Repubblica 25.1.16
Il dovere di dire da che parte si sta
Il premier ha costruito il consenso sulle parole. Sorprende il suo silenzio
di Concita De Gregorio
NON
È difficile. È qualcosa che il presidente del Consiglio sa fare
benissimo, ci ha costruito il suo successo fin dai tempi in cui
moltissimi dei renziani di adesso lo detestavano.
DAI TEMPI
eroici, fondativi, della rottamazione. Non è complicato. Bisogna
scegliere un posto, meglio l’aula di Montecitorio ma va bene anche un
giornale, un programma tv del pomeriggio, una conferenza stampa a
Palazzo Chigi con o senza lavagna luminosa — e dire con estrema
chiarezza, con poche parole semplici, quello che si pensa. Cioè dire, in
modo così sintetico che possa persino diventare un hashtag su Twitter:
io, delle unioni civili, penso questo. Sono d’accordo, non sono
d’accordo, mi lasciano indifferente. I suoi collaboratori sapranno fare
di meglio, lo storytelling è fatto di parole chiave. Le piazze le loro
parole le hanno trovate: SvegliaItalia, Familyday. Ma farsi tirare a
destra e a manca dalle piazze non è lo stile della casa. Matteo Renzi ci
ha abituati, ed ha costruito il suo consenso, sulle sue proprie parole
divenute lessico. Inventate, nuove. Slogan, formule comprensibilissime.
Sul Jobs act, sulla riforma della scuola, sul Senato da rifare e sui
gufi. Stupisce, questa volta, sorprende il silenzio. Ha detto, il
premier: votiamo. Ma non ha detto lui cosa pensi e perché. Sarebbe
utile. Ai molti che si adeguano all’unisono per essere finalmente liberi
di adeguarsi ma soprattutto sarebbe interessante per i cittadini
elettori, tutti.
Perché il Paese, la maggioranza degli italiani, è
già altrove. È la politica a non essere in sintonia col tempo: è
successo spesso, quasi sempre, in materia di diritti. La politica oggi
discute di qualcosa che nella realtà è già un fatto. È in ritardo, al
rimorchio. Accadde per il divorzio, per l’aborto, per la riforma del
diritto di famiglia, per il delitto d’onore. È sempre stato così. Oggi i
diritti in ballo sono piuttosto quelli degli anziani, dei bambini, dei
malati. Le unioni tra chi vuole stare con chi sono qualcosa che esiste
da anni nella vita di tutti. Il fatto che le famiglie siano tutte
diverse, siano come sono, composte da due tre nove o dodici persone e di
quale orientamento sessuale, di quale legame di sangue o di interesse,
di affetto di occasione e comunque sempre di libera scelta è qualcosa
che accade tutto attorno a noi. Tutto attorno: anche nelle famiglie,
spesso declinate al plurale, di chi manifesta per il family day come se
ci fosse qualcuno che tifa per la famiglia e qualcuno che vuole
distruggerla, come se non fossero tutte famiglie. È intrisa di ipocrisia
e di menzogna questa falsa discussione fatta apposta per il manicheismo
imperante, pro o contro, bianco o nero: tifate. La realtà non è grigia,
è a colori. E non serve a niente, proprio a niente tirare in ballo il
Papa o Mattarella, contare quanti erano in piazza della Scala o
illuminare il Pirellone. Farsi suggestionare dai post, siano di Belen
Rodriguez o del tale card. o della popstar al top dei followers. Non
serve neppure spostare la discussione sui bambini, che come ciascuno sa
sono sempre incolpevoli e sempre — sempre — devono essere difesi dalla
disuguaglianza di principio. La libertà, la laicità. Questo è il punto.
E
già che ci siamo: nel discorso della legge, l’ipocrisia delle parole.
Perché se una debolezza ha il disegno di legge che andrà all’esame delle
Camere è questo: la paura di suscitare dissenso e dunque l’ipocrisia
delle parole. La Corte europea, le sentenze della Consulta lette per
intero e correttamente hanno detto la loro. Sono i nostri legislatori a
non essere in grado di farlo. Dunque aspettiamo, vediamo se il
presidente del Consiglio e il suo governo — almeno alcuni, non si
pretende tutti — sapranno e vorranno dire una parola chiara. Assumersi
la responsabilità. Come si dice in parole semplici: metterci la faccia.
Perché
come andrà a finire, la storia delle unioni civili, lo sappiamo. Si
faranno, è solo questione di tempo. Sono già fatte nella vita di
migliaia, milioni di persone.
Si tratta solo di capire quando, a
che punto della storia, la politica dei giovani riformatori ne prenderà
atto, e con che grado di autorevolezza, di libertà, di modernità. Tempi
moderni. Un vecchio film, un vecchio lessico. Difficile da rottamare,
tuttavia. A volte il vecchio storytelling torna utile. Coraggio.