Repubblica 23.1.16
La memoria necessaria
di Salvatore Settis
PERCHÉ
la Germania ha tanto successo nel mondo? Perché sa fare i conti con il
proprio passato, anzi assorbe la storia come ingrediente essenziale del
futuro. La diagnosi è di Neil MacGregor, il brillante direttore del
British Museum ora passato alla testa del nuovo Humboldt Forum di
Berlino, nel suo ultimo libro (Germany. Memories of a Nation, Knopf). In
un Paese come l’Italia, che coltiva la smemoratezza, la distrazione e
la superficialità come altrettante virtù, può sembrare una provocazione.
Ma proviamo a guardarci intorno. «L’America è famosa per essere
a-storica », ha dichiarato Obama, aggiungendo «dimenticare è uno dei
nostri punti di forza». Lo conferma il discorso d’insediamento di Bush
II, che invitava gli americani a dimenticare il Vietnam, perché «una
grande nazione non può permettersi memorie che fomentano discordia». Ma è
meglio promuovere l’amnesia di marca americana o la memoria storica
“alla tedesca”? La scuola italiana, riducendo di riforma in riforma lo
spazio della storia (e della storia dell’arte) propende per l’arte della
dimenticanza, forse più per sciatteria che per progetto.
Sul
ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la
conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson
(premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books.
Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa
ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e
inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi
all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui
che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria
lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e
sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo
quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da
Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è
essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere
in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una
visione falsamente pacificata. E la memoria del passato (anche recente)
mostra che la competizione senza contenuti annienta la democrazia. «Se
potessi cancellare una parola dal vocabolario americano, sarebbe
“competizione”» (Robinson), anche se «storicamente, l’America ha voluto
“competere” creando un sistema scolastico migliore di altri, accrescendo
gli investimenti in ricerca, credendo profondamente nella scienza e nei
fatti, accogliendo talenti da tutto il mondo, promuovendo sistemi di
sicurezza sociale » (Obama).
Quel che la scuola americana fa ora è
l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non
troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze
tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla
gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura
che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività. La
retorica della competitività spinge a diminuire la protezione dei
lavoratori, a devastare l’ambiente, a delocalizzare la produzione, a
inseguire la logica della crisi, augurandosi che colpisca altri Paesi:
ma è davvero questa, si chiede Robinson, la missione americana, avere la
meglio sulla Cina o sull’Europa? Per uscire da questa logica miope, è
necessaria la memoria e la conoscenza storica. Prendere coscienza della
storia vuol dire (come in Germania) scegliere di ricordare quel che si è
tentati di dimenticare. Accettare le proprie responsabilità rispetto al
passato vuol dire allenarsi a costruire il futuro con piena
responsabilità (fattore essenziale della democrazia).
Questa
conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la
storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei
cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze”
la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano
lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a
educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in
questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato
una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il
pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e
che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no),
dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.
Ma
qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in
un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo,
abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni
nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le
memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria»
(Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un
«mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il
futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della
democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?