona designata come nemico aveva buoni motivi
per preoccuparsi: una volta che gli veniva appiccicata addosso questa
etichetta infamante, poteva perdere il lavoro, la possibilità di
frequentare la scuola, il diritto di vivere in una certa città, e a
tutte queste misure poteva far seguito la prigione o più facilmente un
campo di rieducazione, istituzione di cui la Bulgaria dell’epoca era
riccamente dotata.
Adottando questo approccio, i rappresentanti
delle autorità si comportavano in conformità con i precetti lasciati
dagli strateghi della rivoluzione, e in particolare da Lenin, fondatore
del regime totalitario comunista, che interpretava la vita sociale in
termini militari. Una simile situazione di conflitto giustifica
qualsiasi misura repressiva. Il totalitarismo è un manicheismo che
divide la popolazione terrestre in due sottospecie che si escludono a
vicenda e incarnano il bene e il male, e di conseguenza anche gli amici e
i nemici.
La stessa suddivisione rigida si ritrova fra i teorici
del fascismo nazista, e dunque la stessa importanza attribuita al
concetto di nemico. Carl Schmitt riduce la categoria stessa della
politica alla «discriminazione dell’amico e del nemico», assimilando a
sua volta la vita del cittadino alla guerra.
Consustanziale alle
concezioni totalitarie della storia, il concetto di nemico non gioca un
ruolo di primo piano nella vita dei paesi democratici, ma è utilizzato
sporadicamente nello stesso senso. In tempo di guerra, questo vocabolo
designa, per convenzione, il paese o l’organizzazione che si combatte.
Nel periodo della guerra fredda, il nemico era il comunismo nella sua
versione sovietica, e coloro che in patria manifestavano simpatia verso
di esso. Il nemico è invocato nel discorso del populismo demagogico, che
ama additare alla riprovazione popolare un personaggio colpevole di
tutti i mali che ci affliggono. A volte il nemico è identificato con una
popolazione specifica: gli immigrati dai Paesi poveri, i musulmani.
L’effetto di queste affermazioni è di instillare nella popolazione un
sentimento di paura, e dunque stimolare un numero importante di elettori
a votare per il partito che promette di far scomparire il nemico. Siamo
ai margini del quadro democratico.
Dovremmo allora, per non
essere accostati ai personaggi compromettenti che hanno utilizzato
questo termine in passato, rinunciare a usarlo? Una conclusione simile
sembra inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello che
attraversiamo, dove non abbiamo alcun problema a individuare il nemico,
poiché è un nemico che ci minaccia di morte. L’osservazione candida del
mondo intorno a noi non ci induce a pensare che ogni ostilità sia
scomparsa dalla faccia della terra.
Per poter conservare l’uso del
concetto di nemico in un regime democratico, è opportuno tuttavia
correggerne il senso. Al giorno d’oggi, un certo consenso si è venuto a
creare fra coloro che si interrogano sulla specificità della specie
umana: è diventato impossibile affermare che il combattimento, la
violenza, la guerra rappresentano la caratteristica dominante della
nostra specie. Se dovessimo attribuire questo titolo a un’unica
attività, sarebbe la cooperazione più della lotta all’ultimo sangue. Ed è
una caratteristica che riguarda tutte le popolazioni del pianeta.
Ci
ritroviamo allora non a individuare il nemico in un gruppo umano, ma a
ricercare la sua origine in un’ideologia o in un dogma, in un’emozione o
una passione. Gli individui diventano «nemici» solo parzialmente e
provvisoriamente. Se rinunciassimo a fare del nemico una sostanza a
parte, potremmo vedere in esso semmai un attributo, uno stato puntuale e
passeggero che si ritrova in tutti e in ognuno. Invece di eliminare i
nemici, ci si darebbe come compito di impedire gli atti ostili. È la
lezione che ci insegna il percorso di quel combattente esemplare che è
stato Nelson Mandela: riuscì ad abbattere un nemico imponente,
l’apartheid, senza versare una sola goccia di sangue, perché scoprì nei
suoi potenziali nemici uno «sprazzo di umanità», perché comprese le
ragioni della loro ostilità e riuscì in quel modo a trasformarli in
amici.
I paesi occidentali che hanno subito aggressioni
«terroristiche», come gli Stati Uniti o gli altri che sono seguiti, non
si sono impegnati su questa strada. I loro dirigenti hanno preferito
adottare la massima di Lenin secondo la quale bisogna «sterminare senza
pietà i nemici della libertà». All’indomani dell’11 settembre 2001, il
presidente Bush aveva assegnato come compito al suo Paese garantire con
tutti i mezzi possibili il trionfo della libertà sui suoi nemici. Con
l’occasione era stata addirittura creata una nuova categoria, quella dei
«combattenti nemici», che non godevano né dello status del criminale,
giudicato secondo le leggi nazionali, né di quello del prigioniero di
guerra, protetto dalle convenzioni di Ginevra: sono le persone che
popolano il campo di prigionia di Guantánamo. Il risultato di queste
diverse misure è stato, come sappiamo, un’estensione del terrorismo.
Non
si tratta, in questo caso, di una semplice inflessione semantica
nell’uso di una parola, di un dibattito esclusivamente filosofico.
Bisogna sbrigarsi ad abbandonare le etichette accecanti di cui
continuano a servirsi i dirigenti politici, che di fronte a
un’aggressione invocano «il nemico barbaro», «gli atti mostruosi», «i
personaggi diabolici». Comprendere il nemico consente di scoprire mezzi
specifici per combatterlo. L’uso della forza, militare o poliziesca,
deve restare sempre possibile, un attacco imminente dev’essere
fronteggiato con le armi. Ma a ciò si aggiunge un’altra conseguenza:
comprendere l’agente aggressivo dal suo punto di vista diventa il
preambolo indispensabile di ogni lotta contro di lui. Perché dietro gli
atti fisici ci sono sempre pensieri ed emozioni, e anche su di essi si
può agire. L’ostilità può essere motivata da un sentimento di
umiliazione, o dall’ingiustizia subita, o dalla collera, o da sogni di
potenza, oppure può essere il risultato dell’ignoranza. I nemici sono
degli esseri umani, come noi. Per neutralizzarli non dobbiamo servirci
necessariamente di bombe o di missili: ma ci sarà sempre bisogno di
coraggio e di perseveranza.
© Tzvetan Todorov / Ediciones El País, 2016. Traduzione di Fabio Galimberti